Giulio Acciano “Goffo natural talento”
04.05.2015, Articolo di Antonio Cella (da Fuori dalla Rete – Maggio 2015, Anno IX, n.3)
Ho fatto un rapido ritorno nel buiore del XVII Secolo per rilevare e portare tra noi, come già feci col DI CAPUA, un altro illustre figlio della nostra Bagnoli: GIULIO ACCIANO (1651-1681): “Goffo natural talento”.
Non penso proprio che la ricostruzione biografica e poetica del “personaggio” possa annoiare il lettore. Certo, sarebbe stato conveniente sintetizzare il cursus vitae dello stesso, e le sillogi da lui scritte, in poche righe. Ma la figura della persona, portatrice di una rilevante proposta poetica, e la brevissima storia della sua vita spentasi quando la notorietà aveva già cintato la sua testa con l’alloro della sapienza e della gloria e irrobustita la sua esperienza nel subliminale eidetico (conoscenza, intuizione e immagine) e nelle corrosive e drammatiche profondità delle coscienze di chi cavalcava il raffinato contesto culturale napoletano, (la vera arte non conosce le asperità esteriori), non mi ha spronato a ridurre a “poca cosa” la narrazione che segue.
Lui era soprattutto un poeta satirico, burlesco. E il fatto stesso che sul letto di morte satirizzava se stesso, ne è la comprova. Finanche la morte, dunque, veniva sbeffeggiata dal poeta bagnolese: non aveva timore di essa, né tantomeno ne aveva di chi sottoponeva la libertà altrui ai propri voleri, siano essi di ordine ecclesiastico, siano essi di natura eminentemente politica: più si era importanti, altolocati, più si correva il rischio di essere presi di mira dalla sua tagliente satira.
Acciano, con forma piuttosto vivace, spigliata, diceva tutto quello che pensava e che vedeva, nel più assoluto rifiuto della retorica e della spettacolarizzazione, mordendo e scherzando, sia in chiave ironica, sia in chiave evocativa, sia in chiave sapienziale, sia in chiave erudita, senza mai scendere, però, nella violenza e nell’insulto. Era una satira benevola, la sua. E, nel lanciare le urticanti frecciate nelle varie direzioni, sorrideva e si divertiva di tutto e di tutti: una satira dai riflessi sorridenti.
La poesia di Giulio è la stessa poesia che ha visto sbocciare, nella seconda metà del secolo che gli diede i natali, una miriade di cultori. Essi, col proposito di ridere ed irridere il contegno affettato di taluni individui, e forse anche quello della stessa arte, hanno opposto, senza saperlo, un ostacolo alla corruzione universale del tempo e dato un input al cambiamento delle cose.
“Io mi son un che quando la penna va, la lascio andare”
Lui fu uno di questi. Amava ridere, e preferì morire da vivo: ridendo.
ECCOMI, SON GIULIO.
Io ho piantati in fronte,
da far scorno a due stelle,
due occhi sì lucenti,
che ovunque vò di notte
i luoghi aggiorno.
Sotto questi occhi
scendono due belle guance.
Tra queste guance, non già poste a caso,
ma per arte d’ingegno e di natura,
sta situato un bel pezzo di naso.
Anche lui, come Leonardo Di Capua, partì da Bagnoli per Napoli in un freddo mattino d’inverno dell’anno 1665. Aveva quindici anni e tanta voglia di fuggire da quel gelido paese di montagna, dove il freddo e la neve costringevano la gente alla più assoluta clausura tra le mura domestiche per più mesi all’anno:
Io mi sto in un paese, or ch’è d’estate,
che vi parrà caldo come un forno
e dimani vi cascon le gelate.”
