De Sanctis, “Viaggio elettorale in alta Irpinia. Fantasmi notturni a Lacedonia”
20.01.2018, Documento storico (da “Fuori dalla Rete” – Gennaio 2018, Anno XII, n.1)
Francesco De Sanctis “Viaggio elettorale in alta Irpinia. Gennaio 1875”.
1° puntata. “Fantasmi notturni a Lacedonia”
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Prefazione del prof. Gennaro Cucciniello (dal sito www.gennarocucciniello.it)
Ritengo interessante riprodurre alcune pagine di cronaca e di riflessione, scritte da Francesco De Sanctis a riepilogo e commento della sua esperienza elettorale in alta Irpinia nel gennaio del 1875 (il grande critico, nato a Morra nel 1817, aveva 57 anni e morirà a Napoli nel 1883).
Partiamo da alcuni dati. Nel 1861, all’indomani dell’unità d’Italia, gli iscritti alle liste elettorali erano stati 418.696, un po’ meno del 2% dell’intera popolazione del Regno. La legge elettorale riproduceva in sostanza quella piemontese del 1848: per votare bisognava aver compiuto 25 anni, saper leggere e scrivere e pagare almeno 40 lire di imposte dirette all’anno. Presero parte alla votazione del 27 gennaio 1861 solo 239.583 elettori, cioè il 57,2% degli iscritti. Dopo 15 anni, nel 1876, gli elettori saranno 605.007 e i votanti 358.258, cioè il 59,2%. Solo nel 1882 sarà varata una nuova legge elettorale, Zanardelli-Depretis, che abbasserà il limite d’età da 25 a 21 anni, porrà come requisito essenziale la capacità e non il censo, abbasserà il censo –lasciato come alternativa all’esame di II elementare- da 40 lire a 19,80. Gli elettori così passeranno a 2.017.829, pari al 6,9% della popolazione. Nelle elezioni del 22 ottobre 1882 voteranno in 1.223.851, cioè il 60,7%.
Scrive lo storico inglese Denis Mack Smith che “la penetrante diagnosi desanctisiana dell’Italia degli anni intorno al 1870 è, ancor oggi, di notevole interesse ed utilità pratica. Egli si interrogò profondamente sulla natura della democrazia e del liberalismo; fu uno dei primi ad indicare l’esistenza di una “questione meridionale” e ad avvertire l’urgente necessità di unificare il paese riducendo le diversità fra le varie classi sociali e le varie regioni. Come scrittore politico, ebbe modo di insistere sulla necessità di un sistema bipartitico e di una reale alternanza al governo di uomini e programmi. Una delle sue richieste più insistenti fu volta ad ottenere uno sforzo particolare nel campo dell’istruzione popolare, con l’obiettivo di far partecipare maggiormente le masse alla vita pubblica. Egli si preoccupò anche dell’educazione politica degli intellettuali in Italia, perché una delle carenze del paese era la qualità della sua élite dominante, ed il distacco delle classi colte dalla politica attiva. In una frase rimasta famosa, disse che la scuola non avrebbe dovuto essere un’arcadia o una pura accademia ma avrebbe dovuto anche essere coinvolta nei problemi pratici e nella vita quotidiana. Pensava, infatti, che il sistema di educazione di allora producesse troppa vuota retorica, “quel vizio ereditario della nostra decadenza, che divenne il tarlo dell’intelligenza italiana… che nasconde la vacuità del pensiero e la freddezza del sentimento”. De Sanctis, benché il suo contributo più sostanzioso alla vita nazionale vada cercato altrove (nei suoi mirabili scritti di critica letteraria), sedette in Parlamento per più di vent’anni, e fu ministro non meno di cinque volte. Giudicando in prospettiva, possiamo oggi dire che probabilmente egli possedeva un’intelligenza troppo critica per essere un vero e proprio uomo politico di successo, e forse anche uno spirito e un senso dell’ironia troppo acuti. Era più incline alla teoria che alla pratica, ed era inoltre dotato di troppo senso morale per adattarsi supinamente a tutto quello che incontrava nella vita pubblica. Egli era