I popoli indigeni, le ultime vere guardie forestali
31.08.2012, di Stefano Rodi (Dal settimanale “SETTE” de Il Corriere della Sera)
Sono il 6% della popolazione mondiale: vivono lontano dalla civiltà, non litigano tra loro, non abbandonano la famiglia.
Il popolo meno numeroso della Terra vive in una foresta dello Stato brasiliano della Rondonia. Numero degli appartenenti: uno. Non si conosce il suo nome né che lingua parli, ma è noto come l’«Uomo della buca», a causa dei fossi che scava nel terreno sia per catturare animali sia per nascondersi. È l’ultimo sopravvissuto di una tribù massacrata, come molte altre, dai grandi allevatori di bestiame che occupano la regione di Tamaru. L’Uomo della buca vive da solo, costantemente in fuga. Non molto tempo fa alcuni sconosciuti gli hanno sparato, ma lui è riuscito a farla franca visto che, vicino al suo rifugio, sono stati trovati bossoli ma non il suo corpo né tracce di sangue.
Non ci sono stati arresti ma si ritiene che i mandanti siano proprietari terrieri che si oppongono a chi, nel governo brasiliano, si adopera per proteggere il territorio dell’Uomo della buca. «È un fatto gravissimo», ha commentato Altair Algayer, funzionario del Funai, l’ente governativo che tutela le popolazioni indigene brasiliane. «Per interessi speculativi si vuole uccidere l’ultimo indiano di una tribù scomparsa». Un popolo un po’ più numeroso di quello dell’Uomo della buca, sono gli Akuntsu. Vivono sempre in Brasile: sono rimasti in cinque. Salendo in questo censimento che parte dal basso arrivano i dieci Piripkura, poi i Kawahiva: una cinquantina. Infine gli Awà: 360 in tutto. Poi, in tutto il mondo, ci sono ancora un centinaio abbondante di tribù mai contattate che si stanno rifugiando in zone sempre più impervie pur di stare alla larga da noi: la maggior parte si trovano in Brasile e in Papua Nuova Guinea.
Uscirà in settembre da Rizzoli il libro Colori d’africa di Beckwith e Fisher, da cui è tratta la galleria fotografica che correda questo articolo Nel Novecento si è estinta in media una tribù all’anno e il nuovo millennio non si è aperto sotto migliori auspici: negli ultimi 30 anni il 90% delle foreste del Borneo, molte delle quali abitate dalla tribù dei Penan, è stato tagliato, con un tasso di distruzione doppio rispetto a quello dell’Amazzonia. Si stima che verso la metà del 1400 la popolazione complessiva delle Americhe contasse circa 60 milioni di persone. L’arrivo degli europei, tra armi e malattie, produsse uno sterminio del 90% nel Centro e Sud America e del 50% nel Nord. Norman Lewis, in uno storico articolo sul Sunday Times del 1969 intitolato Genocidio, che scosse le coscienze occidentali e fece nascere l’associazione internazionale Survival, parlò di Tropical Gomorrah: «Dove solo dieci anni fa c’erano migliaia di indios, ora ce ne sono decine». La prima metà del Novecento è stata una mattanza: in Brasile, dal 1900 al 1957, sono scomparse 87 tribù. Abbiamo fatto largo al progresso, il nostro: con agricolture e allevamenti intensivi, costruendo strade, dighe e scavando miniere. Nella sola Amazzonia brasiliana, che rappresenta il 65% del totale e occupa una superficie più grande dell’Europa, negli ultimi 25 anni è stata distrutta un’area grande due volte l’Italia.
CUSTODI DELLA NATURA – Adesso, con ritardo secolare, il nostro mondo che balla sul baratro ambientale ha capito una cosa: i popoli indigeni giocano un ruolo chiave nella salvaguardia della natura. Le loro economie di sussistenza si basano su conoscenze e valori di conservazione di enorme interesse per un mondo contemporaneo che avanza senza bussola. La nostra scienza ha studiato in modo esaustivo circa l’1% della flora mondiale e gran parte della fauna è ancora sconosciuta. Eppure, un popolo come quello degli Haunoo dell’isola di Midoro, nelle Filippine, conosce 450 specie animali e distingue oltre 1.500 tipi di piante: 400 in più di quelle censite dai botanici occidentali che lavorano nelle loro foreste. Ma non è solo un problema di conoscenza. «Ogni singolo albero della foresta a galleria sul fiume Omo, in Etiopia», spiega Marco Bassi, antropologo dell’università di Oxford, «ha un protettore tra il popolo Karo, che ha il diritto di sistemare un alveare tra i rami del “suo albero”, che nessun altro può toccare». Questo popolo che, come tutti gli altri della bassa valle dell’Omo, è in grado di sopravvivere alle carestie che mettono regolarmente in ginocchio l’intero Corno d’Africa, è però minacciato dalla costruzione della diga Gibe III. La loro agricoltura è da sempre legata al fiume e ai cicli naturali delle sue esondazioni, che saranno fermate da questa muraglia alta 240 metri, condannando all’aridità un’area nella quale vivono, da sempre, gruppi tribali per un totale di oltre 200 mila persone.
