Martone, l’invenzione dell’Italia
27.11.2010, IL FILM
di ANTONIO SCURATI (La Stampa)
Chi siamo? Cosa ha fatto e cosa fa dell’Italia l’Italia? «Noi credevamo» non è solo un film sul Risorgimento è un film del risorgimento. Il film di Martone proclama che – se pure fummo mai un popolo di poeti, navigatori e santi – gli italiani di ieri e di oggi sono stati e sono un popolo di scenografi, costumisti e truccatori.
E bisognerebbe aggiungere: di registi inventivi, bravissimi attori, talentuosi coreografi, fotografi, parrucchieri, macchinisti e illuminotecnici. Rimettendo in scena i decenni del processo di unificazione, il film rivendica e riscatta il patrimonio storico della Nazione e lo fa dimostrando che si tratta innanzitutto di un patrimonio artistico. Ma la cosa confortante, addirittura entusiasmante, è che dimostra che si tratta di un patrimonio vivente.
La continuità che questo film bellissimo stabilisce con l’epoca lontanissima da esso narrata è una continuità di mezzi artistici. A farlo splendere è quell’insieme di abilità, saperi e mestieri legati alle arti della scena. Le stesse che ebbero tanta parte – una parte attiva, generativa, secondo alcuni addirittura propulsiva – nel movimento risorgimentale da cui scaturì l’unità d’Italia. L’Italia di Mario Martone è ancora l’Italia di Giuseppe Verdi. O, almeno, quella che ebbe Verdi come padre della Nazione.
In questa brillante espressione dell’estro artistico italiano c’è, forse, anche una diagnosi della crisi presente e, forse, addirittura una strategia per il futuro. L’Italia, come buona parte dell’Occidente, attraversa da decenni una crisi legata alla decrescita industriale. La si può rigirare come si vuole, ma il fatto è che il nostro formidabile ciclo di espansione economica si chiude con gli Anni 70. In Italia, poi, la crisi è più grave che mai (e più grave che altrove), se è vero, come è vero, che in base a una recente indagine del Fmi sul Pil di 180 Paesi di tutto il mondo nel decennio ’00, al centottantesimo posto si trova Haiti e al centosettantanovesimo l’Italia.
Questa crisi di deindustrializzazione, ovviamente, investe anche il cinema. Da anni ci siamo rassegnati all’idea che – salvo rare eccezioni – i film italiani siano un po’ meschinelli perché privi delle risorse e dei mezzi necessari al cinema, arte industriale per antonomasia. Certo, ci siamo detti tante volte, è ovvio, per esempio, che gli attori siano meno bravi di un tempo se un tempo si producevano 150 film l’anno e oggi se ne producono a stento trenta. Poi vai a vedere «Noi credevamo» e scopri che qualcosa può sovvertire quello che si annunciava come un fatale destino di declino. Gli attori sono quasi tutti bravissimi (mi perdonino gli altri se mi limito a menzionare Francesca Inaudi, che riesce nel miracolo di rendere credibile, innanzitutto sul piano erotico, Cristina di Belgioioso, una delle figure femminili più affascinanti e complesse di ogni tempo e il formidabile Valerio Binasco, che riesce a dare un volto al demone nichilistico fin de siècle già allignante nell’idealismo primo-ottocentesco, Lo Cascio recita invecchiato per tutto il film senza che si dubiti mai del trucco, le scene sono create magistralmente, i personaggi s’impongono già al loro apparire per la suggestione dei costumi, le inquadrature sono scelte una a una per sopperire alla scarsità di mezzi e via dicendo.
Il punto è proprio questo. Noi credevamo non è un film che abbia beneficiato di una ricchezza produttiva inusitata per questi tempi. Anzi, ha dovuto faticare moltissimo per reperire i finanziamenti adeguati a una grande epopea in costume e alla fine ne ha trovati molti meno di quanti sarebbero stati necessari. Ma, come già accadde con il cinema neorealista del dopoguerra, ha fatto di quella mancanza dei mezzi industriali la necessità della propria virtù artistica. E le arti che rivivono e risplendono in questo film sono, per l’appunto, quelle della più radicata e risorgimentale tradizione italiana: le arti della scena e dello spettacolo dal vivo. Non a caso, l’impianto teatrale del film si esalta nei suoi due medaglioni centrali, quando la storia si rinchiude negli interni claustrofobici di una prigione borbonica o negli interni non meno asfittici della paranoia complottistica e bombarola degli attentatori alla Felice Orsini.
Insomma, tu una sera vai a vedere «Noi credevamo» e scopri, incredulo, che il Risorgimento arriva fino a te. Scopri che quelle abilità, quei mestieri quelle arti che hanno prima contribuito a fare l’Italia e poi a farla grande nel mondo (Rossini, Verdi e Puccini sono ancora oggi tre dei principali motivi del nostro residuale prestigio internazionale) sono vive e lottano insieme a noi. Non siamo soli, non tutto il passato ci ha dimenticati. E perdonatemi se parlo di «lotta» ma mi è parso pertinente visto che proprio in questi giorni i lavoratori dello spettacolo «lottano» contro i tagli e l’abrogazione delle leggi che favoriscono i finanziamenti. Un film come «Noi credevamo» indubbiamente lotta insieme a loro. Non farlo, mi pare decisamente anti-italiano.
La storiografia più recente ci ha insegnato che il Risorgimento, prima di divenire una realtà storica, fu, alla sua origine, un’invenzione artistica, una potentissima macchina mitopoietica che, infiammando l’immaginazione attraverso narrazioni creatrici, generò le condizioni psicologiche, emotive, spirituali, perché si realizzasse quella Nazione italiana che all’epoca aveva lo statuto di una chimera più che di un’utopia. Quella trascinante forza comunicativa si sprigionò principalmente da un ampio ventaglio di forme d’arte popolare – la pittura, la poesia civile, il romanzo storico, soprattutto il dramma musicale. Insomma, i garibaldini furono uomini d’azione e di pensiero, uomini d’armi e di penna, e, a unire le due cose, brandirono un’immaginazione fiammeggiante.
Qui, forse, c’è il lascito al presente. Un Paese in grave crisi economica e sociale come l’Italia, in un cronico declino da decrescita industriale e morale, dovrebbe forse risollevarsi puntando proprio sull’immaginazione creativa, la cui prima formidabile invenzione fu l’Italia stessa.