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Profumo di Provincia

10.12.2010, Racconto di Rosaria Patrone

(Premio Letterario “Il Tartufo ‘d’Oro” 2010 – Primo classificato)

Caro Douglas

quest’anno il nostro appuntamento ad Ischia è stato disatteso per causa di forza maggiore: la malattia di mia madre. Non accadeva da anni che si verificasse un contrattempo tale da non lasciarmi via di scampo. E’ successo solo un’ altra volta, per motivi diversi, ma anche allora senza possibilità alcuna. Sapere che ritorni in Italia ogni anno dalla tua splendida metropoli per incontrare gli amici di questa città controversa eppure bellissima che è Napoli, rappresenta per me una scadenza assolutamente da rispettare. Ritorni, ormai, sempre in agosto per recarti “nell’isola verde” dove trascorriamo insieme almeno una settimana ogni estate. Se vado indietro con la memoria ricordo con immagini nitide il nostro primo incontro.

Era un giorno di metà novembre dell’ ‘89, quando gli amici mi informarono che sarebbe arrivato un giovane e brillante ricercatore dell‘ Orto Botanico di New York. Dopo aver fatto un programma che coprisse l’ intera settimana in cui saresti stato a Napoli, risultò che a me toccava ospitarti almeno per una cena. Era così che si usava tra noi amici con tutti i colleghi stranieri: il rito dell’ospitalità era un impegno a cui nessuno si sottraeva. Mi attivai immediatamente per organizzare la serata. Napoli è una città che può condizionarti la vita, nel bene e nel male, in molti suoi aspetti, e la cucina è sicuramente uno di essi. La parola “pesce” si affacciò nella mia mente prima ancora che avessi ipotizzato un qualche menù, ma, non potendo assolutamente tradire la mia origine, immediatamente dopo pensai “tartufo”, arrivando alla conclusione che l’una cosa non escludesse l’altra. I preparativi di quella serata furono accompagnati da non poco affanno. Come ho già detto era novembre, la stagione del tartufo era iniziata da poco, perciò fu facile procurarmene mezzo chilo: la quantità necessaria d’ ingrediente base per preparare l’ insalata tipica della tradizione culinaria bagnolese. Non era già più il tempo di mio padre, cavatore non giovane, mandato in pensione forzata da una pressione sanguigna altalenante e da un “tremore essenziale” alle mani. Egli aveva ceduto tutti i suoi cani ad altri cavatori, tenendone solo uno vecchissimo, di nome Speranza, che era considerato, a tutti gli effetti, un elemento della famiglia. Speranza è vissuto con noi fino alla sua morte, sopraggiunta alla veneranda età di diciassette anni.

Ricordo che fu una magnifica serata quella del nostro primo incontro. La cucina “mare e monti” accontentò tutti gli ospiti e stupì piacevolmente te che, finalmente, gustavi il tartufo nero di cui tanto avevi sentito parlare dai colleghi italiani. Altri ospiti fecero onore all’insalata dalle ipotetiche proprietà afrodisiache, ma non tutti ne apprezzarono l’odore forte e pungente, tanto da non riuscire neppure ad assaggiarla. Nessuno in quella serata avrebbe potuto immaginare quanta parte della mia vita fosse stata impregnata da quell’odore, quanto mi fosse rimasto ancorato nella mente più che nelle narici, e quanti episodi della mia fanciullezza e gioventù avesse caratterizzato. Non c’è stata mai una vera opportunità per poterti raccontare quale sia stato il mio reale rapporto col Tuber mesentericum.