Che gli indigeni siano gli unici veri guardiani delle foreste lo ha messo nero su bianco, poco tempo fa, perfino uno studio commissionato dalla Banca mondiale, la stessa che, per decenni, ha finanziato progetti che hanno costretto migliaia di indigeni a lasciare le loro terre. La ricerca, effettuata con rilevamenti satellitari nel periodo compreso tra il 2000 e il 2008, mostra che nelle aree indigene la deforestazione è stata di almeno il 16% più bassa che altrove. La Banca mondiale ha in seguito annunciato che non concederà più prestiti alla compagnie che vogliono estendere le piantagioni di palme da olio e non sono in grado di dimostrare che i loro progetti non creano danni ambientali e sociali. «Dobbiamo combattere la criminalità organizzata della deforestazione mondiale nello stesso modo con cui combattiamo la mafia che traffica droga o il racket delle estorsioni», ha detto Jean Pesme, responsabile del team Financial Market Integrity della Banca mondiale. Ma questa predica, o meglio il pulpito da cui viene, non ha convinto tutti. «È un bene che la Banca mondiale faccia queste riflessioni, ma deve guardare anche al proprio ruolo nel finanziamento su vasta scala delle operazioni che beneficiano della deforestazione», ha commentato Lindsey Allen, del Rainforest Action Network. «Se seguiamo i flussi finanziari, scopriamo che la Banca mondiale e il Fondo monetario hanno sviluppato proprio le infrastrutture e l’espansione dei settori più distruttivi come la carta e l’olio di palma». O le miniere. Negli anni Settanta, per fare un esempio tra i tanti, la Banca mondiale ha contribuito a finanziare il Programma Gran Carajás in Brasile dopo la scoperta di un gigantesco giacimento di ferro che ha avuto conseguenze fatali sulla tribù degli Awá, citata prima nel censimento degli ultimi. E ancora, proprio in questi giorni, la Banca mondiale ha annunciato di voler finanziare la realizzazione di tutte le linee elettriche proprio della diga Gibe III. Un’ambiguità che non trova patria tra i popoli indigeni. «Noi non utilizziamo la parola ambiente», ha detto Davi Kopenawa, leader degli Yanomami in un discorso pubblico. «Noi diciamo solo di voler proteggere la foresta intera. Ambiente è una parola di altre genti, è una parola dei bianchi. Ciò che voi chiamate ambiente, è solo ciò che resta di quello che avete distrutto». Fine del discorso.
Storie, pensieri e immagini dei popoli indigeni nel libro curato da Survival, acquistabile su www.survival.it/siamotuttiuno STILI DI VITA DIVERSI – Più che con le parole, infatti, gli indigeni parlano attraverso le loro vite: «Per noi scrivere un libro è una novità», ha detto uno di loro, «le storie vivono dentro di noi. È più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa». Gli Yanomami vivono nella foresta dell’Amazzonia, divisi in comunità che arrivano a contare anche 400 individui. Abitano tutti all’interno dello Yano, una grande struttura a forma di anello, al centro del quale c’è un ampio spazio senza copertura destinato alle attività comuni: cerimonie, danze e giochi. La parte esterna della circonferenza è invece coperta ed è lì dove vengono appese le amache e dove le famiglie si riuniscono per la notte, ciascuna attorno a un proprio focolare. Ogni comunità è indipendente dalla altre, non esistono capi e le mansioni sono divise in base al sesso. Gli uomini cacciano selvaggina come pecari, tapiri e scimmie, che rappresenta però solo circa il 10% della dieta. Le donne si occupano invece degli orti, dove coltivano stabilmente 60 differenti tipi di piante, che forniscono il 70% del cibo. Insieme, anche con i bambini, si dedicano invece alle battute di pesca nelle quali viene utilizzato il timbò, una vite tropicale che viene battuta nel fiume e che rilascia una sostanza anestetica che stordisce i pesci e li fa salire in superficie, permettendo agli indios di raccoglierli nelle ceste. Il timbò ha un effetto temporaneo e i pesci che non vengono catturati, dopo qualche minuto, tornano a immergersi. Gli Yanomami utilizzano in totale 500 tipi diversi di piante per nutrirsi, curarsi, costruire utensili e abitazioni e, visto che il suolo amazzonico non è molto fertile, ogni due o tre anni abbandonano il loro villaggio per aprirne uno nuovo in una zona vergine. Sempre nell’Amazzonia brasiliana si trovano anche gli Enawe Nawe, popolo che si distingue da tutti gli altri perché non mangia carne rossa.
