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L’analfabeta

08.06.2016, Il racconto di Antonio Cella (da “Fuori dalla Rete” – Maggio 2016, Anno X, n. 2)

Antonio-Cella-2016Gioacchino Murat aveva lasciato da circa tre anni il Trono di Napoli. Era stato giustiziato, com’è noto, nel castello di Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815, circa tre mesi dopo il rientro a Napoli di Ferdinando I di Borbone, spinto sul trono del Regno delle due Sicilie dalla ferrea volontà del Metternich.

Non era la prima volta che il re “nasone” posava le sue regali chiappe su un trono che non gli apparteneva. Tuttavia, fu accolto dai sudditi napoletani in un clima di esultazione e di gioia specie da parte del popolino, “le bas peuple”, come lo definisce lo storico Pietro Colletta, costituito in larga parte da reazionari e sanfedisti (i cosiddetti “lazzari”, tanto cari al vecchio monarca) che vivevano alla giornata, poiché privi di un mestiere e di un lavoro fisso, ma sicuramente capaci di eroismo e di grandi slanci.

Egli, dunque, era benvoluto dal popolo, anche perché, nonostante la cronica discrasia finanziaria che caratterizzava il Regno, riconducibile soprattutto a spese per l’impiego e il mantenimento delle truppe austriache e per fronteggiare le ricorrenti epidemie di peste, sapeva rivolgere paterne attenzioni alla città e ai napoletani. E, nonostante tutto, non lesinava aiuti finanziari agli istituti di beneficenza e per il soccorso a domicilio dei più poveri.

Dal punto di vista dell’assistenza, intesa in senso lato, le cose funzionavano molto meglio di adesso, inizio III millennio, anche se, purtroppo, proprio come succede oggigiorno, non mancavano personaggi di spicco che tangentavano in ogni ambiente del Regno.

Re Ferdinando aprì i ricoveri di mendicità. I diciotto ospedali della città funzionavano talmente bene da ricevere l’elogio del noto clinico di Parma, Giacomo Tommasini. Non parliamo, poi, del Reale Albergo dei Poveri e di altri luoghi dove, quotidianamente, veniva assistita la gente meno abbiente del Regno.

Alla città aveva dato l’illuminazione, ampie strade, acquedotti, fontane e scuole. Al teatro aveva dato il posto centrale: il San Carlo, costruito da Carlo III, fu ricostruito dal “nasone” dopo l’incendio del 1816 nelle immediate vicinanze del Palazzo Reale. Di esso, il principe Francesco d’Asburgo diceva: “Ho assistito ieri ad una rappresentazione di Zoraide di Rossini ed ho veduto la sala in tutti i suoi particolari. Essa è indiscutibilmente la più bella di tutta Europa; come San Pietro, sembra meno grande di quella che è, per l’armonia e la ricchezza che vi regnano ed anche per la sovrabbondanza delle sue decorazioni. Ha centottanta palchi, tutti spaziosi e contiene seimila spettatori; pur tuttavia, si ode da ogni punto.

Napoli, per questi aspetti, veniva considerata la capitale d’Europa. Ciò è avvalorato anche dal fatto che fu scelta dai Rotschild a sede della propria banca, al pari di Parigi, Londra e Vienna. E non credo proprio di aver voluto cantare le lodi a Ferdinando di Borbone con la esposizione delle opere sopra indicate. Ma è anche giusto che la gente sappia quanto di buono abbia fatto per la città di Napoli.

Ma, veniamo al racconto. Esso, al 98/% è storia pura. Il restante 2/%, invece, è frutto della fantasia dell’autore.

Era il 18 febbraio 1818 quando re Ferdinando, dopo aver pregato Luigi De Medici, che ricopriva la carica di Ministro delle Finanze e della Polizia, di procedere alla stesura definitiva del concordato Stato-Chiesa (voluto soprattutto dalla regale consorte) si apprestava a raggiungere, per la soddisfazione dei piccoli bisogni quotidiani, il boschetto che costeggiava la strada  nuova che, partendo da Mergellina, serpeggiando tra le falde di Posillipo, si portava fin sulla spiaggia di Bagnoli dove, di fronte all’isolotto di Nisida, moriva.

La strada, terminata intorno al 1815, non era molto praticata dal popolino durante la stagione invernale. Essa era meta di pescatori e di qualche operaio della fabbrica di cristalli, ubicata a metà strada, che spesso lo si vedeva mentre, fradicio di salsedine e di sudore acidulo, spingeva esausto il riluttante traino di sabbia che segnava nella ghiaia sparsa sulla strada una linea di mezzeria di biondi acidi quarzosi, sfuggiti dalle feritoie del legno del cassettone del traino.