La prospettiva della città lo allettava. Nel buttar via l’abito talare che lo vide alunno della Scuola Pia di Monsignor Resta, Vescovo di Nusco, Giulio avrebbe voluto gettare con esso anche i ricordi e tutto ciò che ancora lo teneva legato al paese. Ma, quando nell’afrore e nell’insostenibile caldo del clima napoletano rimembra il suggestivo paesaggio e il profumo della sua terra d’origine, delle sue montagne floride, ubertose, dalla penna sgorgano vivi e freschi i versi che suonano come un inno alla bellezza delle sue valli, delle sue colline, delle sue acque:
Voi troverete il monte, il piano,
la valle, il colle, e vi troverete frutti
che fan che un morto torni vivo e sano.
E la campagna gli fa da cornice anche quando si strugge nelle pene d’amore e in essa, disperatamente, cerca conforto:
Amene piagge, ove un tempo soggiorno,
siccome piacque al mio Signore, io fei
o come e quanto volentier ritorno!
Bagnoli era abitato, all’epoca, da circa tremila anime: tutto quanto restava della falcidia pestifera del 1656. Ben 1080 furono le vittime. Il paese era bello sotto ogni punto di vista: aveva edifici signorili, chiese, monumenti, opifici, tintorie (da cui Palazzotenta ha ereditato il nome), segherie, fabbriche di candele e di torrone (grazie all’allevamento in larga scala dell’apicoltura) che gli facevano assumere le caratteristiche di una vera e propria cittadina.
La casa degli Acciano era ubicata laddove oggi alloca la tipografia DEMA, di Marano Eusebio, in Piazza Leonardo di Capua. A Giulio, quindi, bastava fare qualche passo per raccogliere il suo abbraccio e per mischiarsi (mal volentieri e per non morir di solitudine) tra la gente che, come accade tuttora, nonostante il freddo perenne era sempre lì a consumar passi avvolta nelle ampie zimarre di lana grezza, anch’esse di produzione locale, grazie all’industria armentizia molto rigogliosa.
Discussioni ricorrenti tra i camminanti, al netto dei gossip di pratica odierna (patrimonio indiscusso dei nullafacenti) era la tassa sul macinato, molto elevata (42 carlini al tomolo di farina, circa due euro attuali) che rendeva dure e difficili le condizioni di vita di abbienti e meno abbienti; il brigantaggio, più temuto della stessa peste; le elezioni del governo civico, che si tenevano nell’ultima domenica del mese di agosto nella chiesa di Santa Margherita, che fungeva anche da Parlamento; le corse dei cavalli; la caccia ad alcune specie di animali senza l’ausilio di schioppi e balestre; il palio della fiera di San Lorenzo e dello sport preferito dal vulgo: la corsa delle caciotte, che consisteva nel far rotolare per le strade del paese (così come facevamo da bambini coi cerchi di ferro) forme di formaggio stagionate di 8-10 chilogrammi nell’agile accortezza di farle giungere integre al traguardo.
Il Carnevale era l’evento più atteso dell’anno. Esso rappresentava il momento d’incontro dei numerosi mercanti indigeni che, nella bella stagione, transumavano per le Puglie e la Campania per commerciare legname, lana, formaggi e cera. E, a causa delle abbondanti nevicate che d’inverno si abbattevano sul paese, spesso rimanevano bloccati per lunghi periodi. Era, per loro, l’occasione buona per darsi alla bella vita, per dedicarsi agli innamoramenti e per contrarre matrimoni.
Le donne, poi, erano in maggioranza. Cera tanta di quella “carne” in paese che sicuramente il nostro poeta Sturchio, per omaggiarle degnamente, avrebbe estratto dal suo aedo “carniere” il meglio della vena poetica erotico-sentimentale. Quasi tutte indossavano, come “divisa d’ordinanza”, gonna di panno paonazzo o violaceo che, nella parte superiore, cominciando dal busto, era cinta da una fascia di velluto dello stesso colore e, spesso, anche di colore nero brillante ricamato in oro e argento. Le maniche erano staccate dal corpetto e legate a questo con bottoni d’argento, e dagli sboffi usciva candida la camicia di soffice cotone o di seta di fattura locale. Intorno alla vita cingevano un laccio di seta e un cingolo di broccato. Al collo portavano un monile di corallo, e dai lobi delle orecchie pendevano orecchini d’oro e di argento che ancora sono presenti negli scrigni delle famiglie gentilizie del paese. Sul capo, nella buona stagione, indossavano una tovaglietta bianchissima di forma quadrata, spiovente fin sulle spalle. E d’inverno, un panno rosso acconciato nella stessa guisa. Della biancheria intima delle stesse non so che dirvi, lascio a voi la facoltà di immaginarla.
