Il cafone
10.09.2017, Il racconto di Antonio Cella (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2017, Anno XI, n.4)
“Un abitatore di Napoli si credeva di natura superiore a quella di provincia”. E’ il giudizio dei redattori della Minerva, autorevole periodico del mondo costituzionalista napoletano del primo ottocento che, attraverso i piccoli avvenimenti, le particolarità e i modi con cui si gestivano gli affari dello Stato, traeva lo spunto per interpretare lo spirito pubblico.
Circa duecento anni orsono, dunque, e forse anche di più, da quando, cioè, il sostantivo cafone ha avuto la propria genitura, il “napoletano minuto” era già convinto di essere superiore ai suoi simili che vivevano in provincia.
Il cafone, com’è noto, è quell’individuo di ascendenza volgare, zotica, terrona che, volendo addolcire l’origine, dovrei definire più appropriatamente: rustica. Egli, nel portarsi in città per vendere i prodotti della sua terra, una volta sotto le mura della stessa, per evitare la sorveglianza delle guardie ed eludere il pagamento della gabella (odierno dazio), usava un arguto accorgimento: scendeva “cu a funa” (con la fune), da cui è derivato, poi, il sostantivo cafone.
Il buzzurro, quindi, che già calzava a pennello scarpe grosse e cervello fino, non aveva problemi di origine fiscale, e le mura di Port’Alba, di Porta Nolana e di Porta Capuana non rappresentavano, per lui, ostacolo alcuno.
La genesi dell’etimolo “cafone” va attribuita, pertanto, sicuramente alla folkloristica quanto fantasiosa struttura linguistica napoletana.
A distanza di centinaia di anni, le cose non hanno subito grandi variazioni. Anzi, credo proprio che si siano aggravate.
Il napoletano odierno, grazie alla scuola dell’obbligo, alla lettura dei giornali e ai bombardamenti continui della televisione di programmi culturali umanistici, storici e politici ha un indice di acculturazione molto diverso dal suo concittadino scalatore di mura, che languiva nell’analfabetismo. Nel suo bagaglio culturale, tuttavia, è rimasta intatta l’indebita convinzione che colui il quale ha i natali in provincia, o viva in provincia, debba essere considerato cafone a tutti gli effetti, indipendentemente dalle attribuzioni e distinzioni socio-culturali.
“L’abitatore” attuale di Napoli, fotte lo Stato senza l’ausilio della fune: lui è maestro nell’evadere l’IVA, la tassa sulla spazzatura, quella sull’acqua e quella sulla successione di morte. Grazie alla sua idiosincrasia verso ogni forma di balzello, il cittadino napoletano può considerarsi, senza ombra di dubbio, un benestante esentasse.
Per detti soggetti, anche i prodotti alimentari di origine paesana vanno catalogati come prodotti cafoni. Tra cui, il pane, le uova (avete mai visto una gallina cittadina?), i salumi. Non si sa con esattezza chi sia stato il primo uomo a preparare il caffè napoletano e la pizza col pomodoro. Si è dell’opinione, comunque, che se detto provvidenziale “inventore” avesse provenienza provinciale, fosse magari originario di Pontelandolfo, di atripalda o di Acerno sarebbe per detti detrattori, senza ombra di dubbio, un cafone.
I più avveduti, però, quelli che con la volontà, lo studio e il sacrificio hanno frizionato le funzioni intellettive, sanno bene che: Avellinesi, Salernitani, Beneventani e Casertani, fin dalla notte dei tempi, hanno sempre funto da serra, da serbatoio del capoluogo campano da cui sono sbocciate le superbe intellettualità che nel mondo hanno seminato cultura, e dato vita a quel ceto professionale umanistico, fatto di uomini di dottrina e di pensiero, definito da Benedetto Croce: “La sola classe politica del Mezzogiorno d’Italia di cui la nazione poteva trarne un vero vanto”.
