In ricordo di Leonardo Di Capua (1617-2017)
06.08.2017, Approfondimento a cura di Rocco Dell’Osso
In occasione della ricorrenza del quattrocentesimo anniversario della nascita di Leonardo Di Capua (1617-2017) riproponiamo due interessanti editoriali entrambi a firma di Rocco Dell’Osso.
L’iride e la disputa feroce tra Leonardo Di Capua e Domenico D’Aulisio
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di Rocco Dell’Osso (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2013)
Un tributo a tutti quelli che, guardando un arcobaleno, ancora si emozionano.
L’arcobaleno, uno degli spettacoli più emozionanti della natura, da sempre simbolo di rinascita e di speranza, sintesi scientifica di ottica e meteorologia, nei secoli scorsi è stato oggetto di una disputa epocale tra due dei più grandi ingegni Bagnolesi: Leonardo Di Capua e Domenico d’Aulisio.
Correva l’anno 1676 e in una delle sue lezioni, Leonardo di Capua, ragionando con i suoi scolari “di molte, e molte delle naturali cose” parlò dell’iride ossia dell’arcobaleno; di come si forma e, contrariamente all’opinione comune, di come possa vedersi intera e compiuta come un cerchio.
Leonardo rafforzò tale opinione anche all’inizio dell’ottavo ragionamento del suo “Parere”, dove ribadisce “Adunque perche crederem noi, che l’arco celeste non possa maggior d’un mezzo cerchio apparere; ……? Anzi io l’ho pur riguardato, che non sol maggiore di un mezzo cerchio apparir soglia, ma talvolta ancora in un cerchio compiuto, ed intero, dove il sol sia alto, e l’uom da qualche monte assai rilevato il riguardi”.
I discepoli di Leonardo, dopo aver ben’intese le ragioni, e colpiti dall’aver appreso una cosa sì nuova e contraria a quanto fino a quel momento creduta, comunicarono la novità ai loro amici e “d’un’in un altro la novità passando, giunse all’orecchie di molti letterati; ed a quelle del mentovato Domenico d’Aulisio”.
Al d’Aulisio parve così astrusa ed erronea tale asserzione, che cercò di dimostrare con ragioni fisiche e matematiche, non potersi vedere l’iride in forma di circolo compiuto ed intero, e deridendo l’affermazione del Di Capua diede alle stampe il seguente epigramma, seguito da un commento denominato Crivello, dove in sostanza asserisce che il Di Capua, ubriacatosi con i suoi discepoli, aveva visto da una montagna, dove con loro era salito, l’Arcobaleno come circolo intero.
Capua facundo perfusus pectora vino,
Montis conscendit culmina summa celer.
Tempus erat; medio quo Sol discedit ab axe,
Pendebat dubiis horridus imber aquis,
Iris mille trahens adverso Sole colores
Orbem completum pingere non poterat:
Invidia terra vetat, quin partem occultat Horison,
Depictique arcus cornua summa rapit.
Capua sed lippus de celso vertice montis
Clamat: Io cyclum discolor Iris habet;
Credite, nam video clamat, Nos risimus omnes;
Mordaci quidam sic sale perfricuit:
Mira refers; in cyclum si tibi vertitur orbis,
Non sic res geminas ebria turba videt.
Non l’avesse mai fatto!
Questo epigramma gli tirò sul capo una terribile tempesta; Leonardo Di Capua, giustamente offeso di vedersi deriso e oltraggiato da chi meno te lo aspetti perché amico, concittadino, ed affine (Domenico d’Aulisio era suo nipote) e per di più di vedere posta in pubblico ludibrio un’affermazione fondata su personale e diretta osservazione; si scagliò a briglia sciolta contro l’Aulisio, con tutta la schiera dei suoi sostenitori con satire sferzanti, come quella data alle stampe dal titolo “La coda del Cacamusone epigrammatico “.
In realtà parlare di satire sferzanti è un eufemismo.