Ma, nonostante tanto ben di Dio, pare che Giulio preferisse alle donne la poesia e la città di Napoli. E, inoltre, non era molto incline a frequentare la gente del posto.
La famiglia, di origini gentilizie, voleva a tutti i costi che esercitasse la professione di avvocato, cosa che più tardi fece di malavoglia. E, per invogliarlo a tanto, ancorché privo di laurea, spesso il padre lo trascinava nei tribunali perché seguisse cause e dibattimenti.
Lui, animo nobile e sognatore, aveva immesso nella sua immagine creativa di poeta, orizzonti e praterie dove si nutriva di pensiero e irrobustiva il suo status di uomo libero, lungi da liti, soprusi, arroganza e prepotenza. E il ritratto satirico dei compaesani che segue è la comprova della sua idiosincrasia verso le bravate, anche se forse apparentemente stilistiche, di costume, di quella parte di umanità maligna che tuttora, a distanza di più secoli, ancora esiste e condiziona negativamente la vita di tutti i giorni della buona gente:
La gente, che qui meco alberga e stanzia,
è di una razza mobile e bizzarra,
che la vuol con Orlando spada e lanza.
*
Ognuno porta addosso una zimarra,
ognuno fa del bravo, e par che voglia
a mille cavalier togliere la sbarra
*
Il mirar sol la loro orrenda spoglia,
tanto son mostacciuti e zazzeruti,
tremereste, perdìo, com’una foglia.
*
Chi porta stil, chi coltel, chi scoppio
(Ma stile da ferir, non già da scrivere)
Chi semplice cannon, chi cannon doppio.
Fu a Bagnoli che Giulio si ammalò di dissenteria, ovvero di “cacaia”, come lui la chiama e, per il piacere di leggerla, la ripropongo parzialmente di seguito. Ad essa il poeta dedica le rime giocose che hanno esilarato la gente colta dell’epoca e i contemporanei più accorti. Fu Leonardo di Capua a guarirlo con una dieta astringente a base di sangue di coniglio, ossido di rame e di ferro, fiori di linnèo e sciroppo di mortella. Fantastico.
E grande fu la gioia di Giulio quando si accorse che più non usciva sangue dalle “spremute d’intestino” ma merda naturale aurea e odorosa:
Merda sì bella e pura,
che ‘in vederla mi sento ricreare;
e n’empirei il Danubio col Benaco;
né me ne posso proprio saziare.
Caco, e cacato poi di nuovo caco
Né assai stato a cacar, caco di nuovo
E poi che cacat’ho, caco e ricaco,
ch’altro diletto, che cacar, non trovo.
Tornato a Napoli tra la gente raffinata e colta da lui frequentata, Giulio visse le vicende culturali dell’epoca, che lo videro schierato a fianco dell’amico Leonardo nella disputa accademica tra Investiganti e Discordanti. Tra i sostenitori dell’accademia degli Investiganti che, com’è noto, aveva come oggetto la promozione della filosofia della natura attraverso l’applicazione del metodo sperimentale per consentire alla medicina di poter scrutare il mistero del corpo umano, ci fu anche Giambattista Vico che abbraccio con entusiasmo anche la corrente di pensiero denominata “capuismo” che si ispirava sia in prosa che nel parlare al purismo trecenteggiante e toscaneggiante di Dante e Petrarca.