Medici, avvocati, ingegneri, letterati, musicisti e tecnici di varia estrazione di origine provinciale rappresentano tuttora il nerbo dell’intellettualismo partenopeo.
Quelli tuttora attaccati al discusso etimolo, sono gli stessi “napoletani” che Domenico Rea definisce “mammisti e madonnisti” che nutrono un amore smodato verso la mamma, e sono collocati tra coloro che, apparentemente, fanno professione di virtù. Ed è difficile distinguere, allora, il buono dal cattivo, quelli che nelle “sceneggiate” abbondano sotto mentite spoglie.
Per essi, la mamma è tutto: è la luce del sole, il centro dell’universo; è l’espressione più alta del loro pensiero; è la divinità riconosciuta e onnipotente; è la giustificazione di tutti i reati e non solo l’immagine del perdono e della misericordia.
Sono attaccatissimi ai figli che, biologicamente, definiscono “piezz ‘e core”. E, del cuore altrui, hanno un rispetto tombale: quando meno te lo aspetti, il cuore te lo squarciano con una coltellata.
Napoli, per colpa di questi snaturati fanatici, ha perduto lo smalto e lo splendore che la caratterizzavano quando universalmente veniva considerata una metropoli, paradiso della natura e della cultura.
“Vedi Napoli e poi muori”, recita un detto antico. Sì, si può anche morire di piacere di fronte alle bellezze del creato, di fronte ad un’opera d’arte, di fronte a un nudo di donna. Ma, buon Dio, come si fa a defungere al cospetto di un’ammucchiata di carne e di cemento, che fagocita ed espelle ogni cosa sottoforma di rifiuto? Si può ancora considerare città un agglomerato urbano, privo di servi essenziali, che a volte ti lascia morire in ospedale per l’assenza di un palmo di filo da suture? Si può ancora definire civiltà quella improntata sulla delinquenza, che ricaccia l’innocenza come un insulto, come una provocazione?
Sì, si può anche morire di fronte a tanto, ma di vergogna!
Napoli non è neppure una città come tante, è una città particolare tra le tante, con pochi pregi e molti difetti.
A ridurla così è stato lui: l’uomo.
Io, però, la amo.
La amo perché, come dicevo, è una città difficile, che suscita entusiasmi per la sua vitalità e delusioni per le sue incongruenze. La amo, perché va amata come si ama la propria donna, che non sempre circola per casa con il look dei giorni di festa e le mani vellutate di crema. La amo, nella buona e nella cattiva sorte, come nel matrimonio religioso, anche se mi fa vivere momenti di ansia e di tormento. La amo, dentro e fuori con clemenza, anche quando, rimarginate le ferite, le riapre improvvisamente con inconsulta violenza, per mettere a nudo lo sfasciume della sua degradata realtà. La amo, quando mi si offre con l’altruismo calcolato e assassino della passeggiatrice di rango, perché mi attrae come la luna attrae le maree.
Sì, io la amo.
Napoli, per guarire, ha bisogno di un amore totale, senza riserve. Ha bisogno di una cultura nuova che affondi con veemenza nel DNA impestato di orientalismo iberico dei napoletani, e dia loro una mossa. Se solo lo volessero, potrebbero essere i migliori italiani d’Italia. Ma lo vogliono? A volte, pare di sì. Poi, però, ricominciano da capo: ricadono nella inettitudine, nell’inerzia.
Pentirsi di sera per poi ritornare nell’errato la mattina è un atto che non sa di nulla. E’ come una vernice sulla propria ipocrisia, sul proprio inveterato egoismo.
Raffaele La Capria, ha affrontato più volte sul Corriere della Sera il tema della napoletanità. Egli, in un certo senso, ha concesso delle attenuanti alla negatività del termine, inteso più come napoletanitudine che non come stigma di un determinato comportamento sociale, e definisce la stessa come forma di civiltà deteriore che mette in luce la divaricazione schizofrenica fra borghesia e plebe e la voracità con cui la borghesia, ovvero, la classe dirigente napoletana (magistralmente definita la classe “digerente”) fece la sua pitonesca digestione del popolo.
