Riti e credenze di Maggio
08.05.2013, Articolo di Aniello Russo (da Il Corriere del 5 maggio 2013)
Nel mese di maggio da ogni angolo della campagna si levavano i canti delle contadine, e assordavano i ragli degli asini in amore: Ra ogni terra arrìvene suon’e ccanti // pure li ciucci pe’ l’allegrezza arràgline, diceva un canto popolare. Le ore di luce si sono allungate, sicché il giorno adesso si prolunga fin oltre le ore venti. E’ aumentata pure la temperatura, ma si badi a non spegnere il fuoco nel camino, perché la mattina e la sera il freddo punge ancora: Lèvene nzin’a mmaggiu, raccomanda un nostro proverbio. Insomma, la stagione calda avanza, anche se occorre essere ancora prudenti nel vestire leggero. Bisogna aspettare il giorno quindici, festa di San Torquato, per considerare definitivamente alle spalle la stagione invernale: Tannu può rici funùta la vernàta //, quannu è venùtu Santu Turquatu.
Maggio una volta era detto Majoluongo, cioè un mese dalle giornate lunghe; e questo perché di raccolta ancora non se ne parla: ‘O zappatore a maggiu: fatica, riuno e muortu ’e fama! Il contadino in questo mese pativa di più la fame, a causa delle scorte che andavano esaurendosi. All’intensificarsi dei lavori nei campi si aggiungeva purtroppo la scarsa disponibilità di cibo. Il mese di maggio, infatti, porta solo gemme e fiori, per cui il contadino crepa dalla rabbia: Maggiu //, lu mese r’ l’arraggiu (Bagnoli). La campagna, però, comincia a offrire i primi frutti: A maggiu re ceràse s’assàggine (A maggio, ciliege almeno per un assaggio).
Proverbi meteorologici
L’agricoltore si augura che in questo mese si verifichino poche precipitazioni, condizione necessaria per avere un buon raccolto. Dice maggio: Si me portu assùttu //, ng’è granu p’ tutti; // si chiuvànu //, assai paglia e picca granu (se il mese è asciutto, c’è grano per tutti; se piovoso, paglia assai e grano poco!). Però, secondo un altro adagio, il mese non deve essere del tutto privo di piogge: Maggiu assuttu, ma nun tuttu. Infatti, una pioggia nella giornata del 26 era considerata propiziatoria; e il ventisei ricorre la festività di San Filippo: Si chiove a San Filippu //, lu pò- vuru nunn’havu besuognu r’ lu riccu. A fronte di questa giornata di pioggia propizia, si levano ben tre terribili giornate di pioggia nefasta: il 10, il 12 e il 26 maggio. Il giorno della festa di Sant’Antonino, che si celebra il dieci, era atteso con particolare ansia dal contadino, perché se nella giornata cadeva la pioggia era un brutto segno per la raccolta delle ulive e per la vendemmia: Si chiove a Sant’Antuninu, nun se faci ni uogliu ni vinu. La pioggia nella giornata dell’Ascensione, che quest’anno ricorre il dodici, danneggia la raccolta del grano: Si chiov’a l’Ascenzione, picca panu int’a lu cascione. La terza giornata è la festa di S. Bernardino, in cui la pioggia è ancora più perniciosa, in quanto rovinosa non solo per le messi, ma pure per le ulive e per la vendemmia: Si chiov’a San Bernardinu //, ammànghene pane, uogliu e vvinu.
Festività di maggio
Maggio è il mese della Madonna. E un tempo era largamente praticata la recita del rosario da parte delle vicine che si raccoglievano accanto a un piccolo altare improvvisato e adorno di rose. Maggio è pure il mese dell’amore, e quindi si festeggiano i Santi che sono deputati alla protezione degli innamorati. Dopo la Vergine Maria, l’Arcangelo S. Michele, la cui festa cade il giorno sette, è il più venerato dalle comunità irpine (Rotondi, Tufo, Senerchia, Solofra, Taurano, tanto per citare alcuni paesi che lo hanno eletto a patrono). Dalla ragazza innamorata il Santo veniva invocato come punitore del fidanzato infedele. Questa la terribile formula di preghiera, con cui invocava la morte per il traditore: Si tu me trarìsci, santu Michele // t’a dda mette miezz’a quattu cannéle! (Se tu mi inganni, S. Michele possa stenderti sul letto di morte). Il diciassette, invece, cade la festa di San Pasquale, particolarmente amato dalle fanciulle nubili, che gli rivolgevano questa preghiera:
Mànname nu marìtu
bellu, forte e ssapurìtu
cumm’a tte, tal’e quale,
o santissimu Pasquale.
Mese favorevole agli auspici
La persona curiosa di sapere quanti anni gli restavano da vivere, ricorreva a un rituale che comprendeva una formula magica simile a quella usata dalle fanciulle per sapere l’anno del loro matrimonio. Il giorno propizio era il primo maggio; allora cercava nei boschi un cuculo, ritenuto in possesso di poteri divinatori, e gli chiedeva: Cuculo ca sempe canti, // quant’anni ancora campo? Coi suoi versi il cuculo gli rivelava il numero degli anni che gli restavano da vivere. Siccome il volatile è generoso nello sgranare i suoi cucù, molti se ne tornavano convinti di vivere gli anni di Matusalemme. La strofa di Bisaccia contiene un altro verso: “tu ca staie tra lu cielo e la terra”, che attribuisce al cuculo il dono della profezia perché, sospeso su un albero, è intermediario tra questo mondo e l’altro. A maggio, il contadino traeva gli auspici del raccolto dalla consistenza: delle messi: se le spighe erano folte, il raccolto sarebbe stato scarso (Robba strenta è carestia); se, invece, le spighe piegavano il capo per il peso dei chicchi, era segno che il raccolto sarebbe stato abbondante (Sementa nterra e spranze ncielu, cioè se le spighe calano il capo a terra, vola in alto la speranza di un buon raccolto). Al contrario, il mese di maggio era considerato per nulla propizio alle nozze. Generalmente i genitori previdenti escludevano i giorni di questo mese (come pure escludevano novembre, perché tempo dei morti; e tutta la quaresima, perché tempo di astinenza) come data della contrazione del matrimonio di un loro figlio. Da evitare il mese di maggio, anche perché, come riferiscono le fonti, allora prendevano marito soltanto le ragazze poco serie. La credenza è antica e ce lo attesta Ovidio (Fasti, libro V, vv. 489-490): Si te proverbia tangunt, mense malas Maio nubere volgus ait (Se presti fede ai proverbi, la gente dice che nel mese di maggio sposano le male femmine). E inoltre, in questo mese si accoppiano solo le bestie, e gli asini tra i primi; perciò a maggio ragliano di continuo!
La notte dell’Ascensione
Carica di misteri e di presagi era ritenuta pure la notte che precede la festività dell’Ascensione. C’era la credenza che, nell’attimo di lasciare la terra, Cristo benedicesse la rugiada che acquistava così poteri miracolosi. A Nusco, le fanciulle si recavano nei campi in cerca di cardi selvatici; raccoglievano le gocce di rugiada posate sulle sue foglie e si lavavano il capo, nella convinzione che i capelli sarebbero cresciuti lunghi. E intanto dicevano così: Qua me r’assogliu, qua me ru pèttunu: li capìddi luonghi quant’a na pertica.
Presso le nostre comunità c’era l’usanza di procurarsi il latte di pecora o di mucca, la sera della vigilia. Gruppi di ragazzi salivano in montagna recando un recipiente: giunti a uno stazzo, chiedevano un poco di latte. E gli allevatori non lo negavano a nessuno. Il giorno dopo, il latte veniva cotto con i maccheroni (Bagnoli, Senerchia). Invece, le uova deposte nella notte dell’Ascensione da una gallina nera si ritenevano dotate di virtù terapeutiche, per cui si davano da bere a chi era stato colpito da una qualunque forma di malattia. La ricorrenza è uno dei giorni più misteriosi e magici dell’anno intero. La vigilia si apprestavano riti divinatori. Grazie a Cristo che, salendo in paradiso, manteneva in contatto la terra e il cielo, il momento era propizio a pronosticare il futuro. A Guardia le ragazze in età da marito praticavano un rito divinatorio per trarre indicazioni sul loro matrimonio: gettavano alle spalle manciate di cenere, che poi coprivano con un panno. Al mattino si levavano di buon’ora e andavano a scoprire lo straccio per leggervi la loro ventura nelle figure lasciate nella cenere.