Di seguito due stralci delle “satire” estratte da “La coda del Cacamusone Epigrammatico” dove gli aggettivi usati per apostrofare il d’Aulisio sono a dir poco iperbolici:
In Pezzum d’Asinum
(e già il titolo è tutto un programma)
Hic, qui Cyclopus sembrat cæcatus in antro,
Tonda sputans, parlans Toscua verba, quis est?
Hic, qui se dicit multum studiasse cacando,
Cui nota est libri sola coperta, quis est?
Hic Gnorantonus, Villanus, Tammarus, Anchion,
Qui vult cum Saviis se numerare, quis est?
Hic, qui ragliat, uti Ciuccius codutus, et audet
Personas doctas vernachiare, quis est?
Bestia, Coglionus, Scarabæus stercorenatus,
……..
Bruttus Petazzus, vilis, và pascere corvos,
Và Pezzu d’Asinu, Và Pecorone, BE’,BE’.
E poi ancora:
LAMENTATIO CACAMUSONIS
………
Và CACAMUSO CACA, và te ficcare latrinæ.
Nonne fatis fuerat castagnas vendere alessas,
Aut aliqua piattos lordos nettare taberna,
Cogliere mondezzas, Foglias, aut vendere Alices?
Imbardare mulos, aut defraudare procaccium,
Nonne satis guardare boves, quam prendere brigas?
Và CACAMUSO CACA, và te ficcare latrinæ.
Quæ me Bestialitas, quæ me ignorantia cepit?
……
Le prime 32 pagine de “La coda del Cacamusone Epigrammatico” sono tutte su questa falsariga, laddove il povero Domenico d’Aulisio, “chiamato da’nostri paesani Minghino degli Aulisi”, viene strapazzato in tutte le salse ed in tutte le forme.
La lunga sequela di “satire” si chiude con l’epilogo:
“E questa è la coda, che per hora n’è paruto di dovere appiccare al Cacamusone, la quale tratto tratto gli s’anderà allungando secondo ne verrà a uopo; ma le scempiezze del suo Epigramma, e’l poco valore della sua difesa sieno appartatamente dimostrate da M. Crivello: e somigliantemente i luoghi del Galateo rapportati, e dal Cacamusone pessimamente intesi, minutamente agli Studiosi Napoletani, appresso si spianeranno”.
Dové per necessità rispondere l’Aulisio, ed alcuni della sua scuola fecer I’istesso, difendendo lo schernito maestro che oppugnava tale dottrina in omaggio ai principi Aristotelici.
La polemica tra i due eminenti Bagnolesi durò parecchio tempo ed appassionò tutta Napoli, sì per l’arditezza dei contraddittori, sì per le male parole che si scambiavano, e si invelenì a tal modo da compromettere l’ordine pubblico.
Il Vicerè del tempo fu costretto a proibire che la contesa andasse più innanzi, minacciando pene gravi contro chiunque avesse pubblicato satire e libelli sull’ argomento.
Il rischio concreto era, come scrive l’Amenta, che “si sarebbe senza dubbio lasciata la penna, e venuto perciò all’arme”.
La seconda parte de “La coda del Cacamusone Epigrammatico” (33 pagine), semplicemente ignorata dai molteplici autori che si sono occupati di Leonardo Di Capua, sono dal punto di vista scientifico molto più interessanti e trattano di ottica e geometria, con dimostrazioni e dissertazioni scritte sotto la forma di dialogo tra diversi personaggi (Rettore, D. Stefano, A…, B…; oppure Lionardo Di Capoa e S…), laddove, come evidenziato, in uno di questi compare Leonardo stesso.
Scritte presumibilmente da vari autori a supporto della tesi sostenuta da Leonardo; lo stile è quello utilizzato da Galileo nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”.
L’illustrazione di questi ragionamenti è tale che necessitano di uno studio specifico; per il momento mi limito a riportare solo una delle molteplici dimostrazioni riportate a sostegno di quanto sostenuto da Leonardo Di Capua.
