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Salvatore Pescatori, faro della cultura irpina

26.01.2015, Il personaggio (di Carlo Barbieri, da “Il Corriere” del 28.12.2014)

Nel 1973 si spegneva Salvatore Pescatori, per oltre vent’anni alla guida della Biblioteca Provinciale di Avellino che seppe rilanciare con forza. A rendergli omaggio dopo la sua scomparsa furono alcuni dei maggiori intellettuali irpini. A partire da Giovanni Pionati che così lo ricordava “Con la scomparsa di Salvatore Pescatori l’ Irpinia e Avellino perdono una delle figure più illustri della loro cultura e della loro civiltà più recente.

Per circa un quarantennio Direttore autorevolissimo della nostra Biblioteca provinciale – che con l’ausilio del compianto Mario Barro, succedutogli nella importante e prestigiosa funzione, portò a livello della più importante biblioteca provinciale della Campania – fu guida ed esempio per varie generazioni di studiosi e di studenti, ai quali svelò i segreti della ricerca e dell’amore per lo studio condotto su basi scientifiche e sistematiche.

Conoscitore profondo della storia di Avellino e della sua provincia, scrisse pregevoli monografie e nitidi articoli sugli eventi più e meno remoti della nostra terra e della nostra gente. Animatore e collaboratore di Riviste culturali, che si imposero anche in campo nazionale, fu, sino all’ultimo, attento ai richiami della cultura e della tradizione con animo e sensibilità sempre giovanili e sempre nuovi. Sulla soglia dei novant’anni, dettò una lucida ed esemplare prefazione ad un volume del nostro EPT, che raccoglie le pagine che, nella sua lunga “carriera” di Scrittore, Giustino Fortunato aveva dedicato all’Irpinia e, in particolare, al Laceno e a Bagnoli Irpino, paese natale e del cuore dell’indimenticabile Don Salvatore.

Uomo di profondissima, umanità e di commovente gentilezza, incarnava un ‘epoca e una generazione di cui a noi sembra restare solo il ricordo e il rimpianto. Perciò, la, sua scomparsa ci lascia come un vuoto incolmabile nell’animo, anche se sappiamo che, in mo1tissimi, conserveremo il ricordo e l’esempio di Salvatore Pescatori come un monito di vita e di serietà morale ed intellettuale che la stessa gratitudine per l’Uomo ci impone di rispettare per sempre.

Ad un mese dalla scomparsa, la figura di Salvatore Pescatori ci torna in mente viva, liberata dallo stampo gelido della morte; ci torna come l’avevamo impressa dai nostri anni verdi, nella Biblioteca provinciale al primo piano nel palazzo dei Tribunali, nella sua casa al Corso dirimpetto al Teatro Giordano, sui divani rossi del caffè Roma.

Una figura minuta, schiva, aristocratica, che pareva passasse sempre in punta di piedi; un signore dotato di acuto humour, a cui piaceva ascoltare più che parlare: che spesso i suoi giudizi li lasciava indovinare da un sorriso, da un indulgente silenzio; e che pure aveva carattere generoso, intelletto aperto, disponibile all’incontro, alla discussione, pronto se ne capitava il momento felice, alla franca risata. Rifiutava senza falsa modestia ma con puntigliosa perentorietà la qualifica di maestro che gli s’attagliava di più; rifiutava le iperboli, i clamori, le esibizioni, le occasioni mondane; rifiutava la carica, il pennacchio, anche nelle sfere di sua competenza, dove preferiva fare, suggerire, stimolare, spingendo alla ribalta altri che reputava sempre più meritevoli, più adatti; rifiutava l’attività, la professione politica, nonostante fosse socialmente, culturalmente impegnato.

Tutto ve l’avrebbe portato: la famiglia in cui era nato, la tradizione, la conoscenza delle necessità della nostra gente, l’amore per il prossimo, che egli senza avernel’aria manifestava soprattutto per gli umili, i deboli, con partecipazione concreta. Suo padre, Nicola Pescatori, presidente della Provincia, era uno dei personaggi più stimati e seguiti nei decenni a cavallo del secolo e il suo palazzo di Bagnoli era inevitabile punto di riferimento per i padri coscritti di quei tempi. Ma forse proprio la conoscenza diretta di ciò che in certi momenti può diventare la politica – fatiche disumane, lotte senza esclusioni di colpi, disinganni, patimenti, il pericolo di poter mancare alla parola, di tradire, di venire a patti con gente spregevole – lo vaccinò per sempre da una passione che del resto non l’attraeva neanche per le avare gioie che promette, dato che non gli dava gusto né di comandare né di obbedire (…)

