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Il miglio verde della ferrovia che può vivere

di Aldo BalestraIl Mattino, 02.12.2010

Il 13 dicembre verrà chiusa la tratta Avellino-Rocchetta S.Antonio

Non dobbiamo, né vogliamo, commuovere. Desideriamo magari far riflettere, sollecitare contributi d’idee. Idee forti di una storia gloriosa, ma attuali; progetti sostenuti dal coraggio, ma realizzabili; proposte intrise di sogni ed ottimismo, ma utili. Che servano a questa provincia, proprio oggi e qui che ci domandiamo cosa sarà di una terra in crisi d’identità, sospesa tra passato e futuro, con la consapevolezza a volte inutilmente tronfia del primo e la paura forse eccessiva del secondo. Qui parliamo di una tratta ferroviaria condannata a morte. Esecuzione fissata per il 13 dicembre 2010. E questi sono i giorni più brutti, quelli in cui già si è entrati nel miglio verde, e si sa che il destino è segnato, e che le speranze di salvezza sono legate ad un filo.

Questa è una strada ferrata in servizio dall’ottobre del 1895, che volle con determinazione un uomo chiamato Francesco De Sanctis, che di riscatto del Sud si occupava, e per il quale lottava con intelligenza. Una ferrovia lenta, ma tosta. Suggestiva, ma non solo. Ardita, e mica poco. Rumorosa, ma di un bel rumore. Da Avellino a Rocchetta Sant’Antonio, piccolo comune della Puglia, sono 119 chilometri, quanti i paesi irpini. Trentuno stazioni di cui solo 13 oggi in uso; 30 ponti metallici, quello di Lapio fu progettato da un francese ed è ancora oggi oggetto di studio degli architetti; 19 gallerie, di cui una lunga quasi tre chilometri. E un dislivello di 455 metri, dai 217 di Rocchetta ai 672 di Nusco.

La gelosia dei campanili, già negli anni della realizzazione, portò all’indolenza di sindaci che manco le strade dai propri paesi agli scali ferroviari costruirono. Eppure questa ferrovia teneva unito il cuore della provincia, partendo da Avellino verso l’Irpinia d’Oriente e oltre, sconfinando in Lucania per fermarsi in quel minuscolo paese che sarebbe poi diventato foggiano, Rocchetta. Fu una conquista, all’epoca, questo treno prima a vapore e più tardi a gasolio, che viaggiava nel verde, sopra e sotto paesi, ma che nel suo suggestivo percorso già teneva conto dei traffici e delle esigenze dell’epoca: i paesi dell’olio e del vino, il commercio di legnami e le castagne, e mica si poteva immaginare che – nel 1996 – uno studio avrebbe dimostrato come oltre cento tra piccole e medie imprese potrebbero ancora giovarsi di un efficace funzionamento di questa ferrovia. Il viaggio dura due ore e mezza, un tempo improponibile, è vero, oggi che ci sono la Freccia rossa e il Pendolino, persino il wi fi ti mettono sul treno, e l’aria condizionata è cosa normale. Sull’Avellino-Rocchetta, invece, è solo il vento che ti rinfresca d’estate. E l’ombra t’arriva solo dagli alberi, che letteralmente sfiori.

Il declino cominciò dopo il sisma del 1980, che provocò danni anche alla ferrovia nel tratto di Conza, vicino all’invaso, e quando le strade cominciarono ad abbreviare i tempi di percorrenza in auto fu l’inizio della fine. La mazzata fu l’Ofantina bis. Lavori, esperimenti, disagi, ritardi e tentativi per quei binari sono stati fatti. Epperò si percepiva l’agonia incombente, forse perchè non si credeva davvero al rilancio. Il treno ora funziona solo per pochi studenti d’inverno (una sessantina, fra dieci giorni resteranno a piedi), non d’estate e nemmeno la domenica. Negli anni del centenario, e più intensamente dopo, la littorina biancoverde è però diventata anche quella del ricordo e della nostalgia, e pian piano anche della crescente consapevolezza che potesse ancora servire, non come treno superveloce e confortevole, ma in altra, utile e pur moderna veste. I «treni della domenica», e più recentemente quelli promossi dall’associazione «In loco-motivi», di innamorati delle rotaie e della terra nostra, della lentezza e del buon vivere, del turismo possibile e della riscoperta dei borghi e delle tradizioni, dei paesaggi. Del diversamente «altro». In un anno tremila persone, che tra loro hanno comunicato solo via internet, sono salite su questo treno, contente, per un turismo alternativo in grado di risvegliare paesi e tradizioni, trattorie e trasporti locali, stazioni turistiche e oasi del Wwf. Si può fare economia diffusa, e indurre a pernottamenti, ciò che serve e che cresce solo se si scommette e s’investe, piuttosto che immaginare ed attendere che qualcuno metta due macchinari in un capannone d’Irpinia.

Eppure questi tentativi di riutilizzo stanno per finire, schiacciati dalla logica dell’economicità immediata e del mercato, e i tagli dei rami secchi delle ferrovie soffocano pure i vagiti dell’idea possibile. Non si tratta, allora, di stimolare una battaglia della nostalgia, nè tanto meno di retroguardia. Se nel futuro dell’Irpinia c’è anche, e davvero, la valorizzazione del turismo, dell’enogastronomia, della storia e dell’ambiente, con la pianificazione di una strategia di sviluppo che parta dalle istanze del territorio, allora bisogna davvero lottare per evitare che questa tratta ferroviaria, fra qualche giorno, chiuda e finisca in un baleno nel dimenticatoio generale, dopo 115 anni. Mobilitazione (la Cgil è fucina d’idee, in queste ore) e progetti vadano di pari passo: chi amministra, e può, raccolga i segnali che si levano dalla nostra terra. Non si abbia timore, non si temporeggi.

D’Azeglio mica esagerava quando diceva che la più irresistibile delle forze è quella che procura la fiducia che si sa ispirare.

                                                                                                       

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