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Maturità – Se gli adulti chiedono ai giovani di scrivere un tema sui giovani

24.06.2012, Ilvo Diamanti (La Repubblica)

Sto seguendo con attenzione  –  e partecipazione – gli esami di maturità. Quest’anno più dei precedenti. Per motivi personali e familiari, anzitutto. Visto che il più giovane dei miei figli vi è coinvolto. Poi, perché si tratta, comunque, di un rito di passaggio importante per la generazione dei giovani. Per quanto entrambe le definizioni: generazione e giovani, siano assai poco definite. Semmai, molto incerte.

Tuttavia, credo che gli esami di maturità segnino un confine indelebile nella memoria di quanti li abbiano affrontati. Sono “l’esame della vita”. Dopo il quale nulla sarà più come prima. Sia che si proseguano gli studi  –  e allora gli esami si moltiplicheranno, fino a diventare una routine. Sia che si intraprenda il lavoro  –  intermittente, flessibile, assente.

E allora gli esami di maturità costituiranno uno spartiacque biografico. Per questo motivo, come altri opinionisti autorevoli, è parso anche a me significativo che, fra i temi proposti dal Ministero, uno riguardasse proprio il destino dei giovani dopo gli studi. Cioè: la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà. Quasi un avviso  –  l’ultimo  –  circa il futuro che li attende. Proprio per questo motivo, però, a differenza di altri opinionisti autorevoli, non ho apprezzato la scelta del tema e dei riferimenti.

Anzitutto, perché, vista la platea, mi è sembrata un po’ scontata. Come se i giovani non sapessero di essere una generazione precaria. Come se avessero bisogno di essere avvertiti circa quel che li attende domani o dopodomani: senza lavoro, intermittenti o Neet? Oppure, ancora, “cervelli in fuga”? (Magari come Steve Jobs, che ha inseguito, viaggiando, il sogno che nella scuola americana non poteva realizzare).

Mi è parso un tema retorico. Utile, semmai, a rivelare il retropensiero  –  e il senso di colpa  –  di chi lo ha ideato e assegnato. Professori e burocrati. Persone della mia generazione. Adulte e anziane. Genitori, magari un po’ attempati. Preoccupati di quel che attende i loro figli. Il destino di cui essi – la loro, la nostra generazione  –  sono responsabili. A cui essi – la loro, la nostra generazione  –  non sanno (in parte, non vogliono) dare risposta.

Tuttavia, non ho apprezzato il tema sui giovani anche per la chiave di lettura che suggerisce. Coerente con le ragioni che ne hanno ispirato la scelta. Perché il tema traccia, dei giovani, un profilo in penombra. Disegna, cioè, il ritratto di una generazione infelice e sfortunata. La cui salvezza, del tutto provvisoria, è affidata proprio a noi. Gli adulti. Che li mantengono a lungo. A casa propria. Offrono loro un appiglio, una stazione di passaggio. Tra un lavoro e l’altro. Nel corso  –  lungo e senza sbocco  –  degli studi.

Come prospettiva, tra le fonti proposte, echeggia la lezione di Jobs. Che, a Stanford, esortava i giovani: “Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo, loro sanno già cosa voi volete davvero diventare”. Mentre solo il 23,4% dei “nostri” giovani  –  certifica il Censis –  risulta disponibile “a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro”. In altri termini: i giovani sono attesi da un destino triste. Anche perché non sono disposti a spostarsi lontano da casa per lavorare. E non hanno abbastanza fame, non sono abbastanza folli per cercare soddisfazione e successo…

In effetti, non è proprio così. Gli infelici, i pessimisti, i più infelici e pessimisti: siamo noi. Gli adulti. I genitori. Quelli che proiettano sui giovani le proprie paure. Quelli che immaginano un futuro senza sbocchi. Quelli che parlano di “fuga dei cervelli”, quando i nostri laureati vanno a lavorare in altri Paesi. Loro, i giovani, i laureati, quelli che hanno studiato oppure stanno ancora studiando, ormai si sono abituati. Alla cosiddetta flessibilità. Al lavoro incerto e intermittente. Guardano Jobs con ammirazione. (Anche per quel che evoca il significato del cognome.)

Non sono disperati e neppure rassegnati. Costretti ad adattarsi, si adattano. E adattano le loro aspettative alla realtà. Per cui, se anche fosse vero che esprimono qualche resistenza a cercare lavoro lontano da casa, è altrettanto vero che  –  loro per primi –  si rendono conto di non avere alternativa. Infatti, tre su quattro, fra 15 e 24 anni, pensano che “per i giovani di oggi che vogliono fare carriera l’unica speranza è andare all’estero” (sondaggio Demos, aprile 2012). 

Semmai, siamo noi, i genitori, gli adulti, cresciuti in un clima di garanzie e di certezze, fondate sul lavoro stabile e sicuro, i più spaventati di fronte all’immagine evocata dai giovani. Siamo noi che, di fronte all’esperienza dei giovani laureati e intellettuali “emigrati” all’estero, parliamo di “fuga dei cervelli”. Come se i “cervelli”, in una società libera e aperta, potessero essere imprigionati. Il problema è un altro.

I “cervelli in fuga” sono i nostri. Perché siamo prigionieri del passato, incapaci di disegnare il futuro e perfino di immaginarlo. Noi: continuiamo a  definire i giovani “motore del cambiamento”. Ma, in effetti, neghiamo loro perfino il diritto di incazzarsi con noi. E li invitiamo ad avere compassione. Di se stessi. Con le parole di Paul Nizan, utilizzate per un altro tema della maturità: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Nizan, quando scrisse quella frase, aveva 26 anni. Proposta al commento dei giovani da noi adulti: suona ironica. E un poco ipocrita

                                                                                                       

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