I referendum del Nord che “dipende” dal Sud
03.12.2017, Articolo di Paola Gerola (da “Fuori dalla Rete” – Novembre 2017, Anno XI, n.5)
Da trentina non potevo restare indifferente ai referendum per l’autonomia del Veneto e Lombardia. Ho seguito con attenzione la propaganda dei due governatori e soprattutto le motivazioni che hanno spinto queste regioni a chiedere una maggiore competenza su alcune materie.
Certamente capisco il cittadino veneto che, a pochi passi dal Trentino, vede continuamente alcune incongruenze tra il proprio status e quello del cittadino trentino. Un abitante di Asiago, per esempio, si chiede perché deve sostenere una spesa non indifferente per i testi scolastici mentre a pochi chilometri il confinante studente di Levico ha i testi gratuiti per tutta la scuola dell’obbligo. Per non parlare dei mezzi pubblici, finanziamenti al turismo e alle fondazioni gestori di musei, enti e cliniche sanitarie.
Ovviamente il discorso è un po’ più complesso, Le 5 regioni a statuto speciale previste dalla Costituzione sono tali per questioni politiche culturali e di confine e non è il gettito del residuo fiscale che fa la differenza, ma la modalità di gestione “dell’Autonomia”.
La Costituzione prevede che tutte le regioni possano chiedere al Governo più materie di competenza, la norma è prevista dall’articolo 116 del Titolo V, quello inerente l’ordinamento dello Stato e il rapporto con le Regioni.
La procedura per la richiesta di maggiore autonomia può essere avviata da qualsiasi Regione. Dopo il raggiungimento di un accordo con lo Stato, questo deve essere approvato da Camera e Senato a maggioranza assoluta. Il Referendum popolare indetto da Lombardia e Veneto è in assoluto la prima volta che viene utilizzato: finora nessuno vi aveva mai fatto ricorso.
Questo referendum infatti è puramente consultivo e ha solo un valore politico. Roberto Maroni e Luca Zaia vogliono utilizzarlo come arma di pressione sul tavolo delle trattative con il Governo per chiedere maggiore autonomia – in particolar modo fiscale – per le due Regioni. I due leghisti non avrebbero bisogno di alcun mandato popolare, ma vogliono sfruttare la vittoria del “Sì” e l’alta partecipazione popolare per dare alla loro iniziativa maggiore peso.
Infatti, forse non molti sanno che, lo scorso mese di luglio, il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha avviato la procedura ai sensi dell’art. 116 della Costituzione senza però ricorrere al referendum perché, come ha detto a Repubblica, “costa 10-15 milioni di Euro e rischia di essere soltanto uno slogan”.
Ma, se le regioni del nord ottengono l’autonomia, cosa succede al sud?
La finanza pubblica, e quella che investe la dinamica Stato/Regioni ordinarie, è un grande vaso comunicante, per cui se – ipotesi – da domani la Lombardia trattenesse sul suo territorio dieci o venti miliardi del proprio gettito, calcolati sul residuo fiscale “così vantaggioso” di circa 50 miliardi, quegli introiti mancherebbero alle altre Regioni.
Il fatto è che nessuna regione può tenere per sé il disavanzo fiscale. Se succede, salta lo “Stato”. Le nazioni si fondano sulla solidarietà dei loro popoli. Più è forte più prospera la comunità.
Ma oggi la distanza tra Nord e Sud si allarga e non è più sostenibile. Non può crescere uno Stato in cui qualcuno solo dà e qualcuno solo prende. Il primo si sente truffato, il secondo soffoca vivendo di rendita. E purtroppo, come sostiene il filosofo Massimo Cacciari “Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali.”
Eppure, in Italia, vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
Il nord dimentica una cosa: senza il sud non genera reddito!
Infatti possiamo dire che, è vero che il residuo fiscale di alcune regioni del Nord finanzia il resto del “Paese”, ma è altrettanto vero che tale somma, pari circa a 50 miliardi di euro, viene ampiamente coperta dai 63 miliardi di euro che i meridionali versano nelle casse dei settentrionali attraverso l’acquisto di beni e di servizi (studio effettuato da Paolo Savona, professore di politica economica e docente di geopolitica economica, coadiuvato Zeno Rotondi di Unicredit e Riccardo De Bonis di Banca d’Italia).
Spiegandoci meglio: su 100 euro spesi al supermercato dagli italiani ben 94 vanno al ricco ed opulento Nord e soltanto 6 ritornano al Sud a cui aggiungiamo anche i gestori dei servizi erogati alla comunità, tutti, o quasi, con sede legale in Lombardia.
Per non parlare della quotidiana emigrazione di capitale umano che ha fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Queste ingenti somme il residuo fiscale non le conta. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni?
Il problema è che questa situazione non è cambiata negli ultimi 40 anni, mostrando un Paese immobile o quasi. Questa situazione è ormai strutturale e se il Sud non si sviluppa né il Nord né la Comunità Europea potranno sopperire alla mancanza di risorse e l’intero Paese perderà sempre più competitività.
Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dovrebbe essere la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse.
E comunque oggi, che viviamo in un mondo globale, le interdipendenze dell’economia mondiale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista.