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Gennaio, mese prodigo di doni

22.01.2013, Articolo di Aniello Russo (tratto da “Il Corriere”)

Attraversando la porta (ianua, in latino) di gennaio (Ianuarius) si penetra nel labirinto dell’anno nuovo; e ricomincia il rosario dei mesi. Il passaggio temporale è obbligato, non c’è possibilità di tornare indietro: l’uomo è come trascinato in avanti, allettato dal tempo, che gli prospetta nell’immediato e nei mesi che verranno miraggi di benessere e sogni di rinnovate speranze.

Anche nella tradizione popolare questo mese si mostra con la seduzione di una infinità di doni, da Capodanno, giorno di strenna per i piccoli, all’Epifania, giorno di regali per i grandi, a S. Antonio Abate, che rubò il fuoco all’inferno e ne fece dono all’umanità perché con esso sconfigge il freddo; e promette nuove elargizioni, come la fertilità dei campi, grazie al fuoco acceso nella sua notte (tra il 16 e il 17 di gennaio) nelle piazze e nelle strade, sulle aie e nei casolari di campagna.

MESE GENEROSO

Ogni passaggio da un tempo all’altro, come da una condizione all’altra o da un luogo all’altro, segnava nell’immaginario collettivo un momento fortemente propizio, che accendeva aspettative di salute e di prosperità. Nel Capodanno, che apre il rosario dei giorni del nuovo anno, i ragazzi vedevano il momento più opportuno per avvicinare parenti, compari e amici di famiglia; e per chiedere la strenna canticchiavano la formula rituale:

Capurannu e capu r’ mesu, ramme la strega ca m’è pruméssu!

La filastrocca pone l’accento su una promessa data: la strenna che tu mi hai promesso! Gli anziani per un anno intero avevano rinviato a Capodanno (Ngi verìmu a Capurànnu!) l’elargizione di un soldo; e il momento di saldare il conto era arrivato. E quale occasione migliore per mantenere la promessa se non il primo giorno del mese, che è anche il primo giorno dell’anno? C’è, però, nella richiesta una segreta speranza, che si configura come un tranello teso, e cioè che il regalo di Capodanno possa ripetersi per tutto l’anno. E sì, giornata assai propizia quella del primo dell’anno: ciò che si fa in quel giorno magicamente si ripete per tutti i santi giorni che Dio manda sulla terra!

Capodanno era ritenuto fin da tempi remoti un giorno fausto. Era comune credenza dei Romani antichi che qualunque cosa si faccia in questa giornata, si ripeterebbe in tutti i giorni restanti dell’anno (Ovidio, Fasti, 167-168: “Ho dedicato al lavoro l’anno che appena comincia, perché non si auspicasse l’intero anno ozioso”). Sulla stessa sintonia, un detto irpino che ammonisce:

A Capurànnu viri c’a ra fa, si n’annata bbona vuo’ passà! (A Capodanno datti da fare, se un anno prospero vuoi che tu passi).

A parte il proposito realistico, il benessere si può ottenere pure magicamente:

Chi mangia l’uva a capurànnu conta sordi p’ tuttu l’annu. I chicchi richiamano l’immagine di soldi a grappoli! Non trascorreva neppure una settimana ed ecco che con l’Epifania si riaccendeva la speranza di ottenere ancora dei doni. A Morra c’è ancora memoria (fonte, G. Di Pietro) del tempo in cui si celebrava il rito della nfèrta (offerta). A mezzogiorno in punto, al primo tocco della campana della torre, chi si vedeva rivolgere la parola rituale: nferta! era tenuto a offrire qualcosa, anche se di poco conto: un caffè, un dolce, una pasta.

Questa volta a beneficiarne non erano soltanto i ragazzi, ma soprattutto donne adulte e uomini maturi. Il gesto rituale dell’offerta richiama chiaramente la generosità della moderna befana, una figura fantastica che nella nostra tradizione non esisteva. Pure la befana, immagine della natura, che ogni anno invecchia e muore, per tornare a rinascere e a rinnovarsi con la primavera, nella nostra cultura è da identificarsi piuttosto con la Pupa quaresimale e con Segalavecchia, i cui riti coincidevano appunto con l’inizio della primavera.

Ma vi sono altre testimonianze in Irpinia che rendono magica la giornata dell’Epifania, a partire dal tramonto della vigilia. Soprattutto le ore notturne sono momenti carichi di grandi poteri magici. I sordomuti, come pure gli animali da stalla e da cortile, acquistano il dono della lingua, sicché possono parlare tra loro. Chiunque abbia l’animo innocente di un bambino può così apprendere notizie riguardanti la nascita o la morte di un parente, che si verificherebbe nell’anno, la consistenza del raccolto nei campi, e ancora se nell’anno si sarebbe sposato… C’è stata tanta povera gente che dalla mattina alla sera si è arricchita, in quanto ha casualmente udito l’indicazione del luogo in cui era sepolto un ricco tesoro. Però, chi ha la ventura di sentir parlare o due sordomuti o due animali, si guardi dal rivelare i segreti che essi si sono scambiati: pena la morte istantanea!

Altro indizio del potere benefico del giorno dell’Epifania, questa volta a vantaggio della salute del corpo, ci viene dal rito del ceppo acceso a Natale. Nella mattinata del dodicesimo giorno dopo Natale si raccoglievano la brace, la cenere e i tizzoni rimasti, perché si riteneva avessero potere propiziatorio e apotropaico; perciò la cenere si spargeva sul tetto di casa per tener lontano i fulmini; i tizzoni se li portavano a casa i poveri per alimentare il fuoco nel camino; la brace era distribuita tra quanti avevano un familiare ammalato. Un rito simile veniva compiuto il giorno festivo di S. Antonio abate (17 gennaio), dopo la notte trascorsa accanto al fuoco all’aperto. All’alba, quando il fuoco del falò andava spegnendosi, i ragazzi recavano un tizzone acceso in ogni casa, e tutti lo accettavano come fuoco benedetto dal Santo, perché propiziava la fertilità dei campi.

Il Santo inoltre garantiva una lunga e sana vecchiaia; bastava consumare nella giornata una manciata di castagne lesse per tener lontano i moscerini che abitualmente aggrediscono come un animale così una persona prossima a morire. Sempre S. Antonio offre il dono di settimane di allegria, dando inizio al periodo spensierato del carnevale:

A Sand’Anduonu, maschere e ssuoni.

L’unico giorno del mese carico di virtù negative è quello di S. Sebastiano (si festeggia il 20). Nelle campagne di Nusco è ancora diffusa un’antica credenza, secondo la quale la giornata è segnata da sette brevi momenti maledetti, durante i quali ogni cosa riesce male. Meglio, quindi, evitare oggi di iniziare qualsiasi lavoro; in particolare, non è opportuno ammazzare il maiale, né insaccare i salami, né imbottigliare il vino: tutto andrebbe inevitabilmente a male; né tanto meno spaccare la legna, che da verde diventerebbe tarlata al punto da non essere più buona da ardere.

MESE FEDELE

Nella filastrocca dei mesi, prodotto della creatività popolare, riguardo al clima gennaio è un mese caratterizzato da un freddo così rigido da raggelare le mani di chiunque osa soltanto nominarlo:

E’ venutu innàru,
mannaggi’a chi l’è chiamatu:
cèca l’uocchi a tutti li putatùri,
jèla re mmanu a chi fatìa foru
e a chi se sonna r’ lu numinà.

(E’ venuto gennaio, mannaggia chi lo ha chiamato! A tutti i potatori acceca gli occhi, gela le mani a chi fatica fuori e a chi s’azzarda solo a nominarlo).

Nel suo rigore, però, gennaio è fedele, non è capriccioso come il mese di marzo. E la sua fedeltà si manifesta già dal primo giorno del mese: Solu a Capurànnu, solu p’ trentunu jurnàte. E per di più mantiene lo stesso tempo dalla mattina alla sera: Innàru ferélu: cumm’è a la matina accussì è a la sera. Se hai da intraprendere un viaggio o iniziare un lavoro all’esterno, vai tranquillo e non temere che il tempo cambi. Limitatamente alle temperature, erano diffuse molte conoscenze, e quasi sempre veritiere: il gelo del mese di gennaio anticipa o un temporale o una fitta nevicata:

Roppu tre gghiuorni r’ ilàma, o chiove o faci na juccàta.

Secondo un altro detto, il nodo invernale si scioglie nei quattro giorni che vanno dal diciassette al venti gennaio:

Ra lu Barbatu a lu Saittàtu, viern’è già passatu.

Il Barbuto è Sant’Antonio Abate (17 gennaio), dotato di una folta barba. Il giorno della festività del Santo è caratterizzato dal maltempo. Non c’è scampo: o temporale o nevicata; e la caduta della neve è propiziata pure dalla sua barba bianca del Santo:

Sand’Andoniu cu la varva janca, si nun chiovu, la nevu nu’ mmanca.

Invece il Saettàtu è San Sebastiano (20 gennaio), un martire morto trafitto dalle frecce. Infine, nel penultimo giorno di gennaio, San Feliciano, i contadini sin dall’alba scrutavano il cielo con trepidazione, perché una giornata serena non era propizia al raccolto del grano:

Cu lu solu a San Felicianu, lu saccu vale cchiù dd’ r’ granu;

cioè, se oggi ci sarà il sole per tutta la giornata, a luglio si raccoglierà tanto poco grano che il sacco che lo contiene varrà di più.

                                                                                                       

1 Commento »

  • alberto mario d alessandro scrive:

    Come sempre puntuale il Prof.Aniello Russo ci ricorda usi costumi e tradizioni che sarebbe bene non perdere e soprattutto non disperdere.
    Quest’articolo, oltre che darci ancora una volta l’idea di quanto la nostra cultura DEBBA contare , serve anche a rinverdire e a tenere viva l’importanza del dialetto come lingua.

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