Black Mirror
15.02.2018, Articolo di Martin Di Lucia (da “Fuori dalla Rete” – Gennaio 2018, Anno XII, n.1)
La statistica è chiara: chi passa più tempo su Facebook soffre di livelli di depressione più alti di chi ci sta meno. Questo perché a causa dell’interazione con in Social Media viene rilasciata nel cervello una sostanza chiamata Dopamina; la stessa sostanza che ci fa stare bene quando fumiamo, quando beviamo e quando scommettiamo; in altre parole crea dipendenza. È per questo che contiamo i like e che controlliamo spasmodicamente le notifiche sul cellulare; e se i like diminuiscono: “che è successo? ho fatto qualcosa di sbagliato? non piaccio più?”; e quando qualcuno ci toglie l’amicizia: trauma esistenziale. Abbiamo limiti di età per fumare, scommettere, per bere alcol, ma nessun limite per l’uso dei social media. Se siamo in compagnia dei nostri amici e messaggiamo con qualcuno che non è li, c’è un problema, c’è una dipendenza. Se siamo ad un incontro con persone che dovremmo ascoltare, con cui dovremmo interagire, e mettiamo il cellulare sul tavolo, mandiamo un segnale a tutti: “non siete più importanti di ciò che arriverà qui”. Se quando ci svegliamo guardiamo il telefono ancor prima di dire buongiorno a chi dorme con noi, c’è una dipendenza. Questo succede, continuamente, e non riusciamo ad ammetterlo perché ne siamo completamente assuefatti. Come tutte le dipendenze, col tempo distrugge relazioni, ruba tempo, denaro, peggiora la vita.
Gratificazione istantanea
Viviamo in un mondo di gratificazioni istantanee; vuoi comprare qualcosa? Click su Amazon e il giorno dopo il corriere bussa al campanello; vuoi guardare un film o una serie tv? Click su Netflix e parte la maratona; non si cercano più gli orari del cinema sui volantini o i manifesti. Vuoi conoscere una persona? Clicca Like e Commenta: azzeramento di ogni imbarazzo o capacità di cogliere i segnali di sguardi e toni di voce. In un mondo fatto di Facebook e Whatsapp siamo diventati tutti bravi a mettere filtri alle cose, a mostrare al mondo che la nostra vita è magnifica anche se siamo depressi; tutti fanno i duri, tutti hanno capito tutto, ma la realtà è che pochi sono duri e la maggior parte non ha capito nulla e quasi mai si ha idea di cosa si dice. Da piccoli l’unica approvazione che ricerchiamo è quella dei nostri genitori, ma crescendo iniziamo a cercare l’approvazione dei nostri pari, che ci permette di acculturarci fuori dal circolo familiare, in un contesto più ampio. E’ un momento in cui teoricamente dovremmo imparare a fidarci degli altri. Quel che sta succedendo è che con l’accesso incontrollato all’uso di questi dispositivi che inducono una produzione di dopamina e l’intorpidimento che ne deriva, il cervello ne rimane condizionato, e sempre più persone al giorno d’oggi non sanno più come creare relazioni profonde e significative, perché non si sente più il bisogno di imparare i meccanismi sociali. Ammettiamolo, quante delle nostre amicizie sono meramente superficiali? Di quanti nostri amici ci fidiamo davvero, su quante persone facciamo reale affidamento?
Ci divertiamo insieme, ma sappiamo in cuor nostro che non ci faremmo alcun problema a mollarli se trovassimo qualcosa di meglio da fare. Non siamo più capaci di avere relazioni profonde perché abbiamo interrotto l’allenamento delle capacità necessarie per instaurarle e mantenerle; e in momenti di sconforto non ci rivolgiamo più a delle persone ma a un dispositivo, ci rivolgiamo ai social. Cosa che ci offre un sollievo temporaneo, ma restando in realtà soli, in un loop paradossale di apertura totale al mondo e di chiusura ermetica in noi stessi, e quindi sempre meno empatici verso il prossimo. L’alcol non fa male, troppo alcol fa male. Scommettere è divertente, scommettere troppo è pericoloso. Non c’è niente di male nei social media, è lo squilibrio il problema, la ricerca degenerativa della gratificazione istantanea. Per la gratificazione sul lavoro e la stabilità delle relazioni non c’è un’App. Sono processi lenti, oscuri, spiacevoli ed incasinati. Abbiamo secolarizzato la santità della pazienza. Per cose davvero importanti come la felicità, la gratificazione, l’amore, la sicurezza in sé stessi e nelle proprie capacità, ci vuole tempo; il percorso è arduo e lungo. Rischiamo di vivere un’intera esistenza senza mai trovare la felicità, senza mai raggiungere una soddisfazione completa, nel lavoro o nella vita; e questa è solo la migliore delle ipotesi; il numero di suicidi per depressione è aumentato a dismisura e in maniera gravissima. Il concetto di equilibrio era estremamente importante per i greci – basti pensare alla proporzione perfetta nell’architettura e nelle statue – soprattutto come concetto filosofico. La giusta misura, il giusto mezzo, è una delle chiavi della filosofia aristotelica. Aristotele aveva presente il concetto di limite, e ogni virtù poteva o eccedere o mancare in quantità, venendo deformata. La giusta misura, o il metron, era la chiave dell’equilibrio sia del corpo che dell’anima.