Tale dimostrazione sintetizza mirabilmente come la differente posizione dell’osservatore (sul piano o in cima ad un monte) e la distanza della nube con le goccioline d’acqua, possa far vedere l’iride come parte di un cerchio o come cerchio intero.
E’ superfluo a questo punto ribadire che l’opinione di Leonardo Di Capua era più che vera e dimostrata scientificamente già ai suoi tempi.
Nella realtà, Cartesio prima e Newton dopo, avevano già chiarito e dimostrato la genesi del fenomeno (vedi paragrafo nel riquadro).
Tutto ciò con rigore scientifico ed in memoria di Leonardo di Capua che tanto ha dovuto battersi per liberare il pensiero scientifico dal giogo aristotelico e sostenere il metodo sperimentale in tutto il Regno di Napoli, e non solo.
Ma il razionale ragionamento scientifico, nulla toglie alla bellezza e alla magnificenza di un arcobaleno.
Ancora oggi alla sua vista mi fermo ad ammirarlo, rimanendo incantato nella contemplazione di questa meraviglia del creato.
– Appr. su web http://arcobaleno.wikispaces.com
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L’arcobaleno scaturisce dalla radiazione del sole che si rifrange sulla superficie delle singole goccioline, entra nel loro interno, si riflette sul fondo delle gocce stesse e ne esce lungo una direzione determinata.
Cartesio pubblicò la legge della rifrazione nel 1637 e tra le altre cose osservò che quando si ha una sola riflessione all’interno della goccia, il fascio emergente forma col fascio incidente un angolo di circa 42°. Analogamente dimostrò anche che, se la radiazione all’interno della goccia compie una seconda riflessione, emerge poi con un’inclinazione di circa 51° rispetto alla direzione di incidenza. Questo genera la formazione di un secondo arco, esterno e concentrico a quello dovuto alla riflessione singola, coi colori invertiti. Naturalmente il secondo arco è molto meno luminoso del primo e non sempre è visibile.
Cartesio però non aveva alcuna idea circa la dispersione e la natura dei colori; fu Isaac Newton nel 1704 che spiegò la dispersione e quindi la formazione dei colori dello spettro solare mediante variazioni dell’indice di rifrazione.
Con questo il fenomeno era quindi sostanzialmente spiegato. Ogni gocciolina di acqua sospesa nell’aria rimanda il fascio di radiazione che riceve dal sole, prevalentemente, in due coni di 42° e di 51° di semiapertura. L’osservatore riceve la radiazione da tante goccioline come se provenisse da un arco circolare (o da due archi) dell’apertura suddetta.
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Uno scritto sconosciuto di Leonardo Di Capua in difesa dell’arte chimica e de’ professori di essa
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di Rocco Dell’Osso (da “Fuori dalla rete”, Agosto 2010)
I primi anni sessanta del Seicento sono stati caratterizzati da un significativo periodo di violenta polemica tra il gruppo degli Investiganti “moderni” ed i sostenitori della tradizione culturale “antichi”. Diverse le battaglie culturali che, su più fronti, impegnarono quel consesso di studiosi e «curiosi» di cose naturali. Una delle “battaglie” fu combattuta in favore dell’insegnamento privato della chimica, proibita dal protomedico Carlo Pignataro, rappresentante per eccellenza dello schieramento degli “antichi”. Leonardo di Capua, perché quasi sicuramente era lui a scrivere, vi prendeva parte con un “Discorso per difesa dell’arte chimica e de’ professori di essa nel quale si dimostra, che il legger privatamente la chimica in tempo di vacanze, così per li statuti degli Studi pubblici come per legge comune, non possa esser cosa prohibita, e che essendo essa utilissima alla repubblica per la cura de’ mali, e non solo utile, ma etiandio necessaria, per la perfetta cognizione della Philosophia naturale, e della medicina rationale, utilissimo debbe anche stimarsi l’ufficio di quei Professori, che l’insegnano”.