stato tra coloro che avevano creduto negli eventi del 1859-61 fino a sperare o ad immaginare che il compimento del risorgimento nazionale avrebbe presto reso l’Italia ricca e potente. Poi, la realtà degli anni seguenti lo rese sempre più scettico e disilluso. In contrasto con l’enorme entusiasmo del 1860, notava lo svilupparsi di “uno stato di atonia politica che è peggiore del malcontento”. Anche da parte degli intellettuali si “guarda con una cert’aria di diffidenza e quasi di disprezzo gli uomini politici… come se la politica fosse privilegio di pochi e non dovere di tutti”. Ed ancora peggio, sembrava prendere piede tra la gente la pericolosa concezione per cui “non si può essere insieme un uomo politico ed un uomo onesto”. Una riflessione ancora attuale. Nelle elezioni del novembre 1874 De Sanctis era stato eletto nel suo precedente collegio di Sansevero, ma era candidato anche nel suo collegio nativo, Lacedonia, dove si trovò in ballottaggio con un notabile locale. Nel dicembre 1874, a Lacedonia, egli raccolse un numero di voti sufficiente a vincere le elezioni supplementari, ma il risultato fu invalidato a causa di un’irregolarità di poca importanza, e si dovette procedere ad una nuova votazione nel gennaio 1875. Lo scrittore questa volta decise di partecipare attivamente alla campagna elettorale nella zona. Fino ad allora egli aveva preferito isolarsi nella sua fama di figura di livello nazionale, ed aveva anche criticato la mancanza di dignità di “un uomo che personalmente va per le case a buscar voti”. Al suo arrivo a Lacedonia trovò un’aspra lotta tra due gruppi indistinti e mutevoli nelle loro alleanze a livello nazionale ma in aspro conflitto per la supremazia locale. Da quarant’anni egli non era tornato nel suo paese natale, e l’occasione gli si presentò come una sorta di scoperta, un viaggio sentimentale che stimolò la sua fantasia. Era per lui un’esperienza inconsueta trovarsi in quello che egli chiamò “un mondo quasi ancora primitivo, rozzo e plebeo”, ben lontano dalle aule universitarie alle quali era abituato. Era tornato nella sua regione natale con l’idea di elevarne il livello della vita politica, e forse era anche riuscito a creare un temporaneo entusiasmo tra alcuni elettori, ma questo entusiasmo passò presto, mentre la rete dei vecchi interessi rimase salda ed inalterata come prima”. Il collegio elettorale di cui qui si parla contava i comuni di Rocchetta, Lacedonia, Calitri, Cairano, Monteverde, Aquilonia, S. Andrea di Conza, Andretta, Bisaccia, Teora, Morra.
A distanza di quasi 140 anni è opportuno chiedersi quanto e come sia cambiata la situazione economica, sociale, politica e culturale di quel territorio?”In questo capitolo De Sanctis spiega molto bene, giocando tra i registri stilistici dell’incubo notturno e dell’ironia familiare, la differenza tra la sua visione idealistica e tutto sommato ingenua della politica e gli interessi gretti e utilitaristici di una parte dei gruppi dirigenti irpini dell’epoca. Il parente “teologo” che gli parla nella visione notturna dimostra di conoscere bene e a fondo la realtà dei paesi irpini di quel tempo lontano. “Passioni e interessi, questa è la pasta umana, lì è la base delle operazioni”.
Gennaro Cucciniello
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“Fantasmi notturni a Lacedonia”
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Bel paese mi parea, questo, che mi ridea dalla sua altura. Là erano molte memorie della mia fanciullezza, e là avevo lasciati molti sogni de’ miei anni. Mentre si saliva tra sparo di mortaretti e grida confuse e scalpitare di cavalli, io ero in cerca de’ trascorsi anni, e poco mi accorgevo di quel chiasso, quando un’eccellenza! mi sonò all’orecchio e mi svegliò. Era un pover’uomo che mi porse una supplica, e lessi subito!
