Immigrazione e imprenditorialità
12.04.2017, Articolo di Gildo Parenti ’89 (da “Fuori dalla Rete” – Aprile 2017, Anno XI, n.2)
Il dibattito intorno al fenomeno dei migranti ha interessato come pochi altri il nostro comune e, seppur da lontano, vorrei offrire il mio contributo. Dal momento che già molti ne hanno parlato e scritto, vorrei approfondire l’argomento da una prospettiva diversa.
È del dicembre 2016 il Rapporto Immigrazione e Imprenditorialità Idos che fotografa un aspetto della questione di cui spesso non si tiene conto. Non se ne tiene conto, almeno, ogni volta che si dice o si pensa che ad ogni migrante in più corrisponda un posto di lavoro in meno. Non sarebbe stato così in nessun caso dal momento che le dinamiche economiche di un paese, di una regione o di una provincia non funzionano in questo modo; a maggior ragione non lo è in base alle informazioni che abbiamo a disposizione. Il dato che più risalta agli occhi è 550.000 aziende gestite da immigrati, il 9,1% del totale, gran parte delle quali in forma di impresa individuale: 350.000 circa. Nel complesso corrispondono al 6,7% della ricchezza creata in Italia. Chi apre un’impresa, se ha successo, assume, compra da nuovi fornitori beni e servizi e prova a formarsi un portafoglio clienti. In una parola crea posti di lavoro.
Negli ultimi cinque anni (2011-2015) le imprese in Italia sono diminuite dello 0,9% mentre quelle costituite da cittadini immigrati sono aumentate del 21%. Possiamo dunque discutere delle determinanti dei dati che abbiamo sotto gli occhi, non del loro peso. E in un certo senso è divertente osservare come, dal dossier, venga fuori un racconto non tanto dissimile dai luoghi comuni e dai pregiudizi a cui, più o meno volontariamente, diamo credito. Apprendiamo quindi che, chi proviene dal Marocco, nel 73,3% dei casi, si occupa di commercio, mentre, albanesi e rumeni, gestiscono imprese edilizie. I cinesi fanno un pò di tutto (non per niente si dice “lavora come un cinese”).
Questi, insomma, partono dalle bancarelle abusive, mettono da parte quanto possono e, appena ce la fanno, a volte dopo molti anni, iniziano a girare per mercati e fiere. A volte, se sono fortunati, aprono una piccola attività. Dopo anni pagati alla giornata imparato il mestiere e provano a farlo in proprio, percorrendo una sorta di cursus honorum non privo di difficoltà. E se tutto va bene si mettono in regola e contribuiscono alla previdenza sociale: 10,9 miliardi di contributi ivs versati a fronte di un beneficio che si limita allo 0,3% delle pensioni erogate. L’immagine che ne viene fuori, per capirci, ricorda più il Faust di Goethe che sfida i propri limiti che l’Oliver Twist di Charles Dickens con la ciotola in mano; rimanda ad una lotta quasi eroica combattuta da gente che, mattone su mattone, costruisce il proprio futuro, lontana anni luce dall’attesa del prossimo concorso o dalla nenia lamentosa dello stato che non assicura il posto. Leggendo questi numeri non è certo la pietà il sentimento che viene in mente, solo empatia o (perdonate il paradosso) invidia, per una forza di volontà che, a volte, mi piacerebbe avere.
Ovviamente non è tutto rose e fiori. Quello descritto è solo un aspetto di molti, non sempre così piacevoli. Merita attenzione chi è preoccupato per la propria famiglia e merita spiegazioni su come, operativamente, si intenderà gestire l’accoglienza e l’integrazione dei nuovi arrivati, se si deciderà in tal senso. Il punto è che affrontare questo fenomeno non è una scelta, solo come farlo lo è. Chiunque negli ultimi anni ha girato l’Italia lungo le arterie disegnate dalle diramazione di ferrovie e autostrade si è accorto che quello di cui parliamo sta già avvenendo e che, volenti o nolenti, non sarà possibile girare la testa dall’altra parte.