Il mio papà, ormai ottantaquatrenne, è stato uno dei primi cavatori del posto. A quel tempo erano pochissimi, tre o quattro al massimo. Questo numero è cresciuto poi in modo esponenziale: credo che, oggi, in ogni famiglia del nostro comprensorio vi sia almeno un cavatore dilettante. Per me – prima bambina e poi adolescente – vivere con cinque, sei o più cani da tartufo era un fatto d’ordinaria amministrazione. I cuccioli erano i miei giocattoli “viventi” e trascorrevo molto tempo ad osservarli già dalle loro prime ore di vita. Quando le cucciolate erano numerose la madre non era in grado di allattare tutti i piccoli: era allora che entravamo in scena io e mia sorella per allattare con il biberon un cucciolo ciascuna. La scelta dei cagnolini da alimentare era inevitabilmente un’impresa titanica. Volevamo  entrambe lo stesso cucciolo, era così tutte le volte. Raggiunto però l’accordo – anche verbale – consideravamo l’affido un impegno serissimo. Oggi credo che fosse una precocissima prova di “maternità”. Allattarli era solo il primo degli impegni assunti, ne sarebbero seguiti molti altri nell’arco della vita dei nostri animali. Ancora adesso non capisco perché noi – due sorelle con pochissima differenza d’età – ci dovessimo accapigliare per un nonnulla. Lo facevamo quasi per ogni cosa e non faceva eccezione la scelta dei nomi dei cani che avevamo in affido.  A turno e per ripicca ponevamo il veto per un determinato nome, raggiungendo un compromesso solo dopo accanite discussioni. Il leitmotiv che accompagnava il laborioso processo fino alla conclusione ed oltre, era: “  è più bello il mio…”. Non sempre, però, la questione dei nomi finiva lì, a volte papà imponeva il cambiamento di uno o di entrambi i nomi. Capisco solo ora quanto fosse rilevante, per lui, il suono dei nomi, e la facilità nel ricordarli. Egli li avrebbe chiamati per nome migliaia di volte nell’arco della loro vita: per controllarli, per impartire i comandi, per incitarli e dirigerli nella ricerca del tartufo. Al momento riuscivo solo a pensare che i grandi erano davvero prepotenti! Quando poi si trattava di addestrarli, a noi bambine toccava il semplice ruolo di spettatrici: il ruolo di istruttore era esclusiva di papà. Questa operazione non avveniva prima che i cuccioli avessero compiuto quattro mesi di vita, ed era la fase più interessante, divertente o addirittura comica di tutto il loro periodo di sviluppo.

Ricordo ancora che tu, quella lontana sera, mi chiedesti di illuminarti sul lavoro dei cani. Ti raccontai in modo scarno di come questi annusavano il tartufo anche a parecchi centimetri di profondità e che lo dissotterravano scavando; solo successivamente, abbaiando, richiamavano l’attenzione del padrone. Non credo di averti parlato di cani speciali che, dopo aver scavato il tartufo prendendolo delicatamente tra i denti, per non scheggiarlo, lo portavano al padrone che li ricompensava con qualche bocconcino appetitoso: Speranza era uno di essi. Non erano molti i cani capaci di tanto, ma bastava averne almeno uno per sveltire di molto il lavoro. Si capiva già in fase di addestramento quali di essi, per abilità e autocontrollo, sarebbero diventati degli eccellenti cani da tartufo. La razza non è importantissima: i nostri erano quasi tutti meticci, ed è risaputo che questi cani sono intelligentissimi, molto resistenti e veramente affettuosi. Papà dava inizio alla delicata operazione d’addestramento lanciando un tartufo di piccole dimensioni a qualche metro di distanza da quella sorta di platea dove sostavamo, pronte ad assistere a quello che sapevamo sarebbe stato un vero spettacolo; il cucciolo rincorreva il tartufo cercando di prenderlo per mangiarlo. Per noi bambine, in quella atmosfera quasi circense, era puro divertimento assistere a testate contro il muro per frenate tardive, rincorse anticipate, capriole e scivolate. La nostra attenzione era tutta concentrata sui cuccioli allattati artificialmente, ai quali attraverso il latte credevamo fermamente di aver trasmesso parte del nostro stesso patrimonio “genetico”.  Scorgevamo nella loro solerzia nel rincorrere il tartufo, come in quella che poteva essere una risposta tardiva nell’intercettarlo, sfaccettature del nostro stesso carattere. Papà stava al gioco e ci anticipava il successivo contegno del cucciolo di mia sorella o del mio, sentenziando che non poteva essere diversamente conoscendo la nostra indole.  Le inverosimili affinità di natura caratteriale erano oggetto, da parte di noi bambine, di strampalate  dissertazioni  pseudo – filosofiche , non potendo attingere ancora a conoscenze scientifiche per comprendere le differenti risposte dei due cagnolini ad uno stesso stimolo. Singolare era la velocità con cui i piccolini imparavano a trovare il tartufo che noi stesse nascondevamo in posti sempre più difficili da raggiungere. L’ addestramento si concludeva sempre, per l’allievo di turno, con grandi abbracci per i successi raggiunti. Il contatto fisico con i nostri cani iniziava prestissimo e non si esauriva pressoché mai.