Nei dodici quartieri della città esistenti all’epoca, il più popoloso era quello del Mercato. Contava circa cinquantaduemila anime. Ma quello di Chiaia, che comprendeva Posillipo e Fuorigrotta, non era da meno: ne aveva circa ventisettemila.

Trovandoci, diamo anche un’occhiata nella stratificazione sociale dei napoletani borbonici, per meglio entrare nel farraginoso microcosmo partenopeo dei primi anni del XIX secolo. Se è vero che la secolarizzazione dei frati, attirati a Napoli dalla politica del Murat, aveva quasi sterminato il clero regolare possidente, è anche vero che, in ogni campo, specie in quello culturale, ci fu un netto prevalere dell’elemento ecclesiastico che, quindi, occupava il primo posto della hit parade demografica napoletana.

Seguivano a ruota: mercanti, negozianti, sensali, fabbricanti, padroni di bastimenti, spedizionieri, stampatori, incisori, avvocati, medici, cerusici e salassatori. Poi, quelli delle arti meccaniche, sarti, calzolai orefici, parrucchieri, filatori, tintori e cappellai. Non mancavano i muratori, gli stuccatori, i fontanieri, gli intagliatori, i forgiai e gli spadai. A costoro, poi, vanno aggiunti lazzaroni, mestieranti e la feccia dell’umanità mercenaria inglobata nelle truppe austriache di stanza nel Regno per combattere i rigurgiti murattiani, e si ha il quadro completo del caos che regnava a Napoli nell’anno di grazia 1818.

Ritornando al quartiere Chiaia, alla cui circoscrizione apparteneva la magione ferdinandea (dove il famoso “cafè d’o cecato” raccoglieva “guagliune” e vegliardi di malavita) la facciata assumeva i connotati elitari che la catapultavano al di là del luridume del Lavinaio, di Sant’Eligio e del Carmine (regno della napoletanitudine), quartieri sempre pregni di accattoni, di storpi, di frati e di mercanti, mali illuminati di notte e pericolosissimi di giorno. Rabbrividiamo ora per allora, nunc per tunc, al solo immaginare in quali condizioni igienico-sanitarie vivesse la gente napoletana dei quartieri popolari.

La Corte, raffinata e populista, che parlava il dialetto e il francese, incoraggiava la plebe a liberarsi degli escrementi facendoli gettare dalle finestre direttamente nelle strade che, come accade ancora oggi in alcuni paesi dell’entourage campano, raramente venivano spazzate. E succedeva, allora, che il manto fecale rendeva disagevole finanche il galoppo dei cavalli che spesso scivolavano sugli strati di stabbio e di guano. Oggi, nonostante gli sforzi di amministratori illuminati che si sono assunti l’impegno morale di presentare al resto del mondo una nuova immagine della città, in molte strade rimane estremamente difficile non inciampare in cumuli putrescenti di immondizia abbandonati da mercanti ambulanti, che non solo non pagano le tasse comunali ma lordano e appestano ogni zolla di terra su cui posano le loro ricche scarpe.

Ogni società ha i suoi reietti.

Immaginate, voi, quali e quante precauzioni dovesse assumere il suddito borbonico quando si accingeva ad attraversare un budello del quartiere Sant’Eligio? Il minimo che potesse capitargli era l’essere assalito da un branco di zoccoloni famelici, grossi come conigli, che stanziavano all’aperto nei liquami merdosi. Essi convivevano con gli abitanti dei vicoli, che più non incutevano loro paura, così come non incute più paura l’uomo di oggi agli uccelli: una volta bastava uno spaventapasseri per tenere lontano dai campi migliaia di pennuti, e ora è soltanto un romantico ricordo.

Le derattizzazioni? Una utopia del XX secolo

Per quelle strade si incontrava di tutto: frotte di mendicanti e storpi dalle ferite purulenti che si aggrappolavano sulle gradinate delle chiese. Ed era arduo cogliere lo spirito del Talmud, che recita: “Quando passa un mendicante, scopriti il capo perché passa l’immagine dell’Altissimo”. Ma il capo, i napoletani, se lo scoprivano al passaggio di Ferdinando IV, (nome assunto dopo l’incoronazione a re di Napoli) che con un sorriso appena abbozzato sotto il pesante naso e un “salutammo guagliò!” riusciva a calamitare la simpatia del popolino, per il quale aveva fatto, sì, qualcosa, ma non abbastanza da consentirgli di vivere allo stesso livello dei sudditi dell’Impero Asburgico che, pur essendo vessati essi medesimi, pur essendo spremuti dalla tasse imperiali, vivevano pur sempre in condizioni decorose, in ambienti sani, in città servite da acquedotti e fognature costruite, ironia della vita, dai conquistatori romani agli albori della civiltà.