Ma dov’è la classe dirigente napoletana?
Il ruolo della borghesia cittadina è sott’accusa. Ha imboccato la strada del clientelismo e della corruzione. Ha dismesso l’abito dell’intellettuale-guida, ossequioso dello Stato e delle leggi, per tuffarsi nella cultura mafiosa e camorristica.
Povera Napoli.
Un giorno feci un sogno geniale. Sognai di mettere ordine nel disordine di Napoli: io, povero “provincialotto cafone”. Sognai di spostare gli abitanti da una quartiere all’altro. Successe, allora, che gli abitanti di Secondigliano si ritrovarono in Via Petrarca, quelli di Ponticelli in Via dei Mille e quelli del Vomero nei Quartieri Spagnoli. Speravo tanto in un miracolo! (Speranza fondata poiché riconducibile all’esperienza di Hofderlin, che asseriva: ”L’uomo è un genio quando sogna, e un pezzente quando riflette”). Credevo, nell’esaltazione onirica, che i napoletani, per effetto dello scambio, potessero cambiare in senso buono, abitudini e modus vivendi. Nel sogno, tentai anche di organizzare uno scambio di ben altre dimensioni e ambizioni: trapiantare per un anno i napoletani a Firenze e i fiorentini a Napoli, anche per dare un tono di classe alla pronuncia. Ma, non potei. Il costo della manodopera per scardinare le rispettive culture non era alla mia portata. Dovetti, allora, abbandonare l’ambizioso progetto e accontentarmi degli interscambi di quartieri.
Con mia enorme sorpresa, il miracolo si avverò, ma in senso negativo. A Secondigliano, i gentiluomini di Via Petrarca si sostituirono ai vecchi “padroni” della zona dietro i banchi di vendita delle illegalità, e la brava gente del Vomero prese a smerciare cocaina nei budelli dei Quartieri Spagnoli nonostante avesse promesso di mettercela tutta per infettare di perbenismo i molesti e gli sbandati.
Mi svegliai incazzato. Nessuna morte è più triste e definitiva come quella dell’illusione.
Mi ero talmente immedesimato nel mio ruolo da crederci, pur sapendo di sognare, proprio come dice lo Svevo: “Credere nella realtà della propria immaginazione.
Diamo una occhiata, ora, all’altra faccia della realtà.
I provinciali hanno sempre individuato nei napoletani lo stigma del pressapochismo, del “tira a campà”, che in Pulcinella (pure lui cafone, poiché di origini acerrane) incarna tutte le deteriorità del partenopeo: la pizza col pomodoro, il caffè, il vicolame, la camorra e il fanatismo. Ma non sempre è così. I provinciali sanno bene che quel contorno di negatività è il frutto di esagerazioni, è il famoso “fumus persecutionis” che fuoriesce dagli occhi e dalle orecchie di certi scrittori del nord che, con evidente istrionismo, lucrano quotidianamente sulla sceneggiata, sulla pizza col pomodoro e sulla napoletanitudine.
Ora vi fornirò una prova della supponenza etnica dei napoletani.
Ero al semaforo di Via Medina, in attesa del verde, quando fui abbordato dall’ennesimo venditore di fazzoletti di carta. Aveva un aspetto piuttosto malandato. Era d’inverno: pioveva.
Pur avendo a bordo dell’auto diverse confezioni di quelle sfoglie di carta riciclata, che ormai hanno totalmente sostituito le funzioni dei fazzoletti classici, Massimo, Mario, Enzo e Raffaele, miei compagni di viaggio, decisero di acquistarne degli altri per premiare lo stoicismo con cui il venditore, povero cristo, affrontava la pioggia che cadeva copiosa.
