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Volti del tempo che fu (II) – Gli alienati

11.10.2013, La rubrica di Aniello Russo

Un antico detto asserisce che ogni famiglia ha un componente squilibrato, e che ogni paese conta almeno un balordo nel suo seno: Nu’ pacciu p’ casa e nu fessa p’ paesu! Veramente nelle comunità di una volta i disabili e i minorati erano innumerevoli.

Tuttavia devo correggere un pregiudizio. Se è vero che questi alienati erano oggetto di burle soprattutto in Piazza, è pure vero che essi restavano contrariati se nessuno li punzecchiava quando apparivano sott’a re llecìne, quasi a calcare la scena per la recita giornaliera.

La mente della gente, però, non era sempre volta allo scherno, né a mostrare insensibilità nei loro riguardi. I deboli trovavano accoglienza e conforto nella nostra comunità: venivano coinvolti nei lavori per dare un senso alla loro vita; pure nelle fiabe si esaltavano le loro doti, lasciando che a vincere la gara delle vita fosse sempre un minorato; anche se solo nella dimensione magica. Ho scelto alcuni di questi poveri cristi i quali, se è vero quanto promesso, nell’aldilà hanno trovato il premio del riscatto.

1. Vituccio

Aveva lavorato come garzone di pecore, senza possederne una. Uno dei tanti alienati che non ha conosciuto la vita. Pochi oggi lo ricorderanno quando si aggirava per la Piazza, il bastone stretto sotto un’ascella. I ragazzi gli correvano dietro canzonandolo:

Vitucciu, oi Vitucciu,
mitti la capu ncul’a lu ciucciu:
lu ciucciu spiritéa
e Vitucciu s’addecréa!

Basso, tarchiato, nei giorni precedenti la festa dell’Immacolata fermava chiunque con la domanda rituale: “Quanta mùseche vienne a la Maronna?” e gli si illuminavano gli occhi alla risposta del solito burlone: “Ne verranno cinque!”

Se qualcuno, infastidito, gli rispondeva: “nessuna” egli ripeteva la domanda al primo che incrociava. Ma c’era chi lo anticipava: “Vitù, quanta mùseche vienn’a la Maronna?” Lui si fermava a contare sulle dita con voce chioccia: “Una, due, tre, quattro, cinque” mostrando la mano aperta.

Una brutta sera fu vittima di uno scherzo insensato. Non si è mai saputo se fu uno sconsiderato o uno senza cuore che gli offrì da bere dell’acido muriatico in una bottiglia di birra.

E di colpo fosti proiettato in un altro mondo, là dove ogni giorno è la festa della Madonna. Ora non ti bastano le dita di tutt’e due le mani per contare le tante bande musicali che eseguono per te, solo per te, le eterne sinfonie celestiali.

2. Stelluccia

Con il suo atteggiamento di femmina apparentemente sfacciata si guadagnò il soprannome attinto allo splendore di una stella. Abitava in una stanzetta fredda poco discosta dalla Serra; si diceva che dormisse seduta, il capo poggiato a una parete, finché un’anima buona non le procurò una rete e un saccone. Chi la ricorda dice che quando camminava ancheggiava vistosamente, facendo ondeggiare la veste corta. Lanciò la moda della minigonna già negli anni ‘50, commenta un buontempone. Camminava e parlava da sola agitando nervosamente le braccia; forse esprimeva così una reazione tardiva a soprusi subiti o un risentimento sordo contro la natura matrigna. Non mancò chi approfittò della poveretta, se ella ebbe un figlio illegittimo. Uno sfortunato che l’ufficiale dell’anagrafe, compiendo la prima beffa, registrò con il nome del sovrano allora regnante: Vittorio.

3. Vittorio

Il mio primo ricordo del figlio di Stelluccia risale al tempo della fanciullezza. Vittorio prese con me la prima comunione: ricordo la resistenza ostinata che oppose in sacrestia a una donna di chiesa che faticò tanto per fargli indossare il pantaloncino blu e la camicia bianca, la divisa dei comunicandi.

Non chiedeva mai nulla a nessuno. Pure quando negli ultimi anni della sua non lunga vita, fu assunto come spazzino del Comune, non mostrò particolare entusiasmo. Tuttavia compiva il suo lavoro trascinando pazientemente una carriola e una scopa. Non riusciva a sostenere neppure un breve dialogo, allora parlava da solo. Mentre lavorava o passava in strada, scuoteva il capo e borbottava (rusucàva), come se non fosse capace di pensare dentro di sé. Se ne andò una notte così, senza lasciare né un rimpianto né un rancore, e neppure un segno della sua presenza su questa terra. Come la vita, così pure la morte era una faccenda che non lo riguardava.

4. Giuvà-Giuvà:

Giovanni era un sottufficiale dell’aereonautica, destituito perché coinvolto nel rapimento di una ragazza. Il rapimento purtroppo finì con l’uccisione dell’innamorato. Scontò vari anni di carcere, uscendone debilitato nel corpo e nell’animo. Visse gli ultimi anni quasi ormai fuori di senno. Viveva coperto sempre dagli stessi panni, ridotti in stracci, il viso nascosto dalla barba lunga; molestato dai pidocchi, come un mendicante. Andava in cerca di cicche più che di pane; le raccoglieva per farne una sigaretta, involgendo il tabacco nella carta di giornale; la accendeva e la consumava fino a bruciarsi le labbra.

In cambio di una mela o di due noci, ci mostrava di saper leggere (erano tempi in cui dominava l’analfabetismo). Li uagliunàstri in branchi lo deridevano, dopo avergli tirato un lembo della camicia sbrindellata, cantandogli dietro “Giovanni caca bandi”:

Giuvannu cacabànne
piglia la tromba e bbai sunànne;
vai sunànne p’ gghintu Vagnùlu,
Giuvà-Giuvà pettelancùlu!

Ma lui, paziente, tirava avanti senza scomporsi. Le canzonature erano bazzecole a fronte delle sevizie subite in carcere. Dice che la sua cella era un metro per un metro, sicché non poteva né stare dritto in piedi né stendersi per coricarsi.

                                                                                                       

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