Lungo la riviera, invece, le carrozze della borghesia e della magistratura si affiancavano a quelle dei nobili, facendo bella mostra dei segni inconfondibili del progresso che avevano raggiunto sotto il “nasone”. Carrozze di classe, fatte di legno pregiato da carrozzieri inglesi (Laurie and Marner), francesi (binder) e napoletani (Bottazzi e Polito). E, come oggi circolano nel caotico traffico cittadino le Roll-Royce, le Renault, le Mercedes, le Ferrari e le più popolari Fiat, così sfilavano, allora, trainate da pariglie di sauri “codamozza” o da cavalli irlandesi, acquistati direttamente all’asta di Ascot, le Phaeton, i Coupè, le Mail Coach, i Dog Cart, le Deaumont, le Clarences e le Landau (tuttora esistenti nel parco carrozze del Museo di San Martino).

Sul lungomare, invece, lasciate le aule delle università, dei licei e delle biblioteche, gli studenti si fondevano col popolino e con esso animavano le osterie della zona. C’era, dunque, nella bella stagione, un gran fervore di vita nei dintorni del Palazzo Reale e nelle strade adiacenti.

In quel giovedì del febbraio 1818, Napoli si svegliò inguainata come sogliola surgelata in una lastra di ghiaccio. Il vento di tramontana spirava forte verso il mare, ripulendo le strade dai residui pagliosi e dallo sterco appallottolato delle bestie da soma. La città era in letargo. Le acque del porto frizzavano schiumose sulle murate del molo e sulle fiancate dei bastimenti e dei vascelli ormeggiati nella darsena. Era, insomma, una di quelle giornate da trascorrere dinanzi alla scoppiettante vampata del camino.

Ma re Ferdinando volle uscire lo stesso.

Fattasi preparare per l’uscita la corvetta Galatea, ordinò a Gennaro, suo cocchiere di fiducia, di condurlo al solito posto. Gennaro Lubrano, padre di numerosa prole: sette maschi e quattro femmine, (spine grossissime quest’ultime nel fianco del povero cocchiere), era un uomo di media stazza. Aveva le basette bianche e folte che gli rivestivano le gote, e una fossetta a mo’ di ombelico che gli spaccava il mento a metà, da cui fuoruscivano ispidi peli, come rovi, che mai rasoio aveva reciso. Poteva avere una ventina d’anni quando il Cardinale Fabrizio Ruffo dei Duchi di Bagnara volle arruolarlo nella cosiddetta Armata Cristiana Reale. Accortisi, poi, l’alto prelato, che il piccolo uomo a malapena riusciva a reggere i cinque chili di peso del fucile ad acciarino calibro 17,5 in dotazione all’esercito del re Ferdinando, lo fece assegnare alla cura delle scuderie reali. Il cocchiere, era un uomo molto intelligente: eseguiva gli ordini senza mai discuterli ed era sempre pronto, disponibile ad eseguire i lavori più umili e pericolosi, tant’è che, quasi ogni giorno, pur di compiacere il monarca, era costretto a subire il miasma delle scorregge che Ferdinando gli flautava quando, scendendo e scale del Palazzo Reale, lo stalliere con una candela gli illuminava il passo.

“Tiè, acchiappa questo!”

E Gennaro, per ringraziarlo della ventata oleozzosa:

“Mille anni di salute a Vostra Maestà”.

Quando strigliava i cavalli, il loro pelo luccicava come i capelli brillantinati di Rodolfo Valentino e gli zoccoli degli equini non avevano un millimetro quadrato di sporco: sempre neri ed eleganti, come scarpe firmate. Peccato, però, che questo suo zelo nel lavoro e la fedeltà con cui si dedicava ai servigi dei suoi superiori non avessero il supporto di una scarda di cultura. Il pover’uomo, purtroppo, era analfabeta, come d’altronde la quasi totalità dei sudditi del buon Ferdinando che, per meglio intendersi con loro, fu costretto, Lui, spagnolo d’origine, ad esprimersi in “lingua napoletana”.