A Mario, che mi sedeva accanto, quell’uomo faceva solo rabbia. Rabbia e pena. Forse più pena che rabbia. “Come fa a vivere, si chiedeva?” Fu il pensiero di Gandhi ad intenerirlo: “…Ogni volta che sei nel dubbio, ricorda la faccia dell’uomo più povero che tu abbia incontrato e chiediti: ciò che sto per fare, gli sarà utile?”. Gli allungò, allora, le mille lire senza reclamare la consegne dei fazzoletti.
Quell’uomo somigliava tanto alla statua di Nettuno in versione moderna e senza il tridente, che nelle fontane di mezzo mondo piscia acqua da tutte le parti del corpo. Aveva una barba rossiccia, che fungeva da bacino di raccolta della pioggia, che scendeva dal capo nudo per defluire, poi, in un rivolo costante che dal mento irrorava giacca, camicia e pantaloni, ormai attaccati alle ossa come cotenna.
Nonostante il maltempo, e il successo nella vendita, l’uomo si peritò affinché anch’io ne comprassi un pacco.
Ho sempre sopportato di malavoglia gli arrembaggi ai semafori da parte di pulitori di vetri e dei venditori di sigarette, accendini e cianfrusaglie varie che, specialmente a Napoli, vengono offerti nelle varie lingue anche dagli immigrati del terzo mondo, i famosi “vu cumprà”, dai polacchi e dagli albanesi. E, per evitare che ogni due-trecento metri venga fatto oggetto di assalti da parte di questi emarginati, sono tuttora costretto a circolare, anche quando non piove, con i tergicristalli in movimento e i pacchi di fazzoletti, gli accendini e i cerotti in bella evidenza sul cruscotto.
Una volta, per essermi rifiutato di dare dei soldi ad uno di questi individui che, come al solito, mi si era avvicinato ad un semaforo col rosso, fui apostrofato amaramente con un epiteto che mi si appiccicò alla pelle, di cui tuttora non riesco a liberarmi: “Mutanda sporca!”.
L’originalità dell’invettiva mi aveva momentaneamente divertito. Poi, all’ironia sostituii la rabbia, quella stessa che mi assale ogni volta che mi imbatto in esseri come quelli che, prepotentemente, t’impongono di acquistare, anche se per sole mille lire, una cosa di cui non sai che fartene. Mi fanno rabbia anche perché potrebbero dedicarsi a lavori più dignitosi che, checché ne pensino gli italiani del nord, anche Napoli offre agli uomini di buona volontà.
All’insistenza del venditore, reagii con evidente sgarbo facendogli capire che, essendo la mia auto ormai stracarica della mercanzia che lui mi offriva, sarei stato propenso a rivendergliela a metà prezzo.
Lui, però, pigiava sull’insistenza.
Ed io,
“Lasciami andare, cumpà, sta per scattare il verde”
Di lì a poco, infatti, il semaforo segnò via libera. Ma le auto non si muovevano, sembravano bullonate al fondo stradale.
Quando a Napoli piove, il traffico impazzisce. E l’intera città affonda nei rumori dei clacson, delle trombe e delle marmitte scassate di migliaia di macchine quasi tutte targate: MI-TO-PT-VE-GE-FI, rifiuto del benessere del Nord, i cui guidatori fanno a gara per commettere scorrettezze d’ogni ordine e grado, tra cui il passare col rosso e, rosa all’occhiello, transitare a doppio senso nelle strade a senso unico.
A Napoli i semafori servono per incrementare le entrate dell’Enel.
Quando, più tardi, il “barbarossa” in ammollo si accorse che la mia auto era targata AV, sigla della mia provincia, mi si avvicinò con evidente soddisfazione e, con aria canzonatoria mi disse:
“E ricordate che nu’ ‘sso stato mai cumpare e nu’ zampugnaru cafonu comm’ a ‘tte!”
Lo straccione, aveva toccato l’apice della supponenza di taluni napoletani.