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Giugno, riti e tradizioni d’estate

19.06.2012, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 17.6.2012)

Con il mese di giugno, finalmente è arrivato il caldo, e poi giungerà la canicola, che pare voglia bruciare ogni cosa: Giugnu, fuocu p’ tuttu lu munnu, dicevano i nostri padri. Comunque la pioggia in questo mese non arrecherebbe che danni al raccolto: Megliu la morte ca un’acqua r’ giugnu. O comunque non serve più alla campagna: L’acqua r’ San Giuvànnu serve sulu a llavà li pannu. (Una pioggia che cadesse il 24, festa di San Giovanni, servirebbe soltanto a sciacquare i panni).

Con l’arrivo di questo mese, si era portati quindi a vestirsi leggeri, ma non prima del tredici: Si nun vène lu Patuvànu, nun te luvà lu capanu (Se non giunge il Padovano, che è Sant’Antonio, non toglierti il pastrano!). Però, un tempo, la bella stagione sui monti dell’Irpinia, non aveva una lunga durata. Erano assai brevi le nostre estati. Duravano poco più di tre mesi, dal primo taglio del fieno in giugno alla bacchiatura delle noci nel mese di settembre. Nel mese di giugno, l’agricoltore doveva stare con la falce sempre a portata di mano: Giugnu, fàvici mpugnu. E per la fine del mese, comunque si presentasse il grano andava mietuto: A S. Pietru, cumm’ è re granu, a ra mète! In verità, nelle nostre zone più alte, la mietitura si effettuava per lo più nel mese di luglio, che per questo era chiamato dai contadini anche metuglio: Chi a lugliu nu’ mmète a settembre se respèra.

E così tra lo stormire stridente delle cicale, all’alba, uomini e donne armati di falce e allineati (mparanza) iniziavano a mietere le messi. Poiché il sole spaccava le pietre, sul capo gli uomini portavano cappelli di paglia e le donne le pezzuole legate sotto il mento. Nello stesso tempo partivano i canti: i mietitori si dividevano in due gruppi, di solito in maschi e femmine. E mentre tagliavano a mannelli, si scambiavano strofe di canti a dispetto. La trebbiatura (scugnatùra) veniva effettuata con due sistemi: portando in tondo sull’aia un paio di buoi o di muli che tiravano una pietra piatta la quale, passando sui covoni (re gregne), separava i chicchi dalla spiga; oppure battendo sui covoni con i correggiati. Poi la spulatura con l’aiuto del vento, per separare la paglia dai chicchi: il lavoro era eseguito in due tempi. Prima con una pala i contadini lanciavano in alto il grano perché il vento spingesse lontano le pule leggere e lasciasse cadere ai loro piedi i chicchi di grano; e di solito erano gli uomini a fare questo lavoro, col capo protetto da un sacco di tela. Poi le donne riempivano il crivello (l’airòla) e lasciavano cadere dall’alto lentamente il frumento, esponendolo ai soffi del vento che portava lontano le pule, mentre i chicchi di grano cadevano sul telone steso ai piedi delle lavoratrici. Ma prima queste recitavano una filastrocca propiziatoria: San Pietru e San Paulu, mannàti vui lu vientu, ca a fallu menà bbuonu ngi pensa la Maronna! (San Pietro e San Paolo, mandate voi il vento, perché sia quello buono ci pensa la Madonna!).

Il periodo in cui cade il solstizio estivo, all’inizio dell’estate, era considerato già prima della civiltà cristiana un tempus sacrum, cioè tempo di prodigi. Poiché anche l’immaginario collettivo degli Irpini considerava la giornata del ventiquattro giugno come il capodanno del secondo semestre, in questa giornata si traevano gli auspici. Nelle giornate del due dell’undici e del quindici di giugno, dalle condizioni atmosferiche si traevano gli auspici per la vendemmia.

Nefaste erano ritenute le precipitazioni che eventualmente si segnate negativamente: l’undici, Santa Barnaba: Si chiove lu iuornu r’ S. Barnaba, se ne vai l’uva ianca; e si chiov’a ra matin’a ssera, se ne vai la janca e puru la névera. (Se piove il giorno di San Barnaba, va a male l’uva bianca; se poi piove da mattina a sera, va a male la bianca e pure la nera); e il quindici, San Vito: Si chiov’a Santu Vitu, se n’è gghiutu miezzu vinu. (Se cade la pioggia a San Vito, se ne va metà della produzione del vino). Propizia, invece, la pioggia che eventualmente cade il due dello stesso mese di giugno: A Santu Marcellinu chiove acqua e accuogli vinu. (Se piove a San Marcellino, l’acqua che cade si trasforma in vino).

