Il profumo della brughiera
03.10.2015, Il racconto (di Antonella Iuliano)
A seguire il racconto che lo scorso Maggio è valso all’autrice il 3° posto nella IV Edizione del Premio letterario De Leo – Brontë 2015, e oggi contenuto nell’antologia Brontëana vol. IV.
Selvaggia è la via, cupa e tetra,
e sono aride le brughiere tutt’intorno;
ruvido è il giaciglio che ci riposa;
pietre muschiose e terra d’erica.
(Emily Brontë)
“Devi vedere tutto per due.”
Il ricordo di queste parole si era fatto più insistente sin dalla sera prima, quando nella sua camera d’albergo era scesa la quiete che segue il crepuscolo, mentre fuori, una falce di luna argentea illuminava i tetti e le strade di Haworth.
Marta si era appena lasciata alle spalle il cartello di legno posto al bivio, ricoperto da un leggero strato di muschio dovuto all’umidità, il quale indicava ai viaggiatori il sentiero verso il cuore della brughiera. Si era immaginata infinite volte le lande dello Yorkshire attraverso le parole dei romanzi che tanto amava, ma adesso era davvero lì e quelle parole la rincorrevano.
Lei e Anna, la sua migliore amica, erano capaci di chiacchierare all’infinito dei romanzi scritti dalle sorelle Brontë e per lungo tempo avevano desiderato fare quel viaggio nei luoghi delle loro autrici preferite. Si erano conosciute in biblioteca soltanto un anno prima, ma era come se si conoscessero da sempre. Avevano trascorso interi pomeriggi insieme e dopo aver condiviso il loro comune amore per la letteratura ottocentesca, avevano iniziato a parlare di quel viaggio e di quei posti che sembravano lontanissimi, quasi irraggiungibili, per due ragazze senza troppi mezzi come loro. Adesso che lei era lì, e poteva ammirare i cespugli di erica violacea lungo il sentiero, si sentiva emozionata come mai prima di allora.
Anna era con lei in un certo qual modo e Marta sapeva che attraverso i suoi occhi stava guardando lo stesso paesaggio, avvertiva la medesima quiete così surreale di quello sconfinato spazio aperto, interrotta solamente dal sibilo del vento irrispettoso che si rincorreva lungo i pendii erbosi e che le scompigliava i capelli. Le sembrava di aver varcato un portale del tempo oltre il quale quasi non rimaneva traccia di civiltà. Le uniche presenze che scorse furono le tante pecore al pascolo.
Si accinse a prendere la videocamera dallo zaino, poi premette il tasto di accensione. Riprese le colline, tutte bassissime e ricoperte di erica selvatica e ondeggiante, folta in alcuni punti, più rada in altri. Voleva catturare i colori malinconici del marroncino terroso e del verde appassito, il tocco color malva dei ciuffetti ricurvi di erica, che ricoprivano lo scenario monotono fino alle cascate. Di queste ultime registrò il mormorio scrosciante dell’acqua che si udiva nelle pause del vento. Marta desiderava portare con sé tutto quanto aveva davanti agli occhi, per mostrarlo ad Anna. Le avrebbe portato il più possibile della brughiera, glielo aveva promesso. Non sapeva però, come portarle l’odore di quel posto, il profumo della terra bagnata, dei fiori recisi e dell’erba essiccata. Quanto poteva farle percepire quelle essenze che sembravano appartenere solo ed esclusivamente a quel luogo?
Quasi senza accorgersene, e procedendo con cautela sul terreno scosceso, Marta si era addentrata nel cuore della brughiera. Si arrestò davanti a una piccola pozzanghera, uno specchio grigio e torbido nel quale, sporgendosi lievemente, vide la propria immagine riflessa e dai contorni tremolanti. Improvvisamente la sua voce interiore, che così bene si accordava alla quiete di quella solitudine, le suggerì come far sentire ad Anna il profumo della brughiera.
Sulla riva del piccolo acquitrino si piegò verso un cespuglio di erica sporgente. Allungò la mano decisa ma cauta allo stesso tempo e ne staccò dolcemente due rametti, uno per sé e uno per Anna. Sorrise compiaciuta e si portò alle labbra il fragile reperto della natura, poi chiuse gli occhi per ispirarne l’odore selvatico e umidiccio della terra, delle radici, del principio della vita.
Si trovava lì da due giorni, aveva visitato l’accogliente e caratteristico villaggio di Haworth, la canonica – museo, dove aveva sostato davanti a ogni angolo e ninnolo appartenuto alle sorelle Brontë. Si era commossa visitando la tomba che ospitava i resti di Charlotte ed Emily Brontë nella chiesa di San Michele e deposto un fiore per entrambe. Poi aveva comprato souvenir, segnalibri, cartoline e una vecchia edizione di Jane Eyre di fine Ottocento. Quel ciuffetto d’erica però, era quanto di meglio e di più autentico poteva rappresentare l’essenza di quei luoghi e delle scrittrici che un tempo vi avevano vissuto. Erano stati giorni intensi per lei, nei quali il suo animo si era sentito sospeso e pervaso da emozioni completamente nuove. Mai si era sentita così vicina e suggestionata dalle pagine ispirate da quei posti e che lei e Anna avevano letto e riletto. Ciò che le accomunava davvero era la sensazione indefinita di provenire da un’epoca passata. Nessuna delle due si sentiva realmente se stessa e a proprio agio nella società moderna, e per questo si ritrovavano nelle pagine scritte dalle sorelle Brontë e nelle loro eroine. Entrambe ritenevano che nessun oggetto materiale potesse rappresentare un ricordo sufficientemente profondo, abbastanza grande o inestimabile come un pezzetto di brughiera da custodire.
