I luoghi della memoria
14.08.2012, Articolo di Aniello Russo (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2012 – Anno VI, n.3)
Ora si è ammutolito per sempre il notturno tumulto delle voci nella Vaddovana o Mponta a lu Casalìcchiu o Ngimm’a la Serra, dei ragazzotti (uagliunàstri) che correvano dietro a un barattolo di latta; tace pure il parlottio delle comare un tempo sedute a gruppi lungo le strade; non si sente più il martellare del calzolaio che inchiodava la suola, né il calpestio delle scarpe chiodate del contadino che all’alba si avviava al campo o in montagna, portando a cavezza l’asino; né il belato delle capre che salivano la viuzza della Salice per arrampicarsi sulle Coste; né la ninna nanna di una mamma: Ninna nonna chi vieni ra Lacinu…, proveniente da una finestra socchiusa; né la voce di una vecchietta che a sera richiamava al pollaio (a lu masonu) le galline che si erano sbrancate nella via o nell’orto vicino: teté… tetè… teté…
Il bagnolese che torna dopo trenta o quarant’anni dall’America, si sente straniero nella propria terra mentre guarda la Giudecca spopolata e gli scalini delle case vuoti lungo la strada r’ li Agnìsi; e osserva malinconico il Gavitone (lu Vavutònu) che continua a versare l’acqua dalle sue tre cannelle, non più illuminato dal sorriso delle giovanette, che avevano un occhio al barile e un occhio ai giovanotti allineati lungo il muro di fronte.
La fontana del Gavitone
Noi ragazzi montavamo sul bordo della vasca e avvicinavamo le labbra a una cannella (a nu cannìddu) zampillante per dissetarci; e dopo, posta la mano all’imbocco, spruzzavamo il getto dell’acqua in direzione del primo passante malcapitato. Nel mattino grappoli di donne coi capelli raccolti a crocchia dietro la nuca furtivamente sciacquavano i panni, mentre due ragazzine, appostate, una a lu Vùcculu r’ la Chiazza e l’altra nnanti a la Vergine, pronte a dare l’allarme, spiavano se mai spuntasse il berretto della guardia, armata del libretto delle multe.
Nella ressa attorno alla fontana non mancava chi furbescamente anticipava il proprio turno; e partiva la reazione delle altre. Momento che Tommaso Aulisa ha saputo ben cogliere:
Quanta sciarri sentisti, funtana mia, tra femmene anziane e giuvenedde! Chi era roppu, prima vulìa jenghe: ***“Mìttiti arrètu mò, iu era prima, o te pelu li zilli r’ ssa cipodda fràcida!” ***
“La cipodda mia è fresca e profumata, a tte s’è ffatta vecchia e arrepezzàta!” ***
Prima della costruzione dell’acquedotto pubblico, la fontana si animava pure al tramonto, allorché arrivavano a decine le fanciulle con conche, secchi e barili. Era il momento opportuno per un fugace incontro tra fidanzati, ma anche l’occasione di stringere un nuovo legane affettivo. Attorno alla fontana come mosconi pullulavano gli adolescenti. Sentite la testimonianza di un bagnolese allora quindicenne, e oggi ottantenne (Gerardo Nigro):
I’ me mettìa annasulà faccifront’a la funtana, e quannu verìa na uagliotta, aspettava ca lu varlìru era chinu p’ corre ddà: – Vuo’ ca te mponnu? – e prima ca me respunnìa, i’ l’azava lu varlìru e nge lu mettìa ncapu… e li uardàva re menne janche cumm’a la nevu. Siccomu edda cu re mmanu tenìa lu varlìru, i’ n’apprufittava p’ li mpezzecà nu vasu nfacci. Po’ me ne fuìa, mente quedda m’alluccava appriessu: – Ah, figliu r’ bbona mamma! – Si nveci la uagliotta nun se facìa aiutà, i’ aspettava ca s’alluntanàva e, quannu menu se re crerìa, l’azàva la vesta a ra rètu e ngi la chigàva int’a li rini: accussì facìa verè re ccosce.
“Io mi mettevo di fronte alla fontana e spiavo quando arrivava una ragazza; poi aspettavo che il barile si riempisse per correre da lei: – Vuoi che ti aiuti? – le chiedevo. E, prima ancora che mi rispondesse, le sollevavo il barile e glielo ponevo sul capo; intanto sbirciavo l’incavo del seno candido come la neve. E poiché lei aveva le mani impegnate a reggere il barile, ne approfittavo per schioccarle un bacio sulla guancia. Poi scappavo, inseguito dalle sue grida: “Ah, figlio di una donnaccia!” Se, invece, la ragazza non mi permetteva di aiutarla, aspettavo che si allontanasse e all’impensata le sollevavo la veste da dietro e gliela piegavo nei fianchi mettendo a nudo le sue gambe.”
Le ragazze calcolavano il momento del passaggio dalla fanciullezza alla gioventù con la capacità di saper portare in bilico sul capo, senza il sostegno delle mani, il barile o la conca colma d’acqua. E quando l’evento maturava, c’era pure chi spargeva attorno a sé un pugno di sale per allontanare l’invidia (rito apotropaico).
L’adolescente aveva e ha fretta di crescere. Lasciato il Gavitone, le fanciulle passavano impettite per la Piazza sotto il peso del barile nella speranza di attirare gli sguardi e l’ammirazione dei giovani ancora celibi (scàpuli). Altri tempi, altri valori.