“Eccellenza! Vi prego di volermi accordare un sussidio giornaliero…”
Ohimè, diss’io, si comincia male. Questo disgraziato mi crede un’eccellenza, e per di più un milionario. Tirai un po’ turbato e scontento (…)
(A casa) rimasi solo. E mi affacciai subito. Era dinanzi a me una larga distesa di cielo. Mi parea vedere lontano il Vulture, con la sua cima nevosa, fiammeggiante un giorno, e con le spalle selvose, onde si stende quel bosco infinito e quasi ancora intatto, che si chiama Monticchio (…) E andavo e riandavo per le stanze, accompagnando co’ passi e co’ gesti i miei pensieri, quando sentii gente nel salotto e uscii. C’era il sindaco e parecchi altri, che con delicato pensiero venivano a visitarmi in una casa non loro amica. E c’era l’arciprete, e il teologo mio parente. E chi più? Nessun altro, credo. Qui siamo tutti amici, pensavo. Dove stanno rintanati i miei avversari? Sono in casa loro amica, e non vengono a farmi visita. Un po’ di gentilezza non è poi gran male, mi pare (…)
Qui prese la parola l’Arciprete, una mia conoscenza di quaranta anni indietro, molto stimato per il suo carattere e la sua dottrina. Disse in conclusione che tutti mi avrebbero dato il voto, se avessi manifestate le mie intenzioni a tempo. Foste l’anno passato qui: perché non vi apriste? Il vostro nome fu lanciato all’ultima ora, e parve una manovra di partito, e non fu preso sul serio. I vostri fautori sembra che avessero meno affetto per voi che odio verso il vostro competitore, il quale è poi una persona rispettabile. Qui saltò a dire l’impaziente sindaco: “E chi vi ha detto che gli abbiamo mancato di rispetto?” Sì – No. Le voci s’ingrossarono. Ne venne un battibecco. E il teologo, mio parente, rideva. Gli altri chiacchieravano, egli rideva di un riso falso che mi dava a pensare più di un suo discorso. Quel riso pareva una cosa e ne voleva dire un’altra. Pareva una spensieratezza, ed era un sarcasmo. E voleva dire a me che attento ascoltava: povero semplicione, tu stai così attento alla scena, che non dice nulla, e ignori il dietroscena che dice tutto. In effetti, da quel vivo scambio di parole veniva fuori come un lampo una storia secreta d’interessi e di passioni ordita da intelligenti artefici per un par d’anni e che io con molta semplicità credevo di poter disfare in mezz’ora a furia di parole. E il teologo rideva (…)
(Era venuta notte). Apersi la finestra per dar luogo a quella nebbia di fumo. Era notte alta, con uno di quei silenzii della natura, che ti tengono il capo basso. Osservavo quel fumo aggiunto a fumo che con leggi sue faceva la colonna e lentamente si scioglieva via. Ecco qui, dicevo, il mistero delle cose. Il sigaro fumato non esiste più, ciò che esiste è il fumo che non formerà nuove combinazioni, nuove esistenze. Ed io che sarò? Un sigaro fumato. Bella consolazione! Niente muore, tutto si trasforma. Una gran frase, sicuro, per farci ingoiare la pillola. E la pillola è che l’individuo muore e non torna più (…)
Per finirla, mi avvolsi sotto le coltri, e buona notte. Ero stanco a morte, ma il cervello non voleva dormire. Pareva una pentola che bolliva, e cacciava vapori, e i vapori si condensavano, prendevano forme varie. Sentivo parlare, vedevo in quella tenebra raggi di luce. Caso simile mi successe la prima notte nelle prigioni di Castel dell’Uovo (nel 1848), e molte altre volte. Anzi talora in veglia, in certi momenti in ozio, mi fo io i fantasmi, che sono come un altro me dirimpetto a me, col quale discuto, e so che è un inganno, e mi compiaccio dell’inganno. Cervello, cervello, stai quieto, dicevo io. Ho bisogno di dormire. Dimani ho a fare un discorso, di quei discorsi che si ricordano per un pezzo. Pensa che debbo convertire mezza Lacedonia, che se ne sta rintanata e non si vuol far vedere.
