Rituali da ultimo giorno dell’anno
02.01.2013, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 31.12.2012)
A seguire l’avvicendarsi dei mesi, delle settimane e dei giorni noi moderni ci avvaliamo dei calendari cartacei appesi alle pareti di casa o dell’ufficio, delle agende tascabili, dei minuscoli foglietti plastificati, che conserviamo nel portafogli. Magari nutrendo così l’illusione di aver addomesticato il tempo e di averne esorcizzato le numerose contrarietà e gli ostacoli che immancabilmente esso ci propina. Non così una volta, cioè al tempo della nostra civiltà rurale e pastorale.
La zucca calendariale
Alcuni anziani irpini serbano ancora memoria di un calendario rustico, la zucca calendariale. In una zucca svuotata il contadino poneva all’inizio dell’anno 365 ceci (o fagioli; o fave, li vùnguli): ogni giorno ne toglieva uno fino a che, svuotatasi del tutto, la zucca avvertiva che l’anno era finito (L’ùrdumu juornu r’ dicembre atterra l’annu: l’ultimo giorno seppellisce l’anno) e ne cominciava uno nuovo che esigeva una nuova zucca ripiena di ceci secchi. E beato chi ne riempiva di più nell’arco della sua esistenza! L’ultimo giorno dell’anno era detto: lu juornu cavallàru, il giorno che segna il confine, che sta a cavallo tra l’anno che finisce e l’anno che comincia. Nella tradizione popolare però non c’era alcuna manifestazione che ne celebrasse il passaggio. Piuttosto è possibile intravedere negli arcaici riti del seppellimento di Carnevale e del rogo di Segalavecchia la celebrazione del passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo. I due rituali (il primo cadeva sulla soglia della quaresima, l’altro a metà del medesimo periodo di quaranta giorni, tra febbraio e marzo), tramutatisi in momenti ludici, rappresentano entrambi il rito del sotterramento dell’anno vecchio che andava via assieme con l’inverno. Del resto, in quasi tutte le civiltà antiche, come pure nella Roma arcaica, l’anno nuovo prendeva inizio dalla primavera, e più precisamente dal primo giorno del mese di marzo. A quel tempo l’anno era composto di dieci mesi, sicché gli ultimi quattro (settembre, ottobre, novembre, dicembre) erano davvero rispettivamente il settimo l’ottavo il nono e il decimo mese. La leggenda attribuisce a Numa Pompilio la riforma del calendario romano, il quale avrebbe aggiunto i primi due mesi (Ianuarius, e Februarius), anticipando così l’inizio dell’anno al primo di gennaio e sposatando a marzo l’inizio della primavera, quando il sole splende nuovamente alto nel cielo e la terra si risveglia coprendosi di erbe e di fiori. Ma a Roma soltanto nel 153 prima della nascita di Cristo fu sancito l’inizio dell’anno con il primo gennaio, elevato al ruolo di capodanno, stabilendo in quella data il rinnovo delle cariche pubbliche, come l’ingresso dei nuovi consoli investiti dell’incarico per la durava di un solo anno (dal 1° gennaio al 31 dicembre). Tuttavia restavano fissate al primo di marzo le festività tradizionali, che erano celebrate in onore delle divinità preposte ai risveglio della natura. Che per i popoli antichi il 31 dicembre non segnasse un momento essenziale della vita dell’uomo, e non fosse un nodo fondamentale, lo dimostrano vari indizi, come il ceppo acceso nel solstizio invernale (25 dicembre, la festa della nascita del Sole Invitto) che doveva bruciare lentamente per dodici giorni (tanti quanti i mesi dell’anno) fino alla sera del cinque di gennaio, scavalcando quindi il fatidico passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo. Per questo motivo la Chiesa cristiana indicò il 25 dicembre come data del Natale di Cristo. Così pure indicò San Silvestro, la cui festa cade oggi, 31 dicembre, come la faccia cristiana del dio pagano Giano (Ianus), che chiude un anno e ne apre un altro (si ricordi che ianua per i latini era la porta). Il significato di morte e rigenerazione è implicito nello stesso termine di “anno” (dal latino annus), il quale ha la stessa etimologia di anello (diminutivo di anus, cerchio), che evoca il moto circolare del tempo, il ritorno delle stagioni e dei mesi; o meglio richiama il percorso circolare della terra attorno al sole, e infine il rigenerarsi della luce e l’allungarsi del giorno. San Silvestro papa, vissuto al tempo dell’imperatore Costantino, rese pubblico il culto dei fedeli, sottraendolo alle catacombe e costruendo imponenti edifici. Tra le leggende che si narravano su questo grande Pontefice, c’è quella della sconfitta di un drago mortifero che San Silvestro relegò sottoterra, inseguendolo lungo una scalinata formata da 365 gradini, che scendevano nelle viscere dell’inferno. I 365 gradini stanno a indicare che la festività di San Silvestro cade in fondo in fondo, nell’ultimo giorno dell’anno.
La magia dell’ultimo dell’anno
L’immaginario popolare, come attribuisce facoltà divinatorie a persone in punto di morte (alla fine della vita), alla stessa maniera addebita potere profetico ai momenti che segnano un passaggio temporale (la fine del giorno, la fine dell’estate, la fine dell’equinozio), come appunto alla fine dell’anno. Come nella notte magica di San Giovanni Battista (solstizio estivo) così durante la giornata dell’ultimo dell’anno (solstizio invernale) le ragazze attivavano un rito magico: ponevano in una paletta di ferro un pezzettino di piombo o di stagno, e lo lasciavano sciogliere al calore del fuoco. Una volta liquefatto il piombo era gettato in una bacinella d’acqua. Dalla forma che assumeva il piombo di nuovo indurito, le ragazze pronosticavano il mestiere del futuro marito: una zappa indicava un marito contadino; una pecora un marito pastore, una penna un impiegato ecc. In base al calcolo delle Calende il contadino, che nel suo campo aveva seminato il grano, nella giornata del 31 dicembre cercava di scoprire nel cielo se al momento della mietitura, che cadeva nella prima metà di luglio (per questo il mese era pure detto: metùgliu), avrebbe avuto buon tempo. Recitava un detto popolare: Roppu Natàlu accumménzene a tremà puru li Santi, per il grande freddo. Ma il contadino resisteva alla morsa del gelo e con il naso all’insù scrutava a lungo il vento e le stelle, per indovinare la giornata più opportuna per mietere il suo frumento nell’estate che doveva venire. La giornata di fine d’anno, soprattutto nelle ore notturne, è anche carica di virtù magiche, essendo un tempus orrendum. In punto mezzanotte, come avviene anche nella notte del due novembre, è possibile vedere le anime dei defunti in processione sul fondo di un bacile d’acqua posato sul balcone, all’aperto. Le anime dei defunti, dunque, scendono ancora una volta sulla terra e fanno visita alla casa in cui hanno trascorso la loro vicenda terrena. Per questo i parenti, prima di andare a letto, lasciano la brace sotto la cenere perché i morti possano riscaldarsi e una manciata di castagne sulla tavola perché possano rifocillarsi. E inoltre evitano di spazzare il pavimento e di gettare fuori l’immondizia, nel timore di colpire con la scopa le ombre dei loro cari che, invisibili, si aggirano per le stanze dell’antica dimora. Sono le anime purganti, cioè che alloggiano provvisoriamente in purgatorio, rappresentate nelle immagini dei santini e nell’arte figurativa completamente avvolte dalle fiamme, anime che si mostrano ai vivi, apparendo anche in sogno, sempre in folla, in processione o in gruppi. Nell’immaginario collettivo esse vengono catalogate come spiriti benigni. Sono essi che tornano periodicamente sulla terra a visitare la casa dei congiunti, portatori di pace, di benessere e di aiuti anche materiali. Una testimone di Mirabella racconta uno strana avventura capitata proprio a lei: “Proprio nel giorno di Natale, il mio compagno di una vita mi aveva lasciata. Avevo da zappare l’orto, ma con le piogge erano tornati a tormentarmi i dolori reumatici. Come fare? La notte dell’ultimo dell’anno non riuscivo a prendere sonno. Mi alzai e mi trascinai nell’orto dietro casa a fare un bisogno. Mi fermai sotto la pianta di fico e mi chinai. Nel silenzio, al buio, sentivo un rumore di zappa a pochi passi da me. Mi guardai intorno, ma non scorgevo nessuno. Caddi in preda al panico. Feci in fretta e furia le mie cose e tornai di corsa a letto. La mattina dopo era Capodanno; alle prime luci del giorno, il mio primo pensiero fu quello di andare a controllare. Scesi giù e trovai tutto l’orto dissodato e pronto per la semina: era stata l’anima benedetta di mio marito!” Tenera illusione, gratuita consolazione la quale confortava comunque chi era rimasto solo, e l’aiutava a riempire la solitudine e a vivere sopportando più serenamente privazioni e perdite. Forse più di ieri, ancora oggi pure noi sentiamo il bisogno di credere e di cullare una speranza, un sogno.
Da Irpinia magica (di prossima pubblicazione) di Aniello Russo