Nelle successive serate a casa di altri amici – ospiti di turno – con interesse crescente mi chiedevi notizie territoriali: volevi conoscere la fascia climatica dove si trovava il nostro tubero e come fosse regolato il traffico dei cavatori in quei luoghi. A quel tempo i cavatori erano pochissimi e avendo a disposizione un territorio vasto tutto filava liscio. Ognuno di loro conosceva bene le abitudini degli altri e si regolava di conseguenza, cosicché la divisione del territorio, giorno dopo giorno, avveniva in modo automatico. I problemi iniziarono con la corsa al “mestiere” di cavatore, effetto della perenne carenza di occupazione che affliggeva il nostro territorio. A molti, giovani e non, sembrò l’unica soluzione possibile al problema lavoro, pena l’emigrazione. Con l’aumento del numero dei cavatori si creò una sorta di ingorgo nelle zone dove si tartufava. Per risolvere la questione si puntò, allora come ora, sulla tempistica: chi arrivava per primo e per quel giorno era padrone della zona, l’altro avrebbe dovuto cercare un altro posto. Questo fatto portò i cavatori a discussioni esasperanti e qualche volta a veri e propri litigi. Sempre più spesso alle discussioni tra padroni si associava una vera lotta tra cani avversari che richiedeva la forza per essere sedata. Ancora ora si litiga nelle faggete, dove cresce il Tuber mesentericum.. Secondo Carlo Vittadini, scopritore di diverse specie di tartufo, il nostro tubero non è tra i più pregiati. Lo stesso dicasi per il Tuber aestivum, detto “scorzone”, che si trova tra giugno e settembre nei nostri querceti in una diversa fascia climatica . Esso è ritenuto da alcuni di qualità superiore perché di sapore più delicato e quasi privo di odore, mentre Vittadini lo colloca accanto al mesentericum nella classifica delle specie. Quella che per un bagnolese è una caratteristica essenziale, distintiva e imprescindibile – l’odore del mesentericum – nel mercato del tartufo rappresenta un ostacolo insormontabile per salire di qualche gradino nella scala della qualità. Questa è l’unica ragione del costo piuttosto basso del nostro tartufo rispetto alle specie più pregiate. E’ stato sempre così e, nonostante le oscillazioni di mercato fossero spesso favorevoli al nostro tubero, nessuno è riuscito ad arricchirsi facendo il cavatore. Essendo però quest’ultimo un lavoro stagionale, la maggior parte dei cavatori lo ha fatto e lo fa come secondo lavoro. Alla mia famiglia ha portato benefici che hanno fatto la differenza.

Mio padre di mestiere faceva l’operaio forestale. Questo lavoro s’incastrava bene con l’attività di cavatore: lavorava come operaio della comunità montana per cento giorni l’anno, tutti concentrati tra la primavera inoltrata e gli inizi d’ottobre, per il resto dell’anno era a tutti gli effetti un cavatore a tempo pieno. La sua paga da operaio era magra, solo con l’introito dell’attività di cavatore si andava avanti con dignità. Noi donne della famiglia patimmo per circa un anno la lontananza di papà che nel 1966 fece la sua unica esperienza di emigrante in Svizzera. Questo fatto, però, non portò al successivo trasferimento di tutta la famiglia in quella nazione, come avveniva per molti nuclei familiari, bensì al ritorno definitivo di mio padre: egli aveva deciso che era preferibile, a parità di impegno lavorativo, restare nel nostro paesino e cercare di cogliere appieno tutte le opportunità che la natura del luogo offriva. Erano questi gli anni del “miracolo economico”, le realtà rurali si spopolavano per il fenomeno dell’urbanizzazione che coinvolgeva tutto il territorio del nostro Paese . Tra gli anni ‘50 e ‘70 più di dieci milioni di italiani furono coinvolti in migrazioni interregionali e in parte verso altre nazioni. Il passaggio da un’economia agricola ad una industriale portò a spostamenti di massa verso le periferie urbane dove sorgevano le industrie; il flusso migratorio andava dal sud verso le città del nord, lasciando la parte bassa dello stivale intrappolata in una “questione meridionale” ormai incancrenita. Il fenomeno dell’urbanizzazione ci vide protagonisti solo in minima parte, merito soprattutto delle nostre risorse territoriali, quali il tartufo e la castagna. L’allora giovane e innovatore sindaco del mio Comune lottizzò una zona appena fuori il centro del paese e distribuì gratuitamente, a chi ne faceva richiesta, lotti per costruire nuove case, con l’unico impegno di iniziare la costruzione entro un anno. Questo richiamò dall’estero molti nostri emigranti che, avendo costruito casa, nell’arco di pochi anni ritornarono anche solo per invecchiarvi. In questo tempo di grossi cambiamenti nazionali ed internazionali, noi sorelle eravamo diventate “giovani donne”, ambedue studentesse liceali attente a cogliere i venti del cambiamento che interessavano buona parte del mondo occidentale. Tutto era partito dalla tua America, per giungere poi in Europa, prima in Francia e poi in Italia: era il “Sessantotto”. Ciò che accadeva nel mondo e la sua colonna sonora ci giungevano attraverso la tv, una delle più significative espressioni del boom economico. La percezione che i venti del cambiamento soffiassero anche da noi divenne palese con quasi un anno di ritardo, ma ci trovò pronte a vivere tutte le esperienze che il momento richiedeva. Tra studio, letture, musica e contestazioni, il nostro impegno familiare con il tartufo ed i cani continuava. Non discutevamo quasi più noi sorelle, era arrivato il tempo della solidarietà, dei grandi sogni e dei mille progetti. L’era del computer era lontana da venire, perciò frequentavamo con assiduità l’ottima biblioteca comunale. Sceglievamo cosa leggere quasi a caso, a volte affascinate solo dal titolo: nonostante questo leggemmo molti classici italiani e stranieri. A quel tempo, Fernanda Pivano, ambasciatrice di molti scrittori americani, importava, traduceva e promuoveva le loro opere. Lo aveva già fatto con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, continuò con gli scrittori della Beat Generation: conoscemmo così Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti.

