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“PalazzoTenta39”: ieri, oggi, domani

04.12.2014, La riflessione (di Antonio Cella)

Nel lontano 2007, uno degli associati che veleggiava nei mari dell’onnipotenza politica, avanzò la proposta di aprire nei programmi di Palazzotenta, oltre alla cultura, anche uno spazio da dedicare alla politica. C’ero anch’io tra i tanti che dissero NO all’accettazione della richiesta. Un NO deciso che guardava lontano, che puntellava i disegni e i programmi che avrebbero trasportato nel tempo la neonata Associazione.

L’associato, di cui non ricordo il nome, in risposta ad un quesito posto dalla Presidenza pro tempore agli iscritti, titolato “To be or not to be”, si era espresso con un altro quesito: “SE LA CULTURA NON HA RICADUTE NEL SOCIALE, CHE CULTURA E’?”

Su questo non ci sono dubbi. La politica è cultura: ma non era l’obiettivo che ci eravamo prefissato nel momento in cui decidemmo di tenerci fuori dalle beghe dei partiti e dalla partecipazione attiva degli associati nelle campagne elettorali. Sapevamo bene che lo stare lontani dalla politica partecipativa, avrebbe apportato un sicuro giovamento al sodalizio. Infatti, nel primo anno di vita, l’adesione al progetto culturale fu altissimo. Tante furono le persone che seguirono con vivo interesse le conferenze tematiche organizzate dall’Associazione che toccarono i vari rami dello scibile umano. La comunità cittadina ha potuto vivere, così, momenti di nuove emozioni, particolari, grazie agli interventi di valenti professionisti, lasciandosi affascinare dalla verve storica, artistica, letteraria, umanistica degli stessi nonché dal più libero sviluppo del pensiero e dalla nuova consapevolezza dei mezzi dell’uomo e della sua potenza. Insomma, fu la ripetizione di un di micro Rinascimento.

In quella occasione, nel perorare la causa di tenere fuori dal sodalizio la politica attiva, precisai anche che dovesse essere essa, la Politica, a porsi al servizio della società e non la società a mettersi al servizio di abili politicanti, come quasi sempre avviene nel nostro paese. Presupposto essenziale, propedeutico, direi, al sano avvio di una attività culturale plurima da protrarsi nel tempo e radicarsi in un territorio difficile, intriso profondamente del carattere localistico e del pensiero atavico del notabilato padronale.

L’Ente dovette necessariamente prendere quella decisione e indossare le vesti protettive del mecenate per raccogliere intorno a sé il fior fiore della intellettualità cittadina, onde evitare che il demone dell’ideologia, vivo più che mai in ognuno di noi, spuntasse in modo inappropriato, inatteso, inaccettato.

Se da una parte fu facile trovare concordanza attorno a disegni importanti, necessari, dall’altra parte fu un tantino difficile rallentare il germogliare dei fiori del male, anche se di natura diversa. Il tutto, però, rientrava nella norma: l’Associazione navigava in acque chete.

Il tramonto delle ideologie, com’è stato spesso detto, dovrebbe rendere ogni progetto umano, sociale e politico più libero, problematico e sperimentale. Dovrebbe essere più aperto e disponibile al dialogo: dovrebbe darci meno sicurezza delle ragioni di parte e maggiore consapevolezza che il contributo di tutti e di ciascuno, al di là della politica attiva, è richiesto dalla complessa realtà in cui Bagnoli affoga. Non possiamo ignorare i piccoli problemi, le cosiddette problematiche, da affidare a poche menti illuminate: essi rappresentano la scaturigine dei problemacci, quelli che vanno affrontati e risolti dalla maggioranza degli uomini in una dimensione di solidarietà, che richiede una grande attrezzatura di conoscenze e una profonda dimensione etica.

Nel primo decennio del secolo in corso, la società bagnolese era catalogata come fenomeno dipendente da un’epoca di transizione, di passaggio, che contrapponeva un periodo di certezze a un futuro da individuare. Si era trovata, come oggi, in un momento, un lunghissimo momento di provvisorietà, in cui niente era definitivo e niente era certo. Erano venuti meno, in parole povere, i punti di riferimento sicuri, certi, i modelli orientativi naturali e non imposti; si sottolineava la crisi della cultura, (quella su cui avevamo fatto affidamento) di quella cultura che, per vari motivi, non può più esercitare, ora, alcuna funzione di magistero illuminante.

A distanza di più di un lustro, le cose non sono cambiate. Anzi, credo proprio che si siano aggravate, soprattutto dal punto di vista sociale.