“Aaaah!”. Uno scroscio di risa fu la risposta. Guardo, e vedo lì in fondo il corpo lungo come un palo del mio Teologo. “Aaaah!”. –Tu mi beffi, mio caro”. – “Una bella predica, una bella predica”. – “Già per te, che sei un teologo, la è una predica”. – “E finita la predica, finita la messa”. –“Questa poi non la intendo”. – “Vuoi sentire me, nipote mio. Non curarla questa gente che, finita la messa, chi pensa più alla chiesa?”. – “Teologo, teologo, tu mi hai oggi faccia di eretico”. E lui rideva. Poi mi si avvicina e s’inchina a me, e mi dice: “Ciccillo (così mi chiamava fanciullo), tu sei rimasto ancora Ciccillo!”. – “Eh, questa è bona”. – Hai visto mo. Hai viaggiato tanto, e io ne so più di te”. – “Imparerò, imparerò”. – “Hai letta la lettera “Ad Quintum fratrem?”. – “Credo”. – “E anche nei libri avresti potuto imparare la lotta elettorale. Ne parla Cicerone. E tu credi poter fare le elezioni coi discorsi”. – “E coi discorsi le hanno fatte i ministri”. –“Cioè, la scena era quella. Ma il dietroscena lo facevano prefetti, pretori, sindaci e che so io”. –“Anche questo sai tu! Comincio a crederti”. –“Tu mi puoi insegnare molte cose. Ma dell’arte di fare le elezioni io posso stampare un libro. Tu vuoi fare una scena con un dietroscena immaginario. Sai tu solamente cosa sono gli elettori, che con un colpo di bacchetta magica della tua eloquenza pretendi di convertire?”. “Teologo, tu distruggi tutte le mie illusioni. In verità, a Rocchetta la conquista mi è parsa troppo facile”. –“Hai visto mo. Tu vuoi fare un romanzo, ed il mondo è storia. E il mondo lo conosco io”. –“Spiegami dunque questo dietroscena di Lacedonia”. “Di Lacedonia non so niente io. Fo i fatti miei e sto a casa mia. Ma tutto il mondo è paese. E se in luogo di stare sui libri avessi corso i paesi durante le lotte elettorali, non saresti ora qui a fare un romanzo”. –“Io lo farò e lo pubblicherò”. –“E se tu fai il romanzo, io fo la storia. La farò e la pubblicherò. E la mia storia farà le fiche al tuo romanzo. Una mezza storia vale più che cento discorsi. Finita la predica, finita la messa. Aaaaah!”.
Rideva, veggendo la mia faccia oscura. Stavo interdetto, spaventato sotto a quel riso. Allora, come avesse compassione, raddolcì la voce. –“Via, la maggioranza l’avrai”. –“E cosa importa a me la maggioranza? Voglio tutti io”. –“E dàlli col romanzo”. –“E dàlli con la storia. Dimmi almeno cosa è questa tua storia, o piuttosto questa storia di Lacedonia, che dici di sapere”. –“Io? Ma sei rimasto Ciccillo! Vai dunque a parlare ai fanciulli. Di Lacedonia non so niente io. Sto a casa mia e fo i fatti miei”. –“Che razza dunque di storia è la tua?”. –“Non è storia di Francia o d’Inghilterra. E’ storia generale come la filosofia”. –“Dì ugualmente”. –“E mi meraviglio come tu, che sei un filosofo, consulti un teologo”. –“Dì ugualmente, mio caro”. –“Farò io il filosofo. Guardiamo ai piccoli centri elettorali. Credi tu che là ci sieno tutte le idee e tutti i sentimenti del romanzo che ti frulla pel capo? Piglia paesi su per i monti, dove si va talora a dorso di mulo, senza circolazione di merci e d’idee, e miracolo se ci arriva un giornale o un mercante che vi rinnovi un po’ l’aria. Gruppi di paesi intorno a qualche paese più grandetto, dove appena è se sopra a quel bassofondo si elevi uno strato meno superficiale di mezza coltura e di mezza fortuna. Vai innanzi, in centri più popolosi, meglio accarezzati da natura o arte, e troverai nuovi gradini di quella scala sociale, alla cui sommità è il tuo romanzo. Capisci ora?”. –“Non capisco niente affatto. Mi fai il ritratto del collegio”.