L’America ci sembrò più che una rivelazione, una promessa di vita.  Una girandola di amici, interlocutori ideali per ogni sorta di scambio culturale e struggenti innamoramenti giovanili, rendevano le nostre giornate  frenetiche. A detta dei vicini la nostra casa ricordava quella delle vecchie ostetriche; simile era, infatti, il continuo andirivieni di giovani, che pareva avessero sempre un messaggio di vita o di morte da dover trasmettere con urgenza.  I nostri compiti familiari, nel frattempo, erano cambiati, si erano evoluti. Ora toccava a noi portare, la sera, il cavato di uno o più giorni ad una delle due persone addette a raccoglierlo per spedirlo poi alle industrie cui facevano capo. Questi erano un signore e una signora di una certa età che raccoglievano tutti i tartufi del comprensorio. La scelta di darli ad uno invece che all’altra dipendeva dal prezzo che questi imponevano, che si diversificava, a volte, di poche decine di lire al chilo, perciò  i cavatori sospettavano che vi fosse una sorta di accordo tra loro. Personalmente preferivo la signora che, oltre ad offrirci qualche leccornia, ci regalava tutte le volte cento lire a testa che a fine settimana diventavano  un piccolo tesoro. Ambedue i raccoglitori abitavano dall’altra parte del paese a non più di duecento metri l’uno dall’altra. Noi ci andavamo a piedi, attraversando la piazza principale del paese sempre affollata. Questo ci turbava non poco, perché pareva che tutti ci osservassero; una sensazione che ci accompagnò per tutto l’arco del tempo in cui espletammo questo compito.