Millennials come scaricabarile
Il trend degli ultimi anni sembra essere quello di additare i Millennias come narcisisti, egocentrici, dispersivi, pigri, e pensano che tutto gli sia tutto dovuto. Se gli si prova a chiedere “cosa volete?”, pensate che risponderanno “Vogliamo avere uno scopo. Vogliamo lasciare il segno”?
Affatto, vi risponderanno “Vogliamo il Wi-fi e l’ultimo iPhone” e molti di essi lo ottengono; ma ciò nonostante non sono mai felici. Questo succede perché c’è qualcosa che è andato storto, qualcosa che è mancato. Troppi giovani e giovanissimi crescono sotto l’effetto di (parole non mie) Strategie Fallimentari di Educazione Familiare. Viene costantemente ripetuto loro di essere speciali, di poter avere tutto ciò che vogliono dalla vita, per il solo fatto di volerlo. Si salvano da debiti scolastici e bocciature, o hanno voti alti non per merito, ma perché i genitori si lamentano con gli insegnanti, e gli insegnanti non vogliono avere rogne con i genitori. Vengono conferiti premi anche a chi arriva ultimo, svalutando il riconoscimento di chi lavora sodo. Questi giovani adulti con un livello d’istruzione teoricamente più alto delle precedenti generazioni, hanno così raggiunto un grado di autostima falsato dall’ambiente e dall’educazione talmente elevato da sfociare in un narcisismo esasperato, come dimostra l’ormai sdoganata pratica dei selfie, da cui è derivata l’ironica definizione di generazione Instagram. Un gruppo d’individui cresciuto in una società improntata al capitalismo e al consumo, ma al contempo perennemente insoddisfatto poiché assillato da una sempre maggiore incertezza economica. I giovani di questa generazione si autodefiniscono idealisti, volenterosi ed intelligenti, ma di ogni cosa vedono solo il traguardo e non il percorso, vedono solo la cima e non la montagna che c’è da scalare per raggiungerla, perché è ciò che gli viene costantemente indicato. Una volta usciti dall’università e gettati nel mondo reale, in un istante scoprono di non essere così speciali, che i genitori non possono fargli avere una promozione o lamentarsi con i datori di lavoro, che se arrivano ultimi non ricevono alcun premio e che non possono ottenere qualcosa solo per il semplice fatto di volerla. In un attimo l’idea che hanno di sé stessi va in frantumi. Stiamo passando il testimone ad una generazione che cresce con livelli di autostima incontrollata e la responsabilità è nostra. Noi che abbiamo vissuto metà della nostra esistenza nell’era analogica, delle lunghe attese, delle cose che si aggiustano, dobbiamo reimparare per primi a superare il bisogno di gratificazione immediata, a ricercare la gioia, a ritrovare il gusto della soddisfazione che si ottiene solo quando si lavora duro e per lungo tempo, dobbiamo impegnarci a capire come ricostruire la sicurezza che ci hanno lasciato i nostri padri, e trovare un equilibrio tra vita e tecnologia per poterlo passare ai più giovani, perché il rischio concreto è che i Millennials, figli del digitale, dei social, del tutto e subito, figli nostri, finiscano per non avere le capacità di risolvere molti dei problemi che chi li ha preceduti gli sta lasciando in eredità.
Specchio Nero
La tecnologia aveva promesso di liberarci, invece ci ha insegnato ad arretrare rispetto al mondo reale e a rinchiuderci nella distrazione e nella dipendenza. Ma ciò che davvero spaventa e turba non è la tecnologia in sé, ma chi ne fa uso, e come. L’abbondanza di Smartphone, Computer, Tablet, Televisori di cui ci circondiamo mostra quanto la società sia diventata dipendente dagli schermi e quanta parte della vita viviamo attraverso di essi. Non più solo per comunicare o divertirci, ma incidono anche su come formiamo le nostre prime impressioni e su come prendiamo decisioni vitali e creiamo ricordi.
Più la tecnologia diventa umana, con computer e programmi che anticipano i nostri bisogni, più aumenta il rischio che quella stessa tecnologia venga usata per trattare gli altri con meno umanità, al punto che le persone difendono il loro diritto di maltrattare, condannare e giustiziare via social altri uomini. Come? Considerandoli oggetti, poiché non sono li in carne ed ossa, ma imprigionati nello schermo. La tecnologia porta in dote rischi e benefici: in Blade Runner, Rick Deckard afferma che “i replicanti sono come ogni altra macchina: possono essere un vantaggio o un rischio. Se sono un vantaggio, non sono un problema mio”. Smartphone, intelligenza artificiale, i social, i droni, le realtà virtuale, l’internet delle cose, possono essere indiscutibilmente un vantaggio, ma dopo i primi anni di foga tipica dei neofiti, iniziamo a percepirli come problematici, critici, distopici e agghiaccianti. Ed ecco che l’ultimo specchio rimasto per guardarci in faccia per ciò che siamo è uno specchio nero; quando spegniamo il computer o lo smartphone, riflessi nel buio dello schermo siamo messi di fronte a noi stessi, alle nostre incongruenze e alle nostre paure, stentando a riconoscerci. Non è e non può essere la tecnologia la causa dell’alienazione e della disumanizzazione del mondo: il progresso non è altro che uno strumento che, messo nelle mani degli uomini, ne amplifica le facoltà, esaltandone pregi e difetti. È forse questo l’unico barlume di speranza: sta a noi scegliere. Sta a noi stabilire la differenza fra ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è vero (e verificato) da ciò che è falso, sta a noi tracciare un confine da non superare. Sta a noi rompere lo Specchio Nero.