-“In primis hai a sapere che ogni elettore è sovrano, e se ne tiene, e vuol essere trattato col lustrissimo, e più è giù in quei tali gradini, e più gli hai a fare la corte e te gli hai a professare umilissimo servitore. Tu non hai scritto, metto pegno, nessuna letterina così inzuccherata. E vuoi essere un omo serio. E poi ci vuole il poscritto, qualche cosa che più lo solletichi e gli vada ai versi. T’hai da fare un modello, un segretario ad uso degli elettori, secondo tendenze, caratteri, bisogni. Senza questa statistica non hai base. Che dolce cosa vedersi un sarto o un barbiere capitare a casa un bel dì un bel biglietto di visita, o una letterina profumata, sì che l’incenso gli monti al cervello, e se ci fosse un timbro poi, oh che cosa! farà gli occhioni, e dirà: dee essere un pezzo grosso costui! E più le sballi grosse, e più ne hai credito. Essere il barbiere di una eccellenza; ma il barbiere si mirerà allo specchio, e si liscerà i baffi, e dirà: quanto son bello! Sul collegio pioverà oro da tutte le parti, false monete che parranno di zecca a quei grulli. E che bei sogni vorranno fare!… Che bel tocco di sottoprefetto sarò io! Agente delle tasse! Scorticato, scorticherò io a mia volta! Sostituto procuratore del Re! Meglio non ci pensi che il capo mi gira. Cavaliere! Mi chiameranno cavaliere! Gli è come dire conte o barone e sarò barone anch’io”. –“Le son tutte baronate coteste, mio caro”. –“Lasciami dire. Poi, in questi piccoli centri, il mondo comincia e finisce lì. Il campanile è la stella maggiore di quel piccolo cielo. E in quelle gare, in quelle gelosie, in quelli che tu chiami i pettegolezzi municipali è tanta passione quanta è, poniamo, tra Francia e Germania. Ciascuno ha la sua epopea a modo suo. L’epopea del fanciullo è il suo castello di carta. E l’epopea loro è l’assalto al municipio. E tu chiami tutto questo pettegolezzi. E vuoi essere deputato di tutti, che è a dire di nessuno. E vuoi essere un omo serio. Ma un omo serio dee usare ogni industria per tener vive quelle gare, e vellicare le passioni, e incensare le vanità, e suscitare le rivalità tra un paese e l’altro, tra una famiglia e l’altra. Così ti farai il partito. L’entusiasmo è fuoco fatuo. Passioni e interessi, questa è la pasta umana, lì è la base di operazione. Bada alle chiavi. Ciascuno di questi centri ha qualche ricco sfondolato, qualche leguleio cavilloso, qualche camorrista, un sopracciò che comanda a bacchetta e lì è la chiave. Il tuo romanzo ti dice che bisogna tenersela con gli onesti, brava gente ma poltrona e sconclusionata. E se vuoi sentire la storia hai a tenertela coi forti, leoni o volpi che sieno, e meno hanno scrupoli, e più sono efficaci, gente come si deve, che ti sa bene ordire le fila…”. –“Ah cinico di un Teologo”, proruppi io.
E passeggiavo. E di cosa in cosa, non so come, mi tornò innanzi quel: niente muore e tutto si trasforma. L’immaginazione mi ha ingrandito gli oggetti, pensai, e per disfare un romanzo ne ho fatto un altro. Tutta questa roba notturna non è che un cattivo romanzo, messomi nel cervello dal malumore. E volere sfogare il mio malumore pigliandomela con questi miei concittadini, i quali non hanno in fondo altro torto, che di esser nati qui. Tutto si trasforma, e qui la trasformazione è lenta. Si animi Monticchio, venga la ferrovia e in piccol numero di anni si farà il lavoro di secoli. L’industria, il commercio, l’agricoltura saranno i motori di questa trasformazione. Vedremo miracoli. Perché qui gli ingegni sono vivi e le tempre sono forti (…) Mi sentiranno oggi, e le mie parole saranno seme che frutterà nei loro cuori. E con questi propositi mi posi a meditare cosa avevo loro a dire.
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Il brano è tratto da: Francesco De Sanctis, “Un viaggio elettorale”, Passigli Editori, Firenze, 2011, pp. 46-73 (passim).