Il discorso è datato 28 settembre 1663.
Del resto egli, fondatore e membro attivo dell’Accademia degli Investiganti, non avrebbe mai rinunciato a partecipare, con forza, alle polemiche sulla chimica che attraversò la Napoli di quegli anni.
L’intento era di rispondere alle obiezioni solitamente mosse alla chimica, o quantomeno al suo privato insegnamento. Con privato si intendeva, ovviamente, al di fuori del controllo delle autorità mediche; del Protomedico, cioè.
Di fronte alla minaccia avanzata dal protomedico Carlo Pignataro, esponente di punta dello schieramento tradizionalista, di far proibire financo l’insegnamento, Leonardo Di Capua, verosimilmente di concerto con gli altri moderni, reagiva rivolgendo il “Discorso…” al Vicere e al Consiglio Collaterale. Il carattere professionale e corporativo dell’arte chimica veniva così indicato come l’ostacolo più rilevante al progresso della medicina e giustificava il ricorso all’autorità civile affinché “non si habbia a dare alcun luogo a questa ingiusta pretensione di vietar il legger la Chimica, e che la fallacia de’ discorsi, e le calunnie, dalle quali ella viene ingiustamente accusata, habbiano a rimanere dalla verità e dalla sodezza delle ragioni contrarie, affatto sgombrate”.
L’insegnamento della chimica non era tra quelli previsti dagli statuti dello Studio, i “moderni”, anche per disciplinarne l’apprendimento, ne avevano organizzato l’insegnamento privato. Si trattava probabilmente di sedute accademiche in cui, a turno, i futuri investiganti tenevano lezioni ed esperimenti scientifici.
Alla medicina, la chimica permetteva, finalmente, di cogliere il funzionamento delle parti vitali – era stata definita «Notomia vitale» -, rendendo così possibile all’anatomia di andare ben oltre la semplice dissezione. A cosa, infatti, «gioverebbe mai il medico il saper ad una ad una le parti annoverate, e scernere dal corpo umano, se poi della natura, e del mistero di quella digiuno si fosse?».
In realtà, entrambi gli schieramenti avvertivano la medesima necessità: non lasciare la chimica senza controllo. I galenisti, riducendone l’efficacia a soli pochi medicamenti, già da loro utilizzati, cercavano, per l’appunto, di farla rientrare in quanto veniva, da tempo, insegnato nello Studio; i «moderni», invece, cogliendone la portata ‘rivoluzionaria’, provavano ad utilizzarla per eliminare dalle fondamenta un errato modo di fare medicina. Si trattava, in realtà, di un meccanismo, quello chimico, che, una volta avviato, avrebbe, svolgendo le sue capacità di analisi dei fenomeni, evidenziato gli errori e le superstizioni dei tradizionalisti.
Si trattava, insomma, del concreto tentativo, da parte dei tradizionalisti, di riprendere il controllo di una situazione che sembrava sfuggirgli di mano. Il moltiplicarsi degli autori studiati, la forte spinta alla sperimentazione, i continui richiami alla libertas philosophandi,erano, e non a torto, avvertiti come pericolosi per determinati equilibri di potere tra cultura dominante e professione medica.
Di qui, la necessità di ricondurre sotto il controllo dei medici tutto ciò che poteva riguardare la salute – e quindi per estensione anche la chimica se usata in medicina – presupponendo, però, che unici, veri medici fossero solo i galenisti.
La necessità per i “moderni” era, invece, di non ridurre la chimica ad una mera attività di laboratorio, di sperimentazione per lo più “curiosa”, ma di attento e vasto studio, al fine di accumulare conoscenze estese ai «tre vastissimi reami della natura con rapidissimo ingegno», così da avere «tra le mani nuove cose: cercando per lande, e per valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari».
