Discorso sulla libertà
08.11.2016, Articolo di Alejandro Di Giovanni (da “Fuori dalla Rete” – Ottobre 2016, Anno X, n.4)
Che sia reale ed effettiva, o solo avvertita e percepita, essere libero è una condizione che tutti cercano di raggiungere e salvaguardare, perché la libertà pare proprio essere uno stato imprescindibile nel quale, se non ci troviamo, è bello anche solo immaginarsi.
Quanto di davvero reale c’è nel grado di libertà che oggi una persona nelle nostre condizioni si attribuisce? In effetti, secondo il senso comune, abbiamo la percezione e la sensazione di essere e sentirci molto liberi, rispetto ad altri remoti tempi e spazi. Posso decidere e scegliere, in questo momento, se continuare a leggere questo articolo o, piuttosto, decidere e scegliere tra tante altre possibilità.
Sono libero allora? Non esattamente, perché la mia libertà, di fatto, è limitata ad un ventaglio di scelte percorribili: posso buttare il giornalino e andarmene in un bar a chiacchierare con gli amici davanti ad un caffè, ma magari avevo voglia di sfrecciare con una moto sulla Route 66, e per una serie di limiti, non posso.
In effetti, libertà e dipendenza sono concetti strettamente correlati: dipendiamo allora da ciò che facciamo, da ciò che abbiamo, ma soprattutto da ciò che siamo. Ciò che siamo è una condizione predeterminata, dove la volontà nulla può: la nazionalità, l’età, il sesso, la razza, l’etnicità, e determinante è la classe sociale di appartenenza, una classe operaia è condizione di partenza e influenza assai diversa da quella borghese, così come quella di estrazione culturale familiare. L’uomo, essere socialmente determinato, quando nasce, già ha subìto scelte determinanti e irreversibili: un maschio bianco italiano del ventunesimo secolo, non l’ho scelto e deciso io. Bello o brutto, alto o basso, perspicace o stolto, biondo o bruno, calvo o meno, malato o in salute, ricco o povero (come condizione di partenza è determinante), in un discorso sulla libertà, queste non scelte, hanno un peso quasi sempre decisivo.
La libertà sembra allora essere nient’altro che il residuale spazio concesso dalla dipendenza, periodi storici e politiche nazionali hanno poi variato questo campo di concessione. Allora certo, vivere in altra epoca e in un’altra nazione, è di certo condizione incisiva di tale restringimento o allargamento: qui, in una democrazia, io scelgo chi votare, di esprimere liberamente il mio pensiero e di scriverlo anche, di manifestare consenso o dissenso, e di vestire come voglio e di credere o non credere in una religione o in un’altra, di studiare cosa voglio per diventare ciò che voglio, di sposarmi o no, di avere figli o meno, di avere gusti sessuali convenzionali o meno.
In ogni caso, il concetto di libertà rappresenta una pura allucinazione, perché nei fatti, non può essere data. Qui e ora, essa crolla sotto i colpi di nuovi vincoli e nuove forme di schiavitù, quelle che sottostanno alle regole del consumismo estremo e sfrenato che, in contesti puramente mercantili e pubblicitari, ci rendono nient’altro che consumatori, persone che per attestare illusorie immagini di affermazione, rivendicare appartenenze a differenti classi sociali, o anche per l’assurda e paradossale condizione di sentirsi “liberi” potendo scegliere tra tanti beni di consumo, diventano esattamente schiavi del loro possesso, della loro merce, diventando merce a loro volta di un meccanismo di dittatura dell’immagine sociale, quella dell’idealtipo di bellezza che si misura in taglie e indumenti di marca, quella che ti abilita socialmente se possiedi un bene, e che è motivo di vergogna sociale se non si possiede (negli anni questi oggetti sono aumentati sempre di più): siamo quello che compriamo e che possiamo permetterci.
Allora la nostra condizione di persone libere, di saperci e sentirci tali, dovrebbe essere pensata in maniera del tutto nuova, perché noi siamo quello che dobbiamo essere secondo canoni dettati, semplicemente per essere accettati nei gruppi, ci sforziamo in tal senso, non siamo quello che siamo o che vorremmo istintivamente. Così, proprio come recita un film che di libertà tratta, le cose che possiedi alla fine ti possiedono, ed è solo quando perdi tutto che sei veramente libero. Se oggi abbiamo bisogno come non mai in passato di tutti questi oggetti diversi e disparati, vuol dire allora che non siamo mai stati tanto poco liberi. La vita, retta da una continua casualità senza senso, quando si origina, per il fatto solo di farlo, ha deciso già da sé parecchio per noi, oltre al fatto di obbligarci a venire al mondo (nessuno può scegliere o meno se nascere, né quando, dove e come). Quando poi il mercato ci offre degli oggetti che dovrebbero fungere da segni di distinzione (una borsa di dieci euro ti colloca in una classe inferiore, o più, a quella nella quale ti colloca una borsa di mille euro, così come una Punto e una Porsche), la libertà diviene delimitata dai beni del mercato e dalle logiche che attribuiscono a questi delle classi e degli stati da esibire come drappi o vessilli.
Affermarsi liberi corrisponde ad una dichiarazione del tutto mendace, affermarsi più o meno dipendenti, è ciò che più si avvicina alla reale condizione di partenza e di evoluzione dell’essere umano che, in una società data, non potrà mai definirsi libero, anche se vorranno con determinazione farglielo credere, anche se ad un certo punto davvero finirà col credersi libero.
La libertà non è quindi partecipazione, come cantava Gaber, i gruppi di appartenenza sono il risultato di non scelte arbitrarie, la libertà non è ribellione né disapprovazione, essendo queste il risultato di un tratto culturale o sociale dato; la libertà non è uno spazio infinito dove volare, non è raggiungere la cima di un monte e allargare le braccia, non è correre verso il mare, la libertà non è nemmeno sentirsi liberi: la libertà non esiste, ma ci aiuta di sicuro a vivere meglio.