LETTERA D’AMORE di Pasquale Sturchio
05.01.2016, Lettura di Giuseppe Marano
Io penso che il peana d’amore in suprema sintesi con l’acme poetico del dolore sia raggiunto ed espresso nei consueti toni incandescenti nella poesia LETTERA D’AMORE del nostro poeta Pasquale Sturchio! Del quale la cifra rischiosa rischia di affondare e restar recondita nella Fossa delle Marianne che dissuade qualsiasi periglioso quanto improbabile sondaggio abissale, aleggiando alla fine con l’aura misteriosa d’un’araba fenice; a meno che temerariamente non si osa tentare le spore del possibile, partendo dal semplice presupposto esistenziale filosofico prima che poetico dell’auctor.
Secondo me qui si tocca la sintesi sussuntiva da un punto di vista sentimentale in simbiosi con l’acme poetico, per cui la lirica esplosa per antinomia in Eros, per l’irraggiungibilità inaccessibilità dell’amore, può assurgere a simbolo più cospicuo ed eclatante, ad una sorta di summa in cui in nuce c’è tutta una palpitante esistenza estenuata da un’autoinvestigazione impietosa dell’essenza e della radice dell’amore-dolore, sintomatico e tutto sturchiano nodulo dolente inscindibile alimentatore della sua vita e della sua poesia. Il Paradiso che traluce immenso ed abbacinante da uno sguardo fuggente, si rivela uno iato incolmabile, una voragine abissale irrimediabilmente divisoria senza fondo, che, proibito senza motivo, inespugnabile al primo al secondo all’ultimo attacco, si traduce inesplicabilmente nell’atroce l’inferno in terra: “Sei entrata nella mia vita/ come in Inferno un angelo!”.
A leggere di primo acchito, subito il biglietto da vista è scioccante perché, dalle fondamenta dell’essere, ti scuote il socozzone di una inaccettabilità esistenziale! Basata sulle ragioni dell’assurdo che smentiscono ogni ragione e ti travolgono nell’abisso dell’ àlogon del “caos casuale” dalla vertigine della caduta nell’inesistenziale da cui solo il guizzo d’uno sparuto aculeo di stella che ti soccorre dal tempo immemore, può trafiggerti! E la corposità sanguigna esplosiva magmatica dell’ode nasce dalla inaccettabilità di questa condizione di condanna infernale all’assurdo immoto, avvertita e rifiutata come fatale metafisica anaffettiva nequizia. E’ l’epirosi come conflagrazione che sprigionadosi dal sé investe e travolge il cosmo, innescata dall’indignatio impotente contro questa pseudovita inesplicabile nella sua nequizia che supera ogni malvagità in quanto semplicemente …a-sensibile!
La ribellione “atomica” esplode nella confessione suprema protesa lucidamente nell’anelito dell’…impossibile, ma che tuttavia non riesce subito a rassegnarsi, non può epurarsi dalla immarcescibile pulsione tensione istinto umano mirato al télos: la tensione di mira al bersaglio “divina ferita” che dispettosamente sfugge sempre dispettosa!
Per cui di primo acchito si ha l’impressione di una effervescenza casuale e stocastica dispersiva nelle gore dell’essere, mentre c’è una innervazione dolente incandescente tesa allo spasimo al punto da mandare impercepibili ultrasuoni sinfonici d’ineffabile dolcezza per chi sa ascoltare. In una parola: l’assurdità di un divieto atavico fatale metafisico: l’impedito incontro, la con-fusione nell’amore vietata dalla esistenza dai più inneggiata come bella. L’insorgenza profonda della fiamma intensa autentica pura e sincera a radicibus dell’essere non può non apprendersi, non può non deve lasciare indenne ed insensibile il focus polare attrattivo motore dell’esistenza che dà forza e linfa al vivere!
E’ una mostruosità cosmica innaturale che il poeta non può accettare ma non solo lui, come l’umanità intera l’ulteriore inclinazione dell’asse terrestre o la fuoriuscita lo sganciamento del nostro opaco pianeta dalla sua orbita, che sarebbe la fine lenta o istantanea che sia!
Ma intanto questo si verifica in quella dolce dannazione dell’amore dimidiato Paradiso/Inferno annichilendo ogni possibilità di flebile opposizione. La fatale inaccettata condanna all’impotenza assurda! Ma che pur passa anche in questa inumana condizione, imponendosi beffarda nel senso che non puoi non accettarla, come genialmente ebbe a dire il vate: “…e intanto fugge /questo reo tempo, e van con lui le torme/ delle cure, onde meco egli si strugge…“.