Ritornando alla nascita di Palazzotenta, l’accordo sulla neutralizzazione delle ideologie (forse è meglio dire letargia con risveglio a comando), nei nostri disegni associativi apparve giustificata dalla quasi totalità dell’assemblea dei soci. Ma poi, si sa, alla luce di quanto si proietta sullo schermo degli avvenimenti paesani, le esemplarità e il binomio cultura-tessuto sociale si riproposero in tutta la loro essenza, dando la possibilità alla insaziabile voracità del demone dell’ideologia di veicolare le sue incertezze, i suoi messaggi imperativi nella società, già di per sé confusa tra le grandi problematiche di pensiero e di valori e la quotidianità delle stesse. Non fu facile, comunque, rammendare qualche smagliatura.

A questo punto mi pongo una domanda: qual è, allo stato, il significato della vita di Palazzotenta? Riuscirà, il sodalizio, a superare le divergenze interne e continuare la sua provvida attività nell’immediato futuro?

Credo proprio di sì! Le divergenze, se sono come quelle della minoranza renziana, una volta riveduti i posizionamenti interni, rientreranno. Per quanto attiene alla continuità, se si tiene conto che soprattutto nel passato l’Associazione ha fatto cose egregie, non dovrebbero esserci remore a bissare le stesse anche in modo migliore, sempreché: livori, dissapori, saghe familiari e dissonanze restino fuori il portone d’ingresso dell’Associazione. Per quanto mi riguarda, sarei anche disposto ad accettare (per amor di cultura, e per vincere l’angustia che mi reprime la serenità: sono pur sempre un Presidente emerito!), l’imprending di un qualsiasi ipotetico  detrattore dell’Associazione, uno di quelli che odiano non solo la plasticità del Circolo, ma soprattutto l’idea della sua aulica esistenza. Si deve sempre tener presente, alla luce dei lumi, che nella coincidenza delle finalità, attraverso un processo d’integrazione sociale di reciproca complementarietà e di reciproco servizio, nascono assonanze ideali e operative che conducono alla maturazione di utili esperienze. Il rapporto dialogico (è bene ricordarlo) non nasce se c’è intenzione di costringere l’altro alla propria dimensione, o se si dà spazio alla tentazione egemonica che è dentro ciascuno di noi come superbia della ragione, come incontrollata passione per le cose, come pretesa di un dovuto in nome di un qualsiasi presunto primato. E se divergenza affiora, sarà la forza del dialogo a livellarla.

Non credo, comunque, ci sia “maitre à penser” che possa intimare l’alt al libero arbitrio.

Di qui, la necessità dell’allora chiamata in causa, di partecipazione alla fede culturale di laureati e laureandi, di professionisti e di lavoratori acculturati, ossia l’appello (tuttora vigente) ai detentori della cultura bagnolese, provocatorio e stimolante che dir si voglia, per spronare la ricerca e l’approfondimento. Fu un appello, ribadisco, e non una forzatura intellettuale, non un risentimento o una forma di opposizione ad un classe politica inconcludente, ma un contraltare referente e collaborativo, anche se critico e lungi dal rappresentare i modi di essere e di pensare nelle diverse pieghe della società (con dignità culturale e non, dunque, come fenomeno di potere d’elite) all’Esecutivo comunale, i cui vuoti di programma e l’assenza di una partecipazione della comunità alla formulazione di un progetto ne hanno determinato l’identità e, ahimè!, la continuità.

Di qui, la genesi di un’Associazione culturale che estende le sue propagazioni (non solo di natura culturale) in più parti d’Europa, ma anche nella terra di Rhot, di De Lillo, e nell’Incanto di Thomas Pynchon.

Lo spirito d’amore e di conversazione dei grandi valori della tradizione, non solo anima e informa culture, che spesso vengono fraintese come opposizione al progresso o come risentimento di classe elitaria, ma fa anche leva sulla consapevolezza che la crisi che ci attanaglia da più lustri possa essere affrontata con l’uso della intelligenza dei nostri giovani, attraverso politiche che rifondino il senso della convivenza, dell’aggregazione, sia in associazioni culturali, sia nei partiti politici, sia sugli scranni dei Comuni, in una dimensione democratica, popolare.

E, per finire, credo che nel gioco delle parti che compongono la nostra ineffabile avventura umana, e nel complesso mondo di relazioni sempre nuove, è ecumenico che ci sia un incremento non tanto di genericità umana, quanto piuttosto di identità personale che, a seconda della caratura, va supportata o, in quanto sorda alla resipiscenza e al ravvedimento, venga aiutata nel traghettamento verso altri lidi: la cultura ha le porte scorrevoli e l’Universo Mondo è grande e infinito.

                                                                                                       

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