E vissero felici e contenti
21.04.2017, Articolo di Alejandro Di Giovanni (da “Fuori dalla Rete” – Aprile 2017, Anno XI, n.2)
Un altro discorso inutile.
Inseguire spasmodicamente questo concetto universalmente accettato di felicità, desiderarlo a tal punto da essere infelici, è davvero spregevole e tanto patetico. Questo stato è il risultato incrociato di condizioni soddisfatte dal senso comune, da ciò che la società ritiene possa essere etichettabile come condizione minima per sopraggiunta soglia di felicità avvenuta; l’affanno dell’inseguimento e il continuo inappagamento, rendono il vivere dell’uomo perennemente frustrato.
La felicità che ci vendono è lo specchio di una immagine artificiosa alla quale continuamente cerchiamo, inutilmente, di assomigliare. La messa in scena narrativa della felicità ci spinge a mettere in pratica i rituali grammaticali della sua corretta messa in atto, della sua credibile esibizione scenica.
La felicità socialmente determinata è la felicità essenziale, è l’approdo di tutte le nostre buone intenzioni al porto aperto dell’approvazione societaria, un buon umore con la licenza. I desideri che conducono al mare aperto della felicità, sono quasi sempre condivisi, perché ottenere ciò che si desidera (superando i problemi) è stare bene, e stare bene è essere e avere ciò che si deve essere e avere ciò che si deve avere, fare ciò che si deve fare. Di questa condizione interdipendente e avvilente, ne sono ad esempio un caso ancor di più esemplare ed eclatante gli adolescenti, sfiancati dal continuo desiderio di essere come tutti, ambiscono all’inclusione sociale e alla riconoscibilità perseguendo un processo di conformazione che li fa praticamente confondere e sparire. I rituali da seguire, le mode e i simboli da esibire e mostrare, gli oggetti da possedere, tutto deve essere assemblato in maniera meccanica e impeccabile: il decadere di uno solo di questi ingranaggi porterebbe all’isolamento, all’infelicità. Gli adolescenti e i giovani marciano così, come truppe dalle divise tutte uguali e le medesime armi verso il campo del divertimento, e se qualcuno si ferisce poco importa, la truppa marciante non aspetta nessuno, dovrà rialzarsi e continuare la marcia regolare se vuole rimanere in gioco per la conquista della felicità, una felicità che vale però quanto una battaglia, perché la guerra del vivere in cui incappiamo dovrebbe avere solidi basi, quelle consone ad una felicità meno illusoria ed effimera, e non a quella che consegue alla produzione della macchina del “divertificio” degli aperitivi, dei party e della “musica” di merda, dal mondo ovattato da fighettini e bamboline inscenato e abitato.
Questi ritrovi di massa sembrano allora assumere i contorni di un’oasi di felicità, ma a ben vedere, però, dietro le maschere dei sorrisi soliti di circostanza si annidano spesso i tormenti delle anime più depresse, così da sembrarmi davvero ritrovi di sepolcri di anime tristi che devono far finta, per convenienza, di essere felici e di poter avere poi le prove per dimostrarla (la presenza in questi luoghi e, possibilmente, la partecipazione ai rituali previsti).
E’ una felicità precaria, sfuggevole e caduca, è figlia della condizione della sua stessa società (che la partorisce). E’ il conto in banca, è il buon lavoro, è il Suv, è un attico, è l’Iphone7, è la figa statuaria da mostrare, è una vacanza di tendenza, è ciò che rende la gente felice, è mercanzia che spesso però colma il vuoto esistenziale dell’uomo contemporaneo, che nonostante tutto rimane costantemente insoddisfatto, perché queste pratiche partecipative comportano solamente cure palliative; per quanto possa sforzarsi, egli non potrà mai raggiungere lo stato più alto di benessere attraverso questo modo di costruire la propria felicità, gli mancherà sempre qualcosa che non riuscirà ad ottenere, anche quando gli sembrerà avere ormai tutto: io credo fermamente che Trump sia di gran lunga più infelice di un pastore che ho incontrato in Trentino.
E’ allora, la felicità, un surrogato alla mercé di tutti, un espediente tanto accessibile proprio perché vuoto, fasulla e priva di ogni consistenza, uno specchio distorto della vera sua essenza. Non so cosa sia e come possa essere raggiunta, di sicuro però so di certo che non è in vendita, o se lo è dura quanto una banconota di cento euro per strada.
Rincorrerla disperatamente nemmeno serve a granché, ognuno dovrebbe avere un modo, ognuno una meta; non dura mai tanto a lungo e credo sia rara, ma quando non è contraffatta fa tanto rumore e la riconosci, ti prende per mano e ti porta lontano da qui, lontano dal tempo, in sospensione. In un mondo tanto corrotto, è facile farsi abbagliare da finte felicità da rincorrere e raggiungere, ma ricordo anche la gioia autentica che si prova dopo aver dato, donato, aiutato (senza alcun interesse di ritorno).
Se questo porta alla felicità, quanto è triste la comunità del mio paese, tanto refrattaria al sostegno e all’aiuto dell’altro bisognoso e in difficoltà, quanto siete tristi (e razzisti) voi che rifiutate anche la più elementare forma di umanità, quella della solidarietà (per di più a pochi bambini profughi di guerra). Ho capito che ognuno si ricama un abito su misura per la propria felicità, e che quello più in voga per i bagnolesi è firmato dall’egoismo, dal solito timore di dover perdere qualcosa. La felicità, non lo so, d’accordo, ma di certo non abita nel mio paese, dove si aggirano grassi e brutti spettri senza anima, senza cuore e senza mente. La felicità, per una comunità tanto provinciale quanto retrograda, consiste al massimo nel gran profitto da sagra, nel chiedere al loro insensato Dio prosperità e salute, nell’aiutare al massimo il familiare prossimo stretto come se stesso.
Non sentirsi come voi, ecco, questo provoca felicità, e anche avervelo scritto (ammesso che gli interessati siano arrivati a leggere il giornale e a leggere l’articolo fino a questo punto, dubito).
La felicità cos’è allora? Forse è solo una fiaba, assomiglia proprio a quelle favole dove alla fine tutti vissero felici e contenti; una volta adulti e saggi però, comprendiamo che tutte quelle persone che alla fine della storia vissero felici e contente non sono mai esistite, frutto solo della fantasia dello scrittore e dei fanciulli che avevano il sacrosanto bisogno ingenuo di credere nella felicità. Poi diventa tutto dannatamente più complicato, ma anche inutile come ogni discorso che affronto.
Vedi: “Il pelo” – Giorgio Gaber 1999