Tornando all’autore del “Discorso …”, Giacinto Gimma (1703) lo riteneva opera comune del D’Andrea, del Cornelio e di Leonardo Di Capua. Max H. Fisch (1953) lo attribuisce, seppur con cautela al D’Andrea.
Maurizio Torrini, attraverso l’analisi del “Discorso per difesa dell’arte chimica …”, e di un intero Ragionamento del “Parere … “ di Lionardo Di Capoa (Terza impressione, 1695, In Napoli, per Giacomo Raillard), costruito intorno all’esaltazione della chimica come seconda «notomia» (riportato a titolo esemplificativo); attribuisce il “Discorso …” proprio a Di Capua, per quanto lo stesso autore non esclude del tutto l’apporto di altre mani, data la consuetudine ad opere in collaborazione inaugurata dagli investiganti.
In sintonia con il Torrini è Salvatore Serrapica, che nel saggio “Per una teoria dell’incertezza tra filosofia e Medicina – Studio su Leonardo Di Capua (1617-1695)” attribuisce anch’egli il “Discorso…” quasi con certezza a Leonardo Di Capua.
Il “Discorso…”, diviso in due parti, si proponeva di dimostrare, nella prima l’opportunità che l’insegnamento della chimica rimanesse sotto il controllo scientifico di docenti qualificati, nella seconda, che la chimica “sia necessaria per la philosophia, e per la medicina”. Nella prima parte si sottolineavano ancora una volta i motivi corporativi che ostacolavano l’insegnamento. Rilevando la libera circolazione dei libri e dei medicamenti spargitrici, Leonardo si chiedeva “donde sia nato, ch’essendo già tanto tempo, che in Napoli usansi i medicamenti chimici, solo hoggi, che si comincia a leggere la chimica, si sia eccitato in alcuni Medici cotesto zelo della pubblica salute?… Al che sarebbe difficile il trovar altra risposta, se non questa una, che la ragion dell’interesse proprio, assai più che quella della nostra salute habbia svegliato in loro questo nuovo pensiero”.
Leonardo Di Capua, dopo aver dimostrato l’inconsistenza giuridica di un decreto, che proibisse l’insegnamento della chimica, ne difendeva l’insegnamento privato perché “non si da facoltà di apprenderla in altra parte”. In risposta ad un lungo elenco di obiezioni contro la chimica, di cui la più rilevante sembrava essere la sua novità, Leonardo, dopo aver ricordato una serie di illustri precedenti da Avicenna a Rasi, da Arnaldo di Villanova a Raimondo Lullo, concludeva ironicamente che anche la medicina ippocratica “si havesse a giudicar cattiva… a’ suoi tempi, perché fu nuova, e che la chimica dopo qualche tempo havesse a divenir buona, perché sarebbe antica”.
Quanto all’obiezione che la chimica disprezzando Aristotele e Galeno, ne mina i fondamenti filosofici, Leonardo osserva che l’arte chimica, come la logica e la geometria, è un’arte manuale “che insegna di separar et unire le sostanze de’ corpi naturali” e come tale potrà servirsene “qualsivoglia filosofo di qualunque setta egli sia, o Platonico, o Aristotelico, o Stoico, o Epicureo”.
L’importanza della chimica nello studio della filosofia e della medicina è il tema della seconda parte del “Discorso…”. Qui Leonardo indicava il compito della chimica nella separazione e nella ricomposizione delle diverse sostanze che costituiscono le tre classi dei corpi naturali “Et in così fatte operazioni, occupandosi in tutti gli altri corpi l’industria de’ chimici, con sottilissimi artifici, et invenzioni, hora segregando, et hora unendo le parti de’ corpi naturali, producono con sì mirabile arte nuove, e meravigliose sostanze, le quali arrecano non solo curiosità, e diletto a gli investigatori de’ secreti della Natura, ma ancora utilità grande al commodo, et al beneficio de gli huomini”.