Verso i trent’anni, Giulio si ammalò seriamente.
Conscio dell’imminenza della morte, volle congedarsi dagli amici con un testamento spirituale da cui scaturisce un capitolo che si muove in un contesto poetico diverso dal solito, che mette in evidenza la dimensione deformante con cui accoglie l’inevitabilità della fine e lamenta, pur nella rassegnazione, la delusione di una esperienza umana e intellettuale troncata nell’età in cui lui “ancor nero ha il pelo”.
E chiede agli amici di essere presenti nel momento del trapasso, impartendo loro precise istruzioni sui propri funerali. E, in armonia con la propria linea poetica, rifugge ogni autocommiserazione nell’immaginarsi morto, satirizzando la propria persona, ormai deformata nel fisico, con un risultato intensamente grottesco che, nella comicità della descrizione, sprigiona, tuttavia, tanto malcelato rimpianto per un’esperienza di vita interrotta proprio nel momento del suo maturarsi.
Benedetto Croce, dopo aver letto l’edizione critica di Giulio Capone e Salvatore Marano, studiosi di Montella, di cui sono possessore di una preziosa copia (edizione anno 1892, edita dalla tipografia Jovine di Salerno), così si esprime nell’Archivio Storico Napoletano: “Il migliore d’essi mi sembra quello Agli Amici, nel quale, in tono scherzoso e pur commovente, si congeda da essi, prevedendo la sua prossima morte, e manifesta i suoi ultimi desideri”.
Per meglio cogliere il contenuto artistico e i valori stilistici dell’epistola accianiana, vi riporto, di seguito, alcune frame della stessa, precisando che l’aver citato il Croce non è stata, da parte mia, ostentazione di erudizione, ma un semplice riferimento o, per meglio dire, un “soccorso strumentale” per dare maggiore spessore culturale alle rime dell’Acciano e per sottolineare il ruolo che lo stesso ha rivestito in un’epoca incerta e farraginosa del secolo XVII:
E così vò che gli occhi mi chiudate,
Ch’andar non voglio con le luci aperte,
Spaventando i fanciulli per le strade.
Chiusa la bocca sia da mani esperte,
Che muover potria nausea agli occhi vostri,
Se i mosconi vi facesser le lor berte.
Legatemi le man coi Paternistri,
Fra le dita ponetemi un candelo
Come l’usanza è già dei morti nostri.
Poi dicendo de’ morti l’Evangelo,
un miserere mei, una diesilla,
direte: va beata anima al cielo.
E poi:
Alla tomba non vo’, non vò nessuno
epitaffio, quel nil tumulum curo,
dee per la maggior pompa aver ciascuno.
Morto e sepolto, voi con amor puro
vale e vale direte; e vale e vale
risuonerà la chiesa e ‘l sacro muro.
Allor sì che alla colera bestiale
darete bando, come uscito io sia
dal più scuro, e profondo criminale
E da malanni, e da malinconia,
e da mille morir con una morte,
che mille n’ebbe, e più la vita mia.
Io giunto intanto a le tartaree porte,
se non mi fanno li peccati miei
restar ne’ ciechi regni de la morte.
E impetrerammi Apollo, e gli altri Dei
Il passaporto per gli Elisei chiostri,
fortunati giardin de’ semidei.
Vo subito trovar un che mi mostri
Il saggio e gentilissimo Buragna,
Cui sempre piangere deon carte e inchiostri.
E da la fronte sino alle calcagne
Il vò baciar, mentre il mio fido amore
d’affettuose lagrime lo bagna.
Con lui vò partir sempre i passi, e l’ore,
lui vò sempre seguir per monti e piani,
sciolto d’ogni pensier, d’ogni dolore.
Quanto mi riderò de’ desir vani!
Quanto di quanto feci, e quanto dissi!
E parrammi esser fuor di man de’ cani.
E vivrò morto ove morendo vissi!