Il personaggio: «Capoccia» lo scultore (del coro ligneo di Bagnoli) dimenticato
17.11.2012, Il personaggio (di Giuseppe Scafuro da “Il Corriere” del 22.10.2012)
Capoccia! Chi era costui? Facile “ ruminare” davanti a un nome che, pur avendo dato lustro alla nostra terra, nessuno più menziona, fatta eccezione per gli addetti ai lavori. Se, però, si aggiunge che era il soprannome con cui veniva chiamato Giacomo Bonavita da Lauro, forse a qualcuno sembrerà bene di averlo letto o sentito, riconoscendo un cognome abbastanza diffuso nel piccolo centro irpino. Fama ben diversa è toccata ad altri conterranei, come Umberto Nobile, cui sono intitolati una piazza e il Museo di Arte Naif. Nulla, invece, che ricordi il Capoccia, né una strada a lui intitolata, né una targa commemorativa: eppure si tratta di uno scultore che ha lasciato tracce della sua arte non solo nel Vallo di Lauro (più precisamente a Quindici) , ma anche a Nola e Bagnoli Irpino. Ma andiamo per ordine.
Il vescovo di Sebaste vi è rappresentato in atto benedicente, con la mitra e il pastorale nella mano sinistra; il corpo è rivestito da un movimentato piviale legato sul petto da una fibbia; un cordoncino stringe in vita la veste su cui ricade la stola. E’ una colossale statua in legno (l’altezza sfiora i due metri) che troneggia nella quarta cappella destra della Parrocchiale di Quindici. La ieratica fissità del volto e le fitte pieghe della veste appaiono esserne le caratteristiche distintive. Dalla “Cronistoria” di Isidoro Fusco (risalente al 1673- 1680) sappiamo che essa fu realizzata da Giacomo Bonavita, scultore di Lauro, negli anni 1641-1642; il manoscritto ci ha permesso anche di conoscere l’entità del pagamento (ducati 26.4.15) e il fatto che la statua fu collocata sull’altare di San Biagio, prendendo il posto di un quadretto del medesimo santo, probabilmente andato in rovina. Sempre da Fusco veniamo a sapere che alla realizzazione dell’opera parteciparono altri due artisti: un certo maestro Andrea Palmese d’Ima, per la doratura, e un anonimo maestro napoletano, per “ la pittura e sgraffiatura”. Il Bonavita e Palmese continuarono a lavorare insieme anche qualche anno più tardi , esattamente nel 1648- 1649, alla statua di Sant’Antonio da Padova, intagliata sempre dal Capoccia e dorata dal secondo (oggi il simulacro ligneo si trova nella terza cappella desta della stessa Chiesa di Quindici).
La statua, oltre a essere di più piccole dimensioni (misura, infatti, cm 155), è certamente meno riuscita della precedente: qui l’intento devozionale prevale sulla resa plastica. Se per il San Biagio erano stati corrisposti al Bonavita 26 ducati, per quest’altra ne ricava solo 15.E’ probabile, del resto, che spetti alla mano del maestro soltanto la fattura del Gesù Bambino.
Ma l’opera certamente più nota del Capoccia è il Coro della Collegiata di Bagnoli Irpino. La sua descrizione occupa uno spazio rilevante ne “L’arte del legno in Irpinia dal XVI al XVIII secolo” (1975) di Alessandra Perriccioli, che lo considerò imprescindibile per lo studio della scultura lignea irpina del Seicento; da ricordare anche la monografia ad essa dedicato da Raffaele Mormone nel 1985. Collocato nel vano retrostante l’altare maggiore, il Coro è formato da diciannove stalli che sono separati tra di loro da braccioli con animali fantastici. Ognuno degli stalli è retto da gambe a volute e presenta, nella fascia mediana, una scena del Nuovo Testamento a bassorilievo e, nelle venti paraste che dividono gli schienali, altrettante scene dell’Antico Testamento ad altorilievo o, per meglio dire, a tutto tondo. Una scelta decorativa felice e innovativa, influenzata dallo stile barocco di uno dei più grandi artisti dell’epoca, lo scultore Cosimo Fanzago, attivo in quegli anni a Napoli.
