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“Nove quarti di luna”, il libro di Agostino Arciuolo

16.02.2012, La recensione di Paolo Saggese (da “Il Mattino” del 14.02.2012)

Viaggio verso Picalquì, scuola di vita. L’Ecuador, gli indios e la riscoperta della purezza …

La giovane letteratura irpina, molto ricca e piena di fermenti che nascono da suggestioni molteplici e spesso contraddittorie, oggi può salutare uno scrittore di sicura eleganza, che, nonostante l’età, non è semplicemente una promessa, ma una certezza degli anni a venire. Agostino Arciuolo aveva già firmato, in un libro a quattro mani con il padre Luciano, poeta e scrittore di valore, una raccolta di poesie («Nei libri » del 2010, Delta 3 edizioni) di forte intensità emotiva e ideale, una riflessione impegnata sul mondo occidentale e sulla crisi delle ideologie, che hanno portato all’inevitabile dominio del mercato e dunque del denaro. Già in questo libro, erano tra l’altro evidenti gli interessi per il pensiero moderno e contemporaneo, come anche per la filosofia antica, in coerenza con gli studi scelti da Agostino Arciuolo, di recente laureatosi a Siena in Filosofia.

Ed ecco che, con una laurea in tasca, anzi senza la laurea in tasca, ma con un sacco pieno di matite, penne e quaderni, nell’estate del 2011, il giovane ha intrapreso un nuovo viaggio, non come quelli che di solito si compiono d’estate, con mete balneari od esotiche in qualche paradiso del divertimento, ma verso uno dei luoghi più sperduti e dimenticati del mondo.

Da questo viaggio, iniziato il 19 giugno e conclusosi il 22 agosto, è nato il libro «Nove quarti di luna. Diario di un viaggio in Ecuador» (Delta 3 edizioni), appunto un diario di un viaggio, che aveva un significato ben preciso, ed era insieme la conclusione di una vita e l’inizio di una nuova vita.

Dal punto divista letterario, se dimentichiamo la realtà concreta del viaggio, potremmo considerare «Nove quarti di luna» come una sorta di romanzo epistolare di formazione, in cui un giovane pieno di letture e di idee affronta un viaggio, che è un primo confronto con la vita. Ma questa lettura sarebbe completamente sbagliata. Il viaggio, infatti, non nasce tanto da un desiderio di scoperta – comunque insita in ogni viaggio come in ogni attimo dell’esistenza – quanto piuttosto da una necessità di dare senso alla propria vita, probabilmente in coerenza con una cultura acquisita sui libri e con l’ambiente familiare del giovane scrittore.

Destinazione di questo lungo percorso interiore e concreto è un