L’overture ha il sapore pervasivo e caldo di uno schietto epigramma classico intriso di antinomie sentimentali catulliane: diremmo volgarmente: “è tutto un programma” nel senso che il nodulo dolente è tutto qui, nell’interdizione fatale inesplicabile del contatto bramato dai due protagonisti respinti da un tertium incognitum innominabile: “Mio dolce Veleno/ questi versi sono per te!”. Il “veleno” è divinizzato in “Veleno” maiuscolo avvolgente il tutto in una perentorietà inesorabile! Difficile impossibile che le parole arrivino a destinazione e che soprattutto facciano il vietato miracolo! Ma volano sole nonostante la fredda rassegnazione e la ribollente essudazione. Ecco esplodere, come il lampo che d’un attimo svuota l’immensa caverna del cielo, il vero incipit, la radice ispirativa, il nucleo vitale della lirica, espresso con perentoria perspicuità epidittica: “La favola della mia poesia sei tu!”.
E ci potremmo fermare anche qui ma il poeta a questo punto non può trattenere l’empito della esemplificazione fenomenologica del suo paradiso perduto -che lascia dilacerazioni lancinanti quanto invisibili nell’anima- inseguito perseguito ma negato chiuso in una ferrigna inespugnabile Città di Dite! E da qui erompono bellissime e tremende le vampe delle tempeste solari che nella loro devastante incommensurabilità rispetto a noi, virus impercepibili, sono solo uno sparuto punto di luce che s’accende e spegne subito nella distesa opaca senza limite. Il poeta si avventa con una forza violenza brutale contro quell’angelo infernale (quasi Lucifero femmina o femmina luciferina) che d’improvviso ha disintegrato la sua serenità con potenza distruttiva, le chiede incredulo quasi bruscamente: “Ma perché mi distruggi?”: “…me ne stavo…per i fatti miei/quando furtivamente sei entrata/ nella mia virginea solitudine”…e così via sul diapason sempre più acuto da confinare col…silenzio perchè il suono diventa interdetto sconfinando dalla portata d’umano orecchio: “sei la fresca limpida polla/nel mio immenso desolato deserto…”…Per evidenziare il dramma nella sua dimensione apocalittica basterebbe soffermarsi su un delicatissimo innocuo aggettivo: virginea riferito a solitudine!
Cosa vuol significare il poeta? La sua condizione precedente di divina imperturbabilità sconquassata irrimediabilmente dalla epifanica apocalittica irruzione-distruzione improvvisa di Lei in Lui! E qui il climax sale vertiginosamente anzi esplode nella sanzione innaturale di questo amore vietato che ingenera una reazione fisico-dinamica, l’estremizzazione di una carnalità ostentata in toni incandescenti, trasgressivi, parossistici, autolesionistici, contro se stesso non contro gli altri perché adamantina inconcussa incrollabile è la certezza del gioco anaffettivo dell’esistenza che assurdamente e cretinamente ci arrovelliamo a tentar di esplorare penetrare non sapendola ghermita da un turbine che la stravolge nell’anomia più imperscrutabile: “che fatica mi costa volerti bene/ come ti voglio bene!”/In cambio puoi darmi/ il tenero amplesso del tuo corpo/anche se quello che cerco/ancora cerco sempre cercherò/ è l’amplesso rovente della tua anima!!!”.
Se ce ne fosse bisogno qui la cifra distintiva del nostro emerge con l’irruenta ascesa luminosa d’un razzo pirotecnico ma a testata super-atomica : l’anelito di consustanzializzazione con l’anima di Lei per la suprema reductio ad unum e farne un unicum inscindibile psico-fisico…; siccome il destino avverso si oppone a questa osmosi dello spirito, allora il poeta per reazione giustamente perversa beffarda ripiega sulla surrogazione materialistica di quell’amore osteggiato e scompensato.
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LA POESIA
Lettera d’amore
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Mio dolce Veleno
questi versi sono per te.
Ti dirò le parole che mi sfuggono via
dalle labbra
mentre mi permeo di sudore…
“La favola della mia poesia sei tu!”
Me ne stavo bello triste
per i fatti miei
quando furtivamente sei entrata
nella mia virginea solitudine
che scopro ogni giorno di più…
Un baratro spaventoso
nel mio cuore…
non può reggere alla piena
delle tue implacabili sensazioni!
“Sei entrata nella mia vita
come in Inferno un angelo!”
Sei la fresca limpida polla
nel mio immenso desolato deserto…
Nelle tue mantidi mani
non sono che un peluche…
di sangue!
Si rinnovano i giochi
dell’antica mitica infanzia!
Basta che ti slacci
un dannato bottone della camicetta
e mi piomba addosso una cascata d’affanno!
I tuoi capelli si scompigliano
come quelli di una bimba che piange!
Nelle tue mani fiorisce
il mio amore dormiente
tu hai la potenza
di sollevare il mondo!
Fra le tue labbra schizza
di sprilli amorosi
il mio caldo gelato al bacio
ho la sensazione
della fine del mondo!
“Che fatica mi costa volerti bene
come ti voglio bene!”
In cambio puoi darmi
il tenero abbraccio del tuo corpo
anche se quello che cerco
ancora cerco sempre cercherò
è l’amplesso rovente della tua anima!
Pasquale Sturchio