Dell’opera, eseguita tra il 1652 e il 1656, si conosce il nome degli autori grazie al Libro dei Conti, oggi purtroppo perduto, della Chiesa dell’Assunta, noto attraverso gli stralci trascritti nel 1925 da Alfonso Sanduzzi in “ Memorie storiche di Bagnoli Irpino dall’origine fino alla metà del secolo XIX”. Qui il Bonavita è indicato come “maestro scultore” e “ uomo valentissimo nella sua professione”; vengono, poi, genericamente menzionate anche altre sue opere a “ Bagnoli, Nola, Tiano ed altri luoghi”. Apprendiamo, inoltre, dalla stessa fonte che il Bonavita trovò la morte nella terribile epidemia di pestilenza del 1656. Da un altro studioso, il De Rogatis, veniamo a conoscenza che precedentemente all’opera del Bonavita esisteva un altro coro ligneo, andato distrutto in un incendio che scoppiò nella notte del 13 febbraio 1651. Fu così che si decise di rifarlo, affidandone i lavori, in un primo momento, ad un artigiano bagnolese, un certo Scipione Infante, che , insieme a un collaboratore, il conterraneo Giovandomenico Vecchia, fu inviato in Puglia, ad Andria, per trarre ispirazione da un altro coro, oggi non più esistente, che aveva ivi realizzato. Quando i due Bagnolesi declinarono l’invito a passare alla fase esecutiva, evidentemente a causa della loro insicurezza, il Capitolo della Collegiata, su suggerimento dell’indoratore napoletano Aniello De Martino, si rivolse a Giacomo Bonavita da Lauro di Nola. Tra i committenti e l’esecutore non tutto filò liscio se è vero, come risulta dai documenti, che il Capoccia, dopo aver realizzato come campione uno stallo, che ebbe il gradimento del Capitolo, per dare una prova della sua abilità, all’improvviso, andò via da Bagnoli, forse per un mancato accordo sul compenso. Certo è che nel luglio del 1652 fu richiamato per eseguire l’opera, mentre all’Infante e al Vecchia venivano affidate solo le parti secondarie del coro (il montaggio degli stalli e le parti di collegamento). Il più consistente intervento si ebbe nel 1653-1654, quando si provvide all’impostazione generale dell’opera che non fu mai portata a termine a causa della morte sia del Bonavita ( il 27 ottobre 1656) sia dei suoi due collaboratori, a distanza di pochi giorni. Tipico dell’arte del Capoccia è la disposizione di più figure in uno spazio ristretto in cui l’attenzione non è alla resa dello spazio, ma alla caratterizzazione espressionistica dei personaggi. Ne sia un esempio il pannello raffigurante “ La resurrezione di Lazzaro”. Qui, la tomba e il coperchio sono rappresentati in modo bidimensionale, mentre di Lazzaro è messo in forte rilievo il corpo smagrito a causa della permanenza nell’avello. Sulla destra, inoltre, si nota un personaggio che porta le mani al naso per non sentire il lezzo del cadavere.
Tutto è chiaramente finalizzato a rendere quanto più credibile la scena. Il fatto che l’opera non venisse mai completata da altri dimostra non solo che non fu facile rimpiazzare i tre artisti, visto l’alto numero dei morti provocato dalla peste, ma anche che , nonostante l’incompletezza delle rifiniture, si ritenne opportuno farla rimanere così come era.
Il catalogo delle opere del maestro laurese si è recentemente arricchito grazie ad un’interessante scoperta fatta nel 2007, in occasione del restauro della statua lignea di San Felice vescovo, custodita nel Duomo di Nola. In una cavità presente sul retro della mitra del santo è stato, infatti, ritrovato un pezzo di legno recante l’iscrizione che segue: “ Nel anno di Monsignor Langellotti Io Iacovo Bonavita scoltore ho fatta questa statua di San felice di lavori l’anno del signore 1645. Ricordatevi del anima mia” (sugli altri lati del legnetto erano incisi i nomi di alcuni restauratori settecenteschi della statua).
Con il San Biagio di Quindici, il San Felice presenta molte affinità: l’impostazione frontale della figura, la fissità dello sguardo, la pieghettatura della veste e del piviale e il particolare del ciuffo di capelli che fuoriescono dalla mitra, appoggiandosi sulla fronte.
La notorietà del Bonavita doveva, perciò, essere già diffusa quando ricevette l’incarico di Bagnoli. La sua arte fu troncata dalla peste del 1656, ma continuata dai suoi discendenti, in primis il figlio Antonio, autore di un busto reliquiario di San Lauro , datato al 1677-1678, tuttora conservato nella Chiesa di Quindici, seppure privo delle quattordici statuette che lo incorniciavano, ma anche da Giovanni Bonavita, forse fratello o figlio di Antonio, autore del San Giovanni da Capestrano nella Chiesa del Convento francescano di San Giovanni del Palco a Taurano (l’opera è firmata e datata).
Un personaggio importante, dunque, il Capoccia, al quale è giusto restituire la fama che merita.