In realtà i veri amori di Salvatore Pescatori erano il libro, la natura, gli affetti domestici non meno intimi di certe ben limitate amicizie, che valgono quanto una fraternità. Il suo sodalizio con Gaetano Perugini, per esempio, al punto che i primi due suoi figli, Nicola e Mario, sposarono le prime due Perugini, Ninuccia e Amelia: due famiglie fuse. E la sua casa di Bagnoli – la biblioteca  paterna, il Laceno a portata di mano –  gli offrirono ampio pascolo alle sue prime affezioni. Ancora studente universitario, vinse il concorso per direttore degli Archivi di Stato e insieme con Felice Beandone – l’autore , dei tre densi volumi della storia successiva: da quella iniziale di 30 mila volumi di Scipione Capone, alle altre fino a 100 mila volumi di quando ne lasciò la direzione. Così per il Museo Irpino. Non deve stupire se tali donazioni erano sostanzialmente un omaggio a lui, al suo nome, come attestano tante lettere, dai Capone, appunto, a Giustino Fortunato, ai molti altri.

Ma quell’occasione, quel concorso non fu una caduta d’ala, l’arresto in un’ascesa a mete più alte, a una cattedra universitaria,, alla produzione di una letteratura che il suo vigoroso talento gli avrebbe consentito?

A tali quesiti egli rispondeva con risate, con battute canzonatorie, a volte non soltanto per sé. La sua conquista, i suoi tesori, erano la moglie – una dedizione esemplare – e i figli. E il suo magistero lo esercitava in quel primo piano di palazzo Caracciolo guidando tanti di noi, studenti e studiosi di molte generazioni, nella ricerca, nella penetrazione di un testo, del pensiero d’un autore; lo esercitava attraverso gli scritti su giornali e riviste, con libri e monografie, ai quali si accingeva solo quando li giudicava utili, mai per personale vanità; lo esercitava nella vita civile. Detto senza amor di enfasi, nel nostro opaco panorama culturale, Salvatore Pescatori era una luce

E la Cassazione? Ne fu l’ultimo superstite. La Cassazione era la prima delle tre categorie con cui si definiva scherzosamente la clientela dell’antico caffè Roma, l’Aragno avellinese, una specie di club. Le altre due erano i pittori – che non pagavano subito ma facevano segnare – e i Pompieri, che ordinavano più bicchieri d’acqua che caffè o gelati. Supremo gerarca dei pompieri era il povero e saggio papà mio, otto figli, la partitina della sera unico svago.

Cassazione perché emetteva i giudizi su cose e uomini della città presenti e passati, Cassazione per la qualità intellettuale e sociale dei componenti: i dottori Aufiero e Perugini, i due Sarro – l’avv. Enrico e il dott. Michele, segretario generale della Provincia – il prof. Ferrante, l’avv. Trevisani, l’avv. Tarantino, il dotto Mazza, il notaio Titomanlio, l’on. Rubilli quando capitava. I due più giovani, Guido Dorso e il dotto Valente, erano gli uditori. Il tono e la trama delle conversazioni rassomigliavano a quelli di Addison per lo Spectator e l’immaginario club londinese: commenti ai fatti del giorno conditi con sale filosofico, divagazioni storiche più o meno umoristiche, satire sui protagonisti della politica, del foro, dei salotti, talvolta in pepati versetti del Perugini.

Si disse la Cassazione fosse antifascista. Era vero? A parte il membro più illustre, Dorso, e gli altri che non avevano neanche la tessera per dir così burocratica, sarebbe stato difficile affermare che l’areopago fosse in odore di conformismo fascista. Ma a sottolineare certi connotati della società del Sud e della politica meridionale in particolare e di quella italiana in generale – un discorso lungo, che porterebbe lontano, rispetto alle versioni storiche di comodo, a taluni giudizi sommari che sorvolano tante stranezze vissute – vale un episodio comico: dalla Cassazione fu estratto un federale Giovanni Trevisani.

Capitò in Avellino un prefetto che aveva idee sue. Nell’irrequietissimo bailamme locale, tra i tanti rissosi aspiranti al sognatissimo posto di segretario federale e i forestieri che vi venivano paracadutati dall’alto, egli pensò di collocarvi un professionista avellinese stimato, un galantuomo superiore alla mischia, disinteressato e di specchiata moralità. Conosceva Trevisani da tempo, lo propose, tenne duro e la spuntò. Il designato, che non era né squadrista né ante marcia, che era il tipo umano opposto a quello retorico, fiero dinamico e intransigente, dopo dinieghi e resistenze, alla fine si piegò anche per la garanzia di un vice molto intelligente, efficiente e aggiornato …. Si vide così il caro don Giovannino in stivali, procedere con passo marziale, recitare con visibile sforzo la parte che gli era stata assegnata. Tutto, più o meno, andava secondo i piani. Una sera Guglielmo Rizzo, capo d’un sindacato, aveva bisogno di un placet del federale per una certa urgente deliberazione. Nulla da fare: il federale era occupatissimo, non lo si poteva assolutamente distogliere, ordini precisi, inutile insistere. Così affermava l’energico vice. Guglielmo approfittò che questi si era allontanato, bussò alla porta del gerarca, v’entrò e trovò don Giovannino occupatissimo: a cercar pace, rannicchiato solo soletto innanzi al braciere, impugnano la paletta per ravvivare il fuoco. Soffriva il freddo e la nostalgia della Cassazione, della perduta tranquillità.