Marta, immersa in queste riflessioni, riaprì lentamente gli occhi e come in un sogno le sembrò di scorgere le sagome di tre donne. Due di loro le parvero piuttosto minute, la terza più alta, e tutte e tre stavano sedute sul fianco di una collinetta poco distante, nelle loro ampie gonne e con i capelli raccolti sulle nuche. Fu un momento, un’apparizione fugace proiettata dalla sua mente connessa così intimamente con la natura ma sufficiente a farle credere che le tre giovani donne si fossero accorte della sua presenza, che l’avessero scorta al di là di ogni barriera temporale e osservata, incuriosite dal suo aspetto: lei, così moderna solo in apparenza, nei suoi comodi jeans, nella sua giacca sportiva e mentre reggeva in una mano, come una ladra colta sul fatto, due ciuffetti della loro brughiera per portarseli via, e nell’altra uno strano aggeggio metallico con una lucina rossa che sembrava spiarle. Scosse piano la testa. Anna era l’unica che poteva capire, che non avrebbe riso della sua immaginazione. Loro due erano un caso clinico, che scherzassero o no a tal proposito.
Nella pace interiore e nella pienezza di significato che provò in quell’istante, il ricordo della ragazza che doveva essere con lei risuonò come una nota triste.
Avvolse i due rametti in un fazzoletto e ripose attentamente l’involucro nello zaino. Un sorriso triste ma soddisfatto le incurvò le labbra. Si trovava lì per vedere per due e lo stava facendo.
Marta immaginò l’emozione del momento in cui, aprendo la scatolina che lei stessa presto avrebbe preparato, Anna, ignara, avrebbe scorto il rametto di erica e sollevato all’altezza del viso. Si figurò una luce calda e nuova attraversare le iridi scure della ragazza e una lacrima scendere sul pendio della sua guancia, dolcemente, luccicante dei suoi stessi sogni. Non sarebbe stata una lacrima di dolore, come quelle causate dall’infermità dovuta al suo grave incidente. Quel dannato incidente stradale che le aveva impedito di essere lì, con lei. Sarebbe stata una lacrima di gioia, Marta ne era certa.
Era accaduto tutto così in fretta, prima di quell’estate. Avevano risparmiato per un anno intero per volare alla volta dell’Inghilterra in settembre. Alla fine però era stato possibile solo per una delle due: un uomo, messosi al volante ubriaco in una sera di maggio, aveva investito in pieno Anna, proprio mentre stava andando via da casa sua.
Marta non avrebbe mai potuto dimenticare il forte stridio di pneumatici lungo la strada sotto la finestra della sua stanza e il rumore acuto, violento, dell’impatto. Le luci dell’ambulanza, quelle della polizia. Le grida di sua madre precipitatasi in strada per soccorrere la ragazza riversa sull’asfalto in una pozza di sangue, mentre lei dall’alto del secondo piano rimaneva impietrita, agghiacciata oltre il vetro. Poi tutto diventava confuso nei suoi ricordi: i momenti concitati, la corsa in ospedale, la famiglia di Anna. Erano seguite lunghe settimane di ricovero, in cui avevano tutti temuto il peggio, ma per fortuna in un’afosa giornata di luglio Anna si era risvegliata. Le sue gambe però erano rimaste immobili, come morte, e la disperazione era stata enorme, per tutti loro. Marta aveva provato a confortarla in ogni modo, le faceva visita tutti i giorni, talvolta restava a dormire da lei, ma non accennò mai più al viaggio che sarebbe stato prossimo.
Un mattino di settembre però, dopo che aveva dormito l’intera notte sul divano ai piedi del letto di Anna, Marta la trovò seduta presso la finestra. Qualcuno in casa doveva averla aiutata a salire sulla sedia a rotelle mentre lei era ancora addormentata.
Notò che aveva un libro appoggiato sulle gambe. Il suo libro preferito, Jane Eyre.
“Devi andare, Marta.” Le aveva sussurrato semplicemente Anna con voce calma.
Seguì una breve pausa durante la quale la ragazza si voltò verso la finestra, poi riprese:
“Fallo per me. Devi vedere tutto per due. Visita la brughiera di Charlotte, Emily e Anne anche per me. Io ti penserò e attenderò impaziente il tuo ritorno.”
Marta sapeva che protestare non sarebbe servito. Le dispiaceva partire in quella triste condizione, si sentiva avvilita al pensiero di doverla lasciare lì, ma forse Anna aveva ragione, era l’unica cosa che rimaneva da fare.
Non era sola in quel posto, non lo sarebbe mai stata: vi erano presenze percepibili nella brughiera, lei poteva sentirle. C’era Anna con lei, nel suo cuore triste e adesso così leggero, e c’erano le tre sorelle Brontë alle quali loro due si sentivano legate senza una logica spiegazione.
Guardò ancora il paesaggio intorno a lei, respirò a pieni polmoni il profumo della brughiera mentre il vento le sferzava il viso.
Il ciuffo d’erica, raccolto in uno scorcio dello Yorkshire, è ancora oggi adagiato sul fondo della stessa scatolina di cartone decorata da fiorellini rossi, che un giorno non molto lontano viaggiò fino alle mani di Anna, fu deposta sulle sue gambe immobili, fu aperta con infinita meraviglia e dopo che una lacrima di gioia fu versata, posta nell’angolo della sua scrivania, dove Anna si reca ogni giorno quando lascia il suo letto, proprio accanto alla sua macchina da scrivere.
Antonella Iuliano