Con sicurezza viene indicato il punto di separazione della Chimica dall’Alchimia: “Hor mentre gli Alchimisti colla mente e colle mani al fuoco travagliando, sudavano… alcuni vaghi più tosto d’investigar gli arcani, e le ammirande opere della Natura, che struggersi fantasticando, e penando nella compositione del chimico lapis philosophale, tutte le macchine, e gli artifici per la trasmutation de’ metalli dianzi trovati, rivolsero a più certo, et honorato fine, cioè di far notomia de’ corpi naturali et esaminare minutamente la loro composizione, a fin che si sapesse la vera natura di essi, e l’utilità, che havrebbon potuto arrecare nell’uso della Medicina”.
Il significato peculiare della chimica è individuato da Leonardo nella possibilità di poter “le cose tutte… non solo comprendere, ma anche colle opere, e coll’essercizio prattico imitare”. In tal modo la chimica non solo è utile, ma necessaria alla medicina, perché ci spiega “l’ultima costituzione, e natura delle parti”.
D’altra parte, il di Capua nel “Parere …”, dedicava buona parte del Ragionamento ottavo alla chimica e ne tracciava, immediatamente, un enfatico elogio: “Ditelo intanto voi in mia vece, o arti illustri, o rare scienze o nobilissimi studi di quella figliuoli; voi dilettose, giovevoli, e necessarie al genere umano arti dell’agricoltura, del fabbricare, del navigare, della milizia, della scultura, della pittura, della filosofia, della medicina; voi facendo testimonianza della grandezza, e dell’eccellenza
della Chimica, narrate pure, come da essa i vostri natali, il vostro accrescimento, il vostro splendor traete; dite come a’ vostri intendimenti porse la materia, agevolò l’opera”.
Ma il pregio maggiore della chimica o meglio la sua definitiva consacrazione scientifica era associata alla filosofia moderna, che “volendo investigar la natura delle cose” ha cercato di conoscere “la composizione di quelle, per venir finalmente alla cognition de’ principi, e de gli elementi da’ quali esse si costituiscono”.
Chiudo questa breve esposizione su Leonardo Di Capua e la Chimica con il ritratto che Francesco Redi diede dell’uomo: «Lionardo è valentuomo. Presume un poco di se stesso, poco stimatore di tutti, e tal poca sua stima non la rattiene prudentemente nel suo petto, ma la fa troppo palese, e con termini, direi io, un poco troppo liberi; ma in conclusione è valentuomo e il mondo avrebbe bisogno di una buona mano di simili valentuomini».
Riferimenti bibliografici:
– M. Torrini, Uno scritto di Leonardo Di Capua in difesa dell’arte chimica, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», 1974, IV, pp. 126-139; per la polemica chimica a Napoli v. più avanti, cap. IV.
Testo integrale su web:
http://www.ispf.cnr.it/index.php?modload=ispf_lab&wikipage=Strumenti_BCSV_II_V
– S. Serrapica, Per una teoria dell’incertezza tra filosofia e medicina. Studio su Leonardo Di Capua (1617-1695), 2003, Liguori Editore.
– L. di Capua, Parere divisato in otto Ragionamenti, ne’ quali partitamente narrandosi l’origine, e ‘l progresso della medicina, chiaramente l’incertezza della medesima si fa manifesta, accresciuta di tre Ragionamenti intorno all’incertezza de’ medicamenti, Colonia 1714 (1681), II.
Testo integrale su web:
http://books.google.it/books?id=NdUGAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=Lionardo+Di+Capoa+Parere&source=gbs_
similarbooks_s&cad=1#v=onepage&q&f=false
– T. Cornelio, Progymnasmata physica, Napoli, J. Raillard 1688 (1663), Leonardus a Capua lectori.
Testo integrale su web:
http://books.google.it/books?id=y9fFtic7MeYC&printsec=frontcover&dq=Thomae%20Cornelio%20Progymnasmata&source= gbs_slider_thumb#v=onepage&q&f=false
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IL DOCUMENTO