Antropologia del terremoto
06.12.2015, Articolo di Aniello Russo
Dicevano gli antichi che l’anno bisestile (annu bisèstu) è funestato da disgrazie e disastri; e nel 1980 il mese di febbraio contava 29 giorni. E secondo l’immaginario popolare irpino, questo è un giorno vuoto e sinistro che estende il maleficio a tutto l’anno. Inoltre, chi nasce in quel giorno è una persona sfortunata e ha il triste privilegio di vedere le anime dannate e Capocifero con i suoi compari. E ancora più sinistro il 1980, in quanto il 29 febbraio cadde di venerdì.
Il 23 novembre 1980, al ritorno dalla partita Avellino-Ascoli (4-2 a favore della squadra irpina), dai boschi tra Volturara e Montella si levavano nuvole di fumo che si perdevano nell’oro del tramonto. Mio figlio Maurizio che era in auto con me, mi chiese sbigottito: “Perché quel fumo sulle coste?” Scrutò tra gli alberi e non scorgendo anima viva, riprese: “Oggi è domenica, non c’è nessuno nei castagneti – e scorgendo delle fiamme, aggiunse – Quei fuochi vengono da sottoterra.”
Mio figlio aveva undici anni e un’immaginazione fervida. Io sorrisi e lo lasciai fantasticare. Di lì a un quarto d’ora giungemmo a Bagnoli. Alle 19:15, io e mia moglie eravamo davanti alla televisione; i figli sparsi nelle altre stanze. Con noi Americo ed Emma. Il primo canale trasmetteva un tempo di una partita di calcio. Più che guardare la tv, si discuteva del più e del meno.
Da poco la torre dell’orologio ha battuto le ore 7:30, quando di colpo va via la luce. Un attimo di intervallo e poi un boato sordo che proviene da sottoterra. Ecco che il pavimento ha come un lungo sussulto: pare che qualcuno o qualcosa prema sotto i nostri piedi nello sforzo di liberarsi. Nel buio sento cadere sul pavimento una bottiglia di liquore.
– Il terremoto – grido. Di botto mi levo da sedere e corro ad aprire la porta per consentire la fuga: i primi a imboccare l’uscita Americo e Emma, che si trascina pure mia figlia Grazia di otto anni.
Intanto chiamo gli altri tre figli. Maurizio corre nella cameretta e libera la piccola Diana (sei anni) che non riusciva a aprire la porta, portandola all’esterno. Michele (12 anni) è in cucina al riparo sotto il tavolo. Lo prendo per mano e con mia moglie ci precipitiamo fuori. Sulla via De Rogatis ci raccogliamo guardandoci l’un l’altro inebetiti, incoscienti del pericolo che corriamo sostando sotto le nostre abitazioni. Si versano nella via tutti gli abitanti del posto. A un tratto una voce grida: “A lu Scazzamarieddu!”
Prima mi arrischio a salire in casa a prendere il pane, un po’ di companatico e alcune patate. Caccio dal garage la mia Opel, imbarco moglie e figli, e via pure noi in periferia. Il lato destro della strada, che dall’incrocio con via G. Dorso porta su al campo sportivo, è già tutta occupato dalla gente fino a sotto il serbatoio dell’acquedotto. E’ notte da circa tre ore e cala il freddo. Si accendono i fuochi, alcuni dispiegano una tenda, uno apre una sedia a sdraio e vi si distende per la notte… tutto in un frastuono di voci e di grida. Una madre chiama il figlio con voce agitata: “Lurènzu, addu è Lurènzu?” E si allontana chiedendo a questo e a quello: “Sì’ bbistu a Lurenzu, figliumu?”
Ci accampiamo sul rettilineo della variante, nei pressi dell’incrocio con la Salice; accendo un fuoco pure io. Accanto a noi si sistema Carmine Maiorano, la moglie Rina e la cognata Ida. Metto alcune patate nella brace per improvvisare una cena frugale. Mentre sto seduto su un sasso vicino al fuoco, ecco un’altra scossa: la strada ondeggia sotto i piedi, balzo in pedi: l’istinto è fuggire. Ma dove?
In auto teniamo tutti la radio accesa. Ma il radiogiornale parla solo dei danni subiti dalla città di Napoli, o trasmette i servizi di giornalisti che per errore battono le strade della provincia di Salerno e raccontano di gente terrorizzata in strada; ma nessun danno né alle persone né agli edifici.
Prima di mezzanotte torna un gruppo di bagnolesi che si sono avventurati sulla via Appia; giunti a Lioni hanno trovato la strada bloccata dalle macerie e il paese raso al suolo. I superstiti scavano freneticamente con le mani in cerca dei propri cari sepolti. Scavano e piangono, piangono e scavano con le mani insanguinate… Attorno ai fuochi ascoltiamo increduli e commossi il racconto dei nostri paesani.
– Quannu frevàru ne tène vintinovu, o carestia o tarramotu – commenta un vecchio che è stato ad
ascoltare in piedi alle mie spalle. E terremoto fu!