La chiesa cattolica, poi, ha fissato nella giornata del 24 giugno la festività di San Giovanni Battista, a cui la religiosità popolare ha attribuito alcuni degli aspetti della tradizione precristiana. Infatti, la notte di San Giovanni, tra il ventitré e il ventiquattro di giugno, per antica tradizione, era ritenuto un momento favorevole per ricavare presagi, così come il capodanno e il mese di gennaio. Questo il rito divinatorio largamente diffuso qui da noi, in Irpinia. Il 23 giugno, vigilia del Santo, la fanciulla innamorata, per leggere nel cuore del suo amato, spiantava un cardo selvatico, e una volta bruciacchiato alla fiamma di una candela, lo poneva in un vaso d’acqua. Infine posava il vaso col cardo sul davanzale della finestra, e lo lasciava lì per tutta la notte. Se l’indomani lo trovava rifiorito, era segno che sarebbe durato per sempre l’amore con il suo ragazzo; se, invece, il cardo appassiva, voleva dire che quanto prima lui l’avrebbe piantata. La fonte aggiunge che il cardo andava prima unto con l’olio, e precisa che il rito divinatorio era volto a conoscere se una ragazza avrebbe trovato marito oppure no. Si credeva che il cardo avesse virtù divinatoria.

Riti propiziatori della fertilità – Il ventiquattro di giugno, festività di San Giovanni Battista, le bambine del paese portavano in chiesa ognuna una bambola confezionata con le proprie mani. E durante la funzione religiosa il sacerdote benediceva le bambole, proprio come fossero state creature cristiane. La cerimonia religiosa legittimava così il comparatico tra l’amica della proprietaria della bambola, che diventava madrina, e la bambola, che diventava sua figlioccia. All’alba di San Giovanni, prima che sorgesse il sole, le giovani coppie si recavano in campagna e si stendevano sull’erba ancora bagnata dalla rugiada, che si credeva possedesse virtù fecondatrici. In tutto il mese di giugno si compiva quest’altro rituale da parte di coppie di sposi che ancora non avevano avuto figli: la donna si poneva nuda tra le messi mature e, prima che il marito si congiungesse a lei, invocava dal sole lo stesso calore, con cui riempiva le spighe di chicchi di frumento. La giornata di San Giovanni imponeva anche alcune proibizioni. Dall’alba al tramonto, era vietato arrampicarsi sulle piante. Racconta un testimone: “Una volta ero assieme a una frotta di ragazzi e facemmo irruzione in una terra padronale per raccogliere una manciata di mele verdi, dette di San Giovanni. Un compagno nell’arrampicarsi sulla pianta, scivolò e cadde al suolo. Si fece male. Fu allora che uno di noi disse: – Avevamo dimenticato che oggi, San Giovanni, non si sale sulle piante!” All’alba del giorno di San Giovanni, i contadini attivavano un rituale magico al fine di ottenere un’abbondante raccolta di noci e scongiurare il furto dei frutti: avvolgevano il tronco della pianta con una fune ritorta e pronunziavano tre volte la formula propiziatoria: San Giuvanne, i’ t’attacco ‘a fune nganna. (San Giovanni, io ti lego la corda alla gola). Numerosi, inoltre, nel mese di giugno le festività dei Santi, alla cui protezione si affidavano le fanciulle in cerca di amore e di un marito: Sant’Antonio (13 giugno), San Vito (15 giugno), e lo stesso San Giovanni Battista.

Nella notte tra il 23 e il 24 di giugno, si compiva l’iniziazione della janàra, ancora quindicenne (e cioè all’inizio dell’età puberale, quando la fanciulla diventava feconda). Giugno era pure considerato un mese propizio allo sboccio dell’amore. Mentre maggio era il mese propizio all’accoppiamento degli animali (degli asini principalmente), giugno era considerato favorevole alle nozze e alla fecondazione della donna. In verità, se si doveva dare ascolto a un’antica credenza, i tempi propizi alla fecondazione si limitavano a solo tre mesi: gennaio, maggio e giugno, perché gli altri mesi avevano la “r” nella composizione della parola (febbraio, marzo…), che per antica credenza era una lettera infausta alle unioni matrimoniali.

                                                                                                       

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