Così il mondo di ieri, la vita di Avellino, di cui Salvatore Pescatori fu protagonista silenzioso, allergico alle pompe, agli onori e alle ammuine. Per l’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca provinciale e del Museo Irpino, venne il ministro della Pubblica Istruzione. Come fu e come non fu, don Salvatore non partecipò alla cerimonia, era indisposto, la medaglia d’oro che il ministro era venuto a consegnargli personalmente, fu ritirata dal figlio. Un’esagerazione, un colmo? Noi che lo conoscevamo, che eravamo suoi scolari, sapevamo che era fatto così. Gli volevamo profondamente bene, abbiamo perduto qualcosa di noi, della nostra vita.

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La sua “opera” alla Biblioteca Provinciale

di Annamaria Vetrano (da “Il Corriere” del 28.12.2014)

Il 7 /1/1910 la signora Adele Solimene, vedova Capone, così scriveva a Nicola Pescatori, padre dell’illustre scomparso: “Il giorno 4 è stato stipulato l’istrumento per la donazione della Biblioteca Capone. La cosa si avvia verso la soluzione e tutto questo è dovuto all’opera continua e costante spesa da Voi ed io vi ringrazio sentitamente per i consigli che mi avete dato e grati dovrebbero essere tutti gli irpini”. Con la donazione Capone ricca di circa 30.000 volumi, fra i quali moltissimi di notevole pregio bibliografico, nasceva la biblioteca provinciale aperta al pubblico, successivamente nel 1913 diretta da Salvatore Pescatori in qualità di bibliotecario.

Negli anni successivi, sempre sotto la sua direzione, la biblioteca si arricchì di altre notevoli donazioni fra cui quelle di Enrico Tozzoli, Carlo Del Balzo, Carmine Modestino, Enrico Cocchia e di tante altre qualitativamente pregevoli anche se meno consistenti per unità bibliografiche. All’opera accurata ed diligente del Pescatori ed alla stima ed alla considerazione che lo stesso riscuoteva presso i vari donatori è da attribuire la continua crescita della nostra biblioteca, in quanto costoro furono indotti a cedere i propri libri perché ebbero fiducia in lui e nell’istituzione che in lui si impersonava.

La ricca e voluminosa corrispondenza che è tuttora conservata in biblioteca attesta la veridicità di questa nostra ammissione e testimonia la sua laboriosa ricerca, la sua fervida operosità per procurare all’ente quelle opere che più schiettamente aderivano alla tradizione culturale irpina. E ci riferiamo in particolar modo ai manoscritti del De Sanctis ottenuti tramite i buoni rapporti che intercorrevano con Benedetto Croce ed i familiari dello stesso che costituiscono una fra le tante rarità bibliografiche del nostro istituto come alla ricerca fatta presso la Biblioteca dell’ Archiginnasio di Bologna per aver copia delle lettere del De Sanctis al Carducci e, che dopo aver ottenuto i relativi permessi dal Comune di Bologna e dagli eredi Carducci pubblica per i tipi Pergola nel 1932.

Ricercatore continuo ed assiduo delle opere dei nostri illustri irpini, viene unanimemente lodato dal pubblico e dagli stessi amministratori; molti sono i consiglieri provinciali che lo additano all’ammirazione dell’intero Consiglio. Il Consigliere provinciale cav. Trevisani, in una relazione al Consiglio avente per oggetto le spese generali per la biblioteca così si esprimeva nella seduta del 13.8.1917  ”il merito del perfetto ed ammirevole funzionamento della biblioteca è dovuto alla completa abnegazione del bibliotecario Salvatore Pescatori che ha dedicato a questo nuovo istituto da lui impiantato tutta la sua passione e tutta la sua attività, con sacrificio della sua salute, poiché dalla mattina alla sera si vede questo giovane modesto lavoratore inclinato al suo posto, non mosso da ragioni di interesse ma unicamente da amore al suo ufficio che va oltre il dovere. Illustre personalità della cultura, della critica letteraria e della politica come Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Amedeo Maiuri, Gino Chierici, Enrico Cecchia … intessono con lui rapporti e corrispondenze che ancora si conservano e varrebbe la pena pubblicare. Con questi interlocutori il Pescatori tratta e discute vari problemi culturali di interesse storico e letterario portando in queste discussioni quel tratto di serietà ed impegno che furono caratteristiche peculiari della sua attività.