Le foreste del Brasile occidentale offrono loro tutto il necessario: granturco e manioca, miele e soprattutto una grande abbondanza di pesce. Fino ad ora, perlomeno, visto che il governo del Mato Grosso ha annunciato di recente la costruzione di un complesso di dighe a monte del territorio degli Enawe che altereranno l’ecosistema. Gli Enawe Nawe oltre a preservare l’equilibrio con la natura sono molto attenti a mantenere anche quello con il loro mondo degli spiriti, come del resto la maggior parte delle popolazioni indigene. Il loro Universo, spiegato a un gruppo di antropologi da Kawari, un anziano della tribù, è diviso su due livelli. In quello superiore abitano gli Enore, spiriti celesti proprietari del miele e degli insetti, che se sono stati rispettati come si conviene accompagnano i membri della tribù durante le battute di pesca e le raccolte dei prodotti della foresta. Il livello sotterraneo è invece il regno degli Yakariti, che sono i proprietari delle risorse naturali. «Se voi esaurite la terra e i pesci», ha spiegato Kawari agli antropologi, «gli Yakariti si vendicheranno e uccideranno tutti gli Enawe Nawe». Anche senza parlare con gli Yakariti dovremmo sentire questa responsabilità visto che la cultura dei popoli tribali ci ha già offerto grandi aiuti sul buon uso della natura: centinaia di medicinali derivati da piante e animali, lavorazione delle fibre, tecnica agricola del «taglia e brucia», esempi per il recupero di aree degradate, tecniche per il rimboschimento, coltivazione di decine di specie vegetali, sistemi di pesca.
RIFUGIATI AMBIENTALI – L’80% dei luoghi più ricchi di biodiversità si trova all’interno di terre un tempo abitate da popoli tribali che, nel corso dei millenni, le hanno sapute preservare come loro unico patrimonio da trasmettere alle generazioni future. Negli ultimi decenni, oltre ad aver fatto largo agli interessi economici nelle foreste coi bulldozer, c’è stato un altro passo falso, anche se coperto da migliori intenzioni: per creare parchi e riserve si sono allontanati milioni di indigeni. È vero che esistono anche eccezioni virtuose, molte delle quali fanno parte dell’«Indigenous and community conserved areas», zone protette che tutelano il territorio proprio grazie alla presenza, e all’esperienza, delle popolazioni tribali. Ma in generale, nel mondo, esistono attualmente circa 100 mila parchi naturali che coprono il 12% della superficie terrestre. Per fare largo a queste «oasi», sono stati sfollati circa 130 milioni di indigeni, veri e propri «rifugiati della conservazione», che hanno iniziato a trascinare le loro vite oltre la soglia della disperazione, emarginati anche dagli slum delle megalopoli tropicali.
«Prima siamo stati spodestati nel nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e oggi in quello della conservazione», ha dichiarato il Forum dei popoli indigeni nel 2004. Uno studio svolto con il patrocinio dell’Unicef sui popoli inurbati dei Guaraní in Brasile, degli Embera in Colombia e degli Awajún in Perù mostra che il tasso di suicidi tra gli adolescenti raggiunge punte, come in Mato Grosso, 34 volte più alte che tra i loro coetanei brasiliani. In un solo anno, nel 1995, solo tra i Guaraní, si sono tolti la vita 56 giovani al di sotto dei 25 anni; la più piccola ne aveva nove. «Prima eravamo liberi», ha detto Rosalino Ortiz, un Guaranì Nandeva, «mentre adesso i nostri ragazzi si guardano attorno e si chiedono come poter andare avanti. Si siedono, pensano, dimenticano, e alla fine si tolgono la vita». Il suicidio, tra le popolazioni tribali, era un fenomeno sconosciuto. «Generalmente, fra loro, quelli che hanno la medesima età si chiamano fratelli; figli, i più giovani, mentre i vecchi sono padri per tutti gli altri. Questi lasciano ai loro eredi in comune il pieno possesso dei beni indivisi, senz’altro titolo che quello puro e semplice che natura dà alle creature mettendole al mondo». Era questo il loro modello sociale e così lo descriveva Montaigne, nel 1575, che aggiungeva: «Tutto ciò non va poi tanto male: però, purtroppo, non portano i calzoni!». Ci ha pensato la nostra civiltà superiore a farglieli indossare.