I riti del tempo di Quaresima
28.03.2012, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 25.03.2012)
Il lungo periodo quaresimale, che quest’anno corre da mercoledì 22 febbraio a giovedì 5 aprile, non è contrassegnato da festività religiose. Un tempo la quaresima era caratterizzata da cene rigorosamente frugali, contrassegnata da rinunce di ogni genere e da forme devozionali come la recita del rosario serale e di altre giaculatorie non del tutto conformi all’ammaestramento della chiesa. Precedeva immediatamente il lungo periodo di astinenza il Carnevale, il martedì grasso, l’ultima festività invernale. Perciò a Carnevale ci si abbandonava a ogni eccesso, dando fondo alle riserve alimentari. Recita un proverbio irpino:
Li peccati r’ Carnuvàle re cchiangi la Quaresima! (Le trasgressioni in tempo di carnevale le pagheremo nella quaresima).
La quaresima è il tempo più proficuo per le forze del male. Imperversa il demonio, non più scacciato dal santo suono delle campane, perché sono state legate il giorno delle Ceneri. Presso alcune comunità dell’Alta Irpinia c’era la credenza che i bambini, venuti alla luce in uno di questi quaranta giorni, non andavano battezzati prima di Pasqua. Forse per questo motivo: il rito di passaggio del battesimo, celebrato in tempo di quaresima senza l’accompagnamento delle campane, esponeva l’anima innocente del neonato alle insidie del Nemico di Dio. A mezzanotte tra Carnevale e le Ceneri, le campane suonavano per l’ultima volta, prima di essere legate, per annunziare da una parte la morte di Carnevale e dall’altra l’inizio della Quaresima. Le campane rimanevano mute fino a Pasqua, quando, sciolte di nuovo, annunzieranno la resurrezione di Cristo. In tutto il periodo la Chiesa non officiava matrimoni e non consentiva i rapporti carnali, perché il solo contatto rendeva impuri sia l’uomo sia la donna; inoltre era proibito celebrare feste; e infine, si riteneva un peccato non lieve mangiare di grasso.
La continenza sessuale
La quaresima era il lungo tempo di astinenza non solo dalle pietanze grasse, ma da qualsiasi piacere; non solo della gola, quindi. Insomma essa era soprattutto il tempo sacrale della purificazione del corpo e dell’anima Per disposizione religiosa, il cristiano era obbligato ad astenersi dai rapporti carnali. Il concepimento in questi giorni avrebbe potuto generare bambini segnati per sempre sia nel corpo sia nello spirito. Il divieto di accoppiamento diventava duplice nella giornata del 25 marzo, se cadeva in periodo quaresimale, come quest’anno; infatti, nell’immaginario collettivo degli Irpini vigeva la credenza che chi era concepito nella notte tra il 24 e il 25 marzo per venire alla luce nella notte di Natale contemporaneamente alla nascita di Gesù, sarebbe stato colpito dalla maledizione celeste: avrebbe subito la sorte di diventare janàra, se femminuccia; pumbunàru (lupo mannaro), se maschietto. Tempi duri una volta per i maschi! Però (così si raccontava nelle combriccole maschili) in compenso le janare che la notte volavano in cerca di un maschio, entravano come un soffio di vento attraverso la toppa della serratura e non rifiutavano di riscaldare i letti dei mariti trascurati dalle mogli, interrompendo la loro continenza sessuale. E la malandrina raddoppiava le sue prestazioni in questi tempi, cioè nel periodo di quaresima, quando le mogli, ligie alle proibizioni imposte dalla Chiesa, voltavano le spalle ai compagni tentatori, che mal sopportavano un’astinenza lunga quaranta giorni. Perché i mariti, resi assai vulnerabili per la lunga astinenza, non cadessero nella rete della tentatrice, le mogli preparavano ogni genere di sortilegio. Per esempio, cospargendo il pavimento di sale oppure ponendo dietro l’uscio di casa una falce o delle forbici, come amuleti per scongiurarne l’entrata. Ma pare che fosse vano ogni espediente di tenere lontano la tentatrice. Il marito, sconvolto dal desiderio, con gli occhi sgranati nel buio della notte, attendeva che la compagna di letto prendesse sonno per alzarsi furtivamente, sciogliere i nodi dei sortilegi e disserrare l’uscio nella vaga speranza che quella sera la janàra avrebbe scelto la sua casa per abbandonarsi con lui a una lunga notte d’amore.