Non fu difficile, tuttavia, per l’eclettico stalliere montare sulle ali della dea bendata e farsi trasportare proprio sulla serpa della corvetta del monarca borbonico: redingote bleu, pantaloni a sbuffi bianchi, tuba e stivali neri. E a lui furono affidate le redini d’oro dei cavalli più prestigiosi del Regno. Quelli, cioè, che avrebbero trainato le artistiche carrozze, sopra menzionate, ricche di fregi d’oro e d’argento, con il prezioso carico di dame e damigelle, vestite di fruscianti abiti di seta pura dai colori sgargianti, dai cappelli a larghe falde con velette a tinta e manicotti di visone pregiato.

Quando la Galatea si arenò sulla spiaggia delle Riviera di Chiaia, più o meno all’altezza dell’attuale “Mappatella beach”, re Ferdinando, settantenne, massima espressione di una monarchia che, come diceva il Principe di Salina (autore de “Il gattopardo”) “aveva i segni della morte sul volto”, aveva il nasone più rosso del solito e con la mano destra, spoglia dell’inutile guanto di raso che gli ostacolava l’articolazione delle dita e gli annullava il tatto, si massaggiava ripetutamente il braccio sinistro che, nella parte centrale, all’altezza del cuore, presentava un evidente gonfiore dovuto alla inoculazione del vaccino antivaiolo, che lui aveva fortemente voluto. Fu un vero atto di coraggio, il suo, se si considera che l’intera Europa si era mostrata dubbiosa sulla opportunità di adottare il menzionato vaccino. Autore della vaccinazione regale fu il medico Marhall, che vaccinò non solo la famiglia reale, ma anche quella di Gennaro il cocchiere.

Il vento, intanto, si era chetato e re Ferdinando approfittò della momentanea tregua della furia di Eolo per dare inizio all’opera che, nel suo infantilismo di ritorno, in piena fruizione di malinconici tempi supplementari della sua vita, considerava di primaria importanza: quasi un inno alla sua regale persona. Estrasse, allora, dalle ampie brache i residui dei suoi genitali, spogli ormai di ogni virilità e, come era solito fare fin dall’inizio della restaurazione del Regno, iniziò la sua “regale pisciata”.

Aveva già impresso nella sabbia aurea “W il…” quando, per improvvisa siccità di urine, non poté dare senso compiuto alla più che invisa frase “W il Re”.

“Mannaggia a ripubblica, Gennà! E mo’ ch’è succiessu?

Il vecchio monarca soffriva, evidentemente, di ipertrofia prostatica. Ma, pur sapendo che non sarebbe mai riuscito nel giro di poco tempo a completare il “graffito”, tentò più volte, con sforzi inauditi, di cavare dall’antico violaceo “mollusco” il ripristino della minzione urinaria.

La frase non poteva rimanere incompleta.

Ferdinando sapeva benissimo che di lì a qualche minuto la risacca avrebbe annullato “l’inno” rimasto incompleto. E, da buon napoletano scaramantico, in quella frase mozza lui intravedeva: terremoti, pestilenza e la fine del Regno. Fu allora che chiamò in causa il cocchiere che, un po’ per il freddo, un po’ per decoro se ne stava raggomitolato con la testa tra le gambe sulla serpa dell’elegante carrozza.

“Vieni, Gennà”, vieni! Continua tu: devi aggiungere, a quanto già scritto, la parola <Re>.”

E Gennaro:

“Maestà, comme faccio, Maestà!”

E Ferdinando:

“E’ di vitale importanza per me e per il Regno. Cerca e capimme, guagliò! Devi obbligatoriamente completare la frase “Viva il Re”

E il fedele cocchiere:

“Maestà, vuie o’ ssapite  quanto ve sò fedele. Sapite che pe vuie so pronto a ddà a vita mea. Ma, comm’a mettimmu, Maestà! I song affabbeta: m’avissave accumpagna’ cu a manu.

                                                                                                       

1 Commento »

  • redazione scrive:

    Commento di Nello Molinaro:

    CARISSIMO ANTONIO, è sempre bello leggerti, perchè hai la capacità di sciorinare il tuo sapere, e le tue risoluzioni, in un modo unico, questo fa parte del tuo intelletto. Leggerti non è tempo perso, ma sicuramente recuperato , perché il farlo consente di ampliare il nostro sapere, portandoci in tal modo a riflettere ed a discutere . Hai la capacità di farci svegliare alcune volte da alcuni torpori della vita con il farci cambiare opinione che ne diventa oggetto di discussione, lo fai servendoti del tuo saper scrivere nell’ esporre i fatti che racconti lo si evince nel leggere alcuni tuoi estasianti passaggi scrittori –
    Non resta che salutarti ed abbracciarti, Caro Antonio”amico mio” , sappi che lo faccio con un sentito affetto.

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