Gli inverni di 30-40 anni fa erano piuttosto rigidi paragonati a quelli attuali. Non credo che questo sia un inganno della memoria, come qualche “esperto” tenta di farmi credere ogni qual volta si  tocca l’argomento. La neve imbiancava le montagne già a novembre per continuare con brevi interruzioni fino a marzo ed oltre. Quando  non raggiungeva altezze proibitive, mio padre saliva in montagna con i cani per cercare di cavare qualche tartufo. Tutta la famiglia andava in crisi se il tempo peggiorava e il ritardo di papà diventava preoccupante. Quando questo accadeva, noi ragazze percorrevamo a ritroso l’ultimo tratto di strada che portava dal limite della zona abitata a casa, aspettando di vederlo apparire in lontananza da un momento all’altro. Credevamo così di propiziarne il rientro, invece, inconsciamente, tentavamo di abbreviare l’estenuante attesa. In uno di quei giorni, rimasto impresso come un marchio a fuoco nella mia memoria, la neve aveva spruzzato di bianco le vette dei monti più alti e pareva non voler scendere più a valle. Quando mio padre tornò dalla montagna era già tardi, ma non era per nulla infreddolito, né tanto meno particolarmente  affaticato;  gli andai incontro per aiutarlo come potevo. I cani, come sempre, saltavano da tutte le parti, mi facevano le feste, rischiando di farmi cadere. Il bagagliaio della vecchia automobile era pieno di pacchi fatti di contenitori improbabili. Ne afferrai uno, era un grande fazzoletto-bandana pesantissimo e a fatica lo portai in casa. Poi, aiutata dal resto della famiglia, fu la volta dello zaino, della giacca con la grande cacciatora rigonfia, di un maglione che aveva le maniche legate a mò di sacca per trattenerne il contenuto e  di altri  fagotti improvvisati: tutti  stracolmi del profumatissimo tubero.  Recuperammo il contenuto di pacchi e pacchetti e lo pesammo: erano più di sedici chili di tartufo. La sera stessa, in due tornate, portammo tutto il cavato alla signora che lo raccoglieva. L’attraversamento doppio della piazza ci rimandò tutto raddoppiato: sia il tormento che la ricompensa. I nostri cani trascorrevano tutto l’inverno, periodo di intenso lavoro, al piano terra della nostra abitazione, che purtroppo non aveva  giardino. D’estate li trasferivamo in località Marotta, appena fuori l’abitato, in una casa di campagna semi-diroccata e priva di tetto. All’interno mio padre aveva costruito una confortevole cuccia fatta di robuste assi di legno e tutto attorno, delimitato dai vecchi muri, si apriva un grande cortile. In un angolo di questo era cresciuta spontaneamente un’acacia gigantesca che proiettava un’ombra provvidenziale. In questa stagione essi salivano in montagna solo occasionalmente, per il resto del tempo godevano del meritato riposo. In quei mesi eravamo noi ragazze, libere da impegni scolastici, a portare loro da mangiare. Lo facevamo una volta al  giorno, più spesso la mattina prima che  il sole fosse alto per evitare un eventuale incontro ravvicinato con “la  vipera” di cui avevamo un sacro terrore. La strada per raggiungere la Marotta era in buona parte sterrata, eccetto un piccolo tratto erboso che percorrevamo di corsa e cantando a squarciagola per spaventare e mettere in fuga le vipere che presumibilmente vi si nascondevano. Superato il tratto critico e ormai rilassate, sghignazzavamo per le stralunate canzoni inventate al momento e, più che cantate, urlate con voci stridule, alterate dalla paura…

A distanza di tempo, mi rendo conto di come sia stato un vero privilegio avere trascorso l’infanzia e parte della gioventù così strettamente a contatto con una natura fatta di alture, di altipiani spettacolari come sospesi nel cielo. Quando  scelte più o meno obbligate mi hanno portata lontana, ho spostato l’  entusiasmo che mi animava per le mie alture verso nuove mete. Ho sempre creduto che ogni luogo possedesse una promessa intrinseca di vasti orizzonti da scoprire, di numerose opportunità da prendere al volo. Capivo però, nei momenti critici della mia esistenza , che  attraverso i sogni tornavo a rifugiarmi tra le mie alture.  Interpretavo il sogno ricorrente come una necessità inconscia di tornare alle radici. Nel sogno una gran nevicata ricopriva lo sconosciuto paesaggio, identificavo soltanto il cielo basso e i suoni ovattati che mi infondevano una profonda calma interiore. Non conoscevo ancora Jung e le mie capacità introspettive erano grossolane, eppure intuivo che l’inconscio mi inviava un messaggio forte, non difficile da decifrare. Oggi, quando tutto sembra andare alla deriva penso: alla fine arriverà la neve! Sentire la  neve con tutti i sensi é una capacità che ci accomuna: tu mi raccontavi di averla scoperta  prestissimo, nei primi inverni Newyorkesi dopo il tuo trasferimento dalla California. E’ sorprendente come siano radicate in noi , sensazioni,  suoni, colori e odori che hanno contraddistinto la nostra infanzia.  Situazioni, fatti e luoghi di un tempo remoto possono essere riportati alla coscienza grazie ad un “odore della memoria”. Quello del Tuber mesentericum, ha impregnato il cammino della vita di ogni componente della mia  e di molte altre famiglie di questo luogo, e promette di farlo per tanto ancora! E’ tempo per te di ritornare in Italia, ancora per una volta, nella stagione del tartufo, per celebrare la nostra lunga amicizia con un’insalata speciale …

Un abbraccio

Rosaria

                                                                                                       

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