L’Italia non è un Paese per ciclisti
di Cesare Martinetti, 08.12.2010 (La Stampa)
A Parigi, come ciclista, sono stato investito da un tassì in rue de Rivoli dove, come sui grandi boulevards, lo spazio «ciclabile» è banalmente previsto sulle corsie preferenziali in promiscuità con i mezzi pubblici. A Berlino, come pedone, sono stato investito da un ciclista che viaggiava altero sullo stretto nastro ciclabile che una anonima striscia bianca gli riservava sul marciapiede di Oranienburger strasse in promiscuità con i bipedi umani. A Londra un amico ciclista, prima di salire in bici, mi ha consigliato il caschetto e lo spirito del «fighter», del combattente. In Italia c’è da sperare in bene. Da noi i ciclisti muoiono da due a cinque volte più che nel resto d’Europa. Soggetti silenziosi, discreti, puliti, ma soprattutto deboli.
La mattanza di Lamezia è l’improvvisa epifania di un dramma che corre tutto l’anno sulle strade. È un’altra anomalia italiana. Il drogato che corre come un pazzo sulla corsia opposta è un accidente che non fa sistema. Ce ne sono – eccome – anche nei Paesi della vecchia e più educata Europa dove la bicicletta è invece amata e rispettata. Eppure anche lo spaventoso incidente di domenica mattina difficilmente sarebbe successo in Francia, Germania, Belgio per non parlare dell’Olanda. Semplicemente perché là i ciclisti hanno un sistema di ciclostrade sulle quali si possono incontrare trattori, rare automobili in transiti locali, ma per il resto una folla di altri «routards» sulle due ruote.
Il cicloturismo è nel suo piccolo un fenomeno di massa. I tour operator organizzano ogni tipo di vacanza, forniscono bici, itinerari, prenotano hotel e ristoranti, un furgoncino segue e precede il gruppo portando i bagagli. Si va da locande e trattorie a lussuosi cinque stelle. L’Europa è percorsa da carovane di ciclisti. È un turismo d’élite, ma ha la sua consistenza. Lungo i grandi fiumi – Elba, Danubio, Loira – e le reti di canali che collegano Francia, Germania e Olanda corrono vie ciclabili che cuciono una geografia di luoghi minimi in un’ecologia del viaggio che non è più sinonimo di snobismo. Da quelle parti, però, anche i treni locali prevedono passeggeri dotati di biciclette che raggiungono le ciclostrade sui mezzi pubblici. A Berlino è facile trovare ragazze e ragazzi che scendono in metrò portandosi la bici.
Insomma un sistema che i poveri caduti della statale 18 della Calabria di domenica non si sognavano nemmeno. In città la convivenza dei tre soggetti – ciclisti, pedoni, automobilisti – è ancora più problematica. I ciclisti vanno protetti dagli automobilisti, ma anche i pedoni vanno protetti dai ciclisti. E chi va in auto si protegga da solo andando piano, visto che ha la «corazza». Le piste ciclabili sono abbastanza? Ma poi servono davvero?
Il luogo dove tutto questo appare miracolosamente e virtuosamente convivere in forma di autoregolazione è una città come Amsterdam. Le «piste» sono spesso nient’altro che uno spazio di cinquanta centimetri che corre tra i marciapiedi e le auto, ma tutti sanno che c’è e lo rispettano. I semafori con le sagomine delle bici regolano virtuosamente le precedenze. Laddove lo spazio è promiscuo, la velocità è moderata e qualche breve scampanellata rompe il silenzio tipico delle città nordiche.
Nelle grandi città padane – Ferrara, Mantova, Parma, etc – è l’abitudine e il carattere a rendere civile l’esistenza delle due ruote. I pedoni italiani odiano i ciclisti che vanno sui marciapiedi o sotto i portici e hanno ragione. I ciclisti odiano gli automobilisti che non li considerano come un veicolo degno dello stesso diritto di precedenza, per esempio. Il vero incubo del ciclista sono le portiere che si aprono all’improvviso (causa di molti incidenti). Pedalare sui marciapiedi e in mezzo alle vie è a volte una soluzione di difesa e insieme sopravvivenza. Nella giungla delle grandi città italiane, come a Londra, bisogna davvero essere dei fighters.