Industria in Irpinia: allevamento di bestiame
08.07.2015, Articolo di Vincenzo Garofalo (da Fuori dalla Rete – Giugno 2015, Anno IX, n.4)
Oggi voglio raccontarvi un po’ di storia riguardante l’attività industriale di inizio ‘900, legata principalmente all’allevamento del bestiame. Quando nacque il sito scrissi dell’opportunità persa, in un periodo storico favorevole al settore, di impiantare zuccherifici in Irpinia (eccovi l’articolo in questione: Industria in Irpinia: lo zucchero e l’occasione mancata) e dell’importanza, a livello internazionale, delle acque minerali della nostra provincia (ecco l’articolo in questione: Acqua minerale, pregevole prodotto della “vecchia” Irpinia), così oggi torniamo a raccontare le vicende dell’economia passata.
L’Irpinia, favorita dalla localizzazione geografica (“tra gli Abruzzi e le Puglie“), ricca di pascoli montani e pianure, fu territorio particolarmente vocato alla pastorizia. Già nel 1909, però, la pastorizia (o allevamento) era in crisi.
L’allevamento era praticato, negli anni di cui raccontiamo, con poco raziocinio e con metodi piuttosto errati. Questa metodologia errata di praticare la pastorizia venne identificata dalla Camera di Commercio del tempo come uno dei motivi che avrebbe arrecato enormi danni all’economia, bisognava cambiare! Mancando conoscenze scientifiche alla base delle pratiche ad uso degli allevatori, si ritenne necessario diffondere quest’ultime e le competenze di zootecnia. L’obiettivo, da raggiungersi con la collaborazione di Governo ed Enti Locali, fu di diffondere e spiegare agli allevatori della nostra provincia come mettere in pratica le metodologie corrette, affinché “l’Irpinia possa essere annoverata uno dei principali centri di produzione di un ramo d’industria che è la vera ricchezza di un paese“.
Tipologia di bestiame un tempo largamente diffusa era il cavallo. Andando indietro nei secoli l’Irpinia, infatti, risulta il principale competitor della Puglia nella “produzione” di equini da sella e da tiro. I pascoli in cui si potevano ammirare equini d’ogni tipo erano quelli nei pressi dei comuni di Ariano [Irpino] di Puglia e di Sant’Angelo dei Lombardi. Nel 1909 però di puledri non se ne vedevano quasi più. Erano quasi del tutto sfumati i ricordi degli antichi pascoli “un tempo animati da centinaia di puledri che con i loro nitriti rendevano il brio a quelle terre oggi solcate solo dal fischio monotono della vaporiera“.
I cavalli che venivano allevati erano di razza mista: un ibrido tra “nobile destriero dell’Andalusia” e “stallone barbaresco“. Tali bestie, tra l’altro, trovavano grande apprezzamento sul mercato italiano e internazionale. Di questi cavalli, a quanto pare, ne narrava perfino la poesia classica. Di allevatori, agli inizi del 1900, se ne contavano pochissimi: i fratelli Zampaglione di Calitri e il sig. Piccolo di Rocchetta [Sant’Antonio, parte dell’Irpinia storica, oggi Puglia]. Causa della scomparsa di questa tipologia di allevamento fu individuata nel prezzo troppo basso corrisposto agli allevatori dal Governo, il principale acquirente. Il mercato si era spostato verso l’estero, costringendo, quindi, i piccoli allevatori nostrani a cambiare destinazione d’attività e, scarseggiando il prodotto sul mercato, obbligando gli eventuali acquirenti a rivolgersi anch’essi al mercato estero. “Così la nostra popolazione equina si restringe, si elimina, quasi larva notturna che viene cacciata dai fulgori del nuovo sole che sorge.”
Il problema dell’impossibilità di competere col mercato estero, avvantaggiato dagli acquisti governativi, era stato sollevato altre volte, finanche da altro provincie. Un timido cenno da parte del Governo fu l’istituzione del dazio protettore sull’importazione di equini, fino alla legge del 7 giugno 1904 presentata da S.E. Rava Ministro di Agricoltura e S.E. Luttazzi Ministro del Tesoro, accompagnati da S.E. Pedotti Ministro della Guerra, attraverso la quale venne incentivato l’allevamento e la “produzione” di cavalli nel Regno. Furono stanziate 500,000 Lire per un censimento della popolazione equina, per la carta ippica e per il “richiamo in vigore delle norme della legge 26 giugno 1887 n.4644″ [E’ rimandata agli esercizi avvenire l’iscrizione, che avrebbe dovuto farsi nello stato di previsione della spesa del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, per gli esercizi 1893.04 e 1894·95, della quota annua di lire 450,000, per acquisto di cavalli stalloni, di cui alla legge 26 giugno 1887 n.4644.
Questo decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge. Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto nella Raccolta ufficiale dello leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare]. Lo scopo di tale azione dello Stato era quello di aumentare il numero di stalloni governativi, nonché incoraggiare l’allevamento da parte di privati. Strumenti d’incentivo furono dei premi per “i migliori stalloni”, “cavalle e puledre destinate alla riproduzione”, “esposizioni ippiche in genere ed alle corse”, “sovvenzioni alle associazioni stalloniere”, “puledri scelti per l’allevamento a scopo di guerra”, “costanza nel numero di acquisti da parte del Governo”, ecc. Se questa manovra favorì in generale, su tutto il territorio italiano, l’allevamento equino, anche l’Irpinia poté beneficiarne. C’è un però di cui tener conto: la nostra provincia mancava di molti elementi necessari a competere con allevatori di altre regioni italiane. L’allevamento era, come abbiamo già detto, praticamente in crisi: le cavalle da riproduzione erano sparpagliate e accoppiate con stalloni erariali, senza poter essere effettivamente un incentivo concreto al miglioramento e alla crescita del settore, altrove largamente sviluppato. Altro problema era la disponibilità di alimenti per i cavalli: erano quasi del tutto scomparsi i pascoli, tramutati nel tempo in campi di cereali (essi, infatti, erano anche poco votati alla cerealicoltura, ma particolarmente vocati alla pastorizia). Sempre lo Stato, con le sue imposte fondiarie, non permetteva a quegli improvvisati agricoltori, un tempo allevatori, di tornare alle proprie origini: l’allevamento, con le imposte in vigore, non riusciva a generare redditi sufficienti alla sussistenza. La Camera di Commercio di Avellino provò a proporre una soluzione: abolire l’imposta fondiaria per almeno un quinquennio, o anche più, finché lo sviluppo dell’allevamento fosse maggiormente radicato.