Egli fu autore di apprezzati studi letterari e storici concernenti l’Irpinia e fra questi ci piace ricordare l’indice dei manoscritti Tafuri della Biblioteca provinciale, curati dal Gabrielli, accademico dei Lincei e pubblicati in Japigia nel 1930 e lo studio sui terremoti in Irpinia ricordato dal ministro e da questi citato nel settembre 1962 nel corso della discussione alla Camera dei Deputati per l’approvazione della legge recante provvedimenti per la ricostruzione e la rinascita delle zone terremotate dell’Irpinia e del Sannio.

Ma la maggior parte delle sue energie il Pescatori dedicò come guida e maestro dei giovani storici e letterati nella ricerca dei documenti da egli stesso faticosamente raccolti e sistemati e nell’arricchire con altre nuove opere il patrimonio bibliografico al fine di mantenere aggiornata la biblioteca con la continua ed incessante produzione letteraria e scientifica. Nel 1923 lancia un appello dalle colonne del Corriere dell’Irpinia per la costituzione di una rendita annua che, unita alla dotazione della Provincia, potesse consentire l’ulteriore sviluppo della Biblioteca provinciale. L’appello è lanciato a tutti gli irpini, agli irpini lontani ed a tutti quelli che amano la loro provincia, ai pubblici enti a cui spetta promuovere e tutelare gli interessi della nostra provincia. Apre la sottoscrizione con un’offerta di mille lire da parte del dott. Gaetano Perugini per l’acquisto di libri e continua scrivendo: “Penso che questa debba essere la prima pietra dell’edificio al quale sono ben lieto di aggiungere una parte del modesto assegno che mi si corrisponde per il servizio della biblioteca” e concorreva con il suo modesto sudato denaro, non pago di dedicare all’istituto che aveva creato tutte le sue forze e le sue energie.

La vita culturale dell’Irpinia lo vide sempre promotore e protagonista ad un tempo di ogni iniziativa: nel 1917 organizzò le manifestazioni celebrative del centenario della nascita del De Sanctis ed è di quel periodo la fitta ed intrecciata corrispondenza con Benedetto Croce per la preparazione del saggio bibliografico su gli scritti del De Sanctis da parte del filosofo napoletano. Nel 1933 in occasione del cinquantenario della morte del grande critico, promosse una manifestazione di altissimo livello con la partecipazione di illustre personalità nel campo della critica letteraria e delle letteratura ed il tutto raccolse nel prezioso volume “Studi e ricordi desanctisiani”, recando un suo apprezzatissimo contributo con uno studio su Filippo Capone e Francesco De Sanctis. Nel 1920, insieme al professore Cannaviello, fu promotore delle manifestazioni per il centenario dei Moti Carbonari di Avellino ed anche in questa occasione, oltre a raccogliere studi e interessanti saggi, intervenne con efficacia di documentazione nella polemica che da tempo si trascinava riguardante la paternità dei proclami lanciati negli avvenimenti del 2-6 luglio 1820 da Lorenzo De Concilij. Nel suo intervento ”Per la verità storica” attribuisce sulla base di documenti la paternità di quei proclami allo storiografa Serafino Pionati, segretario perpetuo della Real Società Economica di Principato Ultra, amico intimo e sagace confidente del De Concilij.

Da 25 anni aveva lasciato la direzione della Biblioteca, ma a questa sua creazione rimase sempre intimamente legato, seguendone lo sviluppo ed il suo continuo affermarsi come principale istituzione culturale dell’Irpinia. Fu sempre prodigo di suggerimenti e consigli. Quante volte ci siamo recati da lui per attingere alla sua saggia esperienza e sempre lo trovammo cordiale e affettuoso, intimamente soddisfatto di poter ancora una volta prodigarsi per gli altri. E noi sempre ammirati per la lucidità del suo pensiero, abbiamo dato continuità al nostro lavoro, ispirandoci alla fonte del suo Sapere che sovente si esprimeva in lunghissime lettere inviateci, con premurosa cura, per chiarirci con maggiore incisività ed efficacia i suoi suggerimenti ai nostri quesiti e alle nostre iniziative.

L’esempio luminoso della sua attività costituirà perenne guida al nostro lavoro ed a Lui sarà dedicato il primo fascicolo di un catalogo scientifico dei manoscritti posseduti dalla Biblioteca Provinciale.

                                                                                                       

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