L’alimentazione leggera
L’alimentazione leggera, priva di grassi del periodo quaresimale assumeva un significato penitenziale, perché richiamava il lungo periodo di digiuno di Cristo nel deserto. Ma essa aveva anche carattere funzionale, se si pensi che in questo periodo cominciavano a scarseggiare le scorte dei contadini. In alcune famiglie, particolarmente di venerdì, si mangiavano le aringhe. E raccontano che nelle famiglie più povere e numerose se ne cacciava giusto una sola: la persona più anziana la attaccava alla catena del camino per affumicarla, e poi ognuno della famiglia la stringeva tra due fette di pane, in modo che ne prendesse almeno il sapore. All’ultimo, di solito il più piccolo, toccava solo la lisca da stringere in mezzo al suo pane. Durante il duro periodo quaresimale (che finiva il giovedì Santo, a ventiquattrore, al crepuscolo quando, secondo il calendario medievale, cominciava il nuovo giorno, il venerdì di Passione) dunque al cristiano era assolutamente proibito nutrirsi di carne; e gli era imposto pure il divieto di cucinare con la sugna o con il lardo, che erano grasso di animale. Chi ce l’aveva usava l’olio, ma era il lusso di pochi. Del resto già prima di quaresima con la cenere bollita (la ceneràta) si lavavano le pentole, le caldaie, le padelle, e si riponevano nello stipo, dove riposavano per tutto il periodo quaresimale, durante il quale non si friggeva e non si usavano i condimenti grassi (nun s’avìa camparà). E non si riprendevano se non per il ricco pranzo pasquale. Si consumava quello che ogni comunità aveva come produzione locale; in genere: peperoni sotto aceto, frittata d’uova con erbe spontanee, baccalà; ma anche sughi di pomodoro senza carne e senza grassi di maiale. In verità, l’astinenza era una scelta obbligata, in quanto la quaresima coincideva con l’esaurimento delle risorse alimentari.
Calato il sipario sul rito orgiastico di Carnevale (quest’anno si è festeggiato il 21 febbraio), cioè al termine del martedì grasso, nel giorno delle Ceneri (mercoledì 22 febbraio) – la testimonianza è stata raccolta in varie aree della nostra provincia – le donne di campagna confezionavano una pupa che aveva il corpo formato da una patata ed era vestita di stoffa nera; la pupa rappresentava una vecchia in atto di filare col fuso. Sulla patata infilzavano sette penne (sei nere e una bianca) di gallina, quante sono le settimane della Quaresima. La pupa veniva appesa alla finestra o inchiodata sul portone di casa. E ogni domenica fino alle Palme (quest’anno si festeggia il primo aprile), rigorosamente al ritorno dalla messa cantata delle undici (detta: azaméssa), si staccava una penna nera; l’ultima, quella bianca, veniva staccata il sabato Santo, a mezzogiorno, al primo rintocco della campana a gloria che annunziava la resurrezione di Cristo. La pupa, che rappresentava la Quaresima, era detta ad Avellino Quaranésima, a Nusco, Quaraésuma; a Calitri Quarantàna; a San Mango, Caraésema; a Senerchia, Caraiésima. Al termine dell’astinenza essa veniva gettata nelle fiamme del camino con un senso di liberazione. L’atto sanciva il lungo rito di purificazione. Nelle nostre campagne poche contadine, di età molto avanzata, hanno esposto all’uscio la pupa per l’ultima volta sulla soglia del terzo millennio. “A Morra una contadina novantenne ha esposto all’uscio la quarantàna l’ultima volta nel 1997, prima di chiudere gli occhi per sempre” (inf. Di Pietro). Questi gesti rituali, che testimoniano antiche usanze risalenti alle religioni dei popoli italici indigeni, segnavano momenti di ansiosa aspettativa di un evento straordinario. Evento che liberava il cristiano dal duro periodo di astinenza sicché il suono delle campane e l’inizio della Pasqua erano il momento di esplosione di una gioia piena, palpabile. Provvidenziale è anche questo ritorno del suono della campana, che riesce a mettere in fuga il demonio, il quale ha insidiato l’anima dei cristiani più deboli. Egli, infatti, ha avuto campo libero, per tutto il tempo in cui le campane sono state legate. La quaresima, dunque, veniva rappresentata dall’immaginazione popolare degli Irpini come una vecchia rugosa e macilenta. La befana, quella che, a detta degli antropologi, è l’immagine della natura che ogni anno invecchia e muore, per tornare a rinascere e a rinnovarsi con la primavera, nella nostra cultura è da identificarsi forse con la pupa quaresimale, riprodotta con una bambolina di stoffa. Altra immagine della quaresima era Segalavecchia, un fantoccio di legno vestito da vecchia che, giusto a metà quaresima, veniva tagliato a metà e gettato anch’esso nelle fiamme tra le grida gioiose dei contadini, che forse ripetevano inconsciamente un antico rito propiziatorio del buon raccolto. Secondo alcune fonti, la Vecchia rappresenta la morte. Ma forse è tutt’e due le cose insieme. La Quaresema è brutta cumm’a la morte, recita un’espressione idiomatica irpina.
Dal volume “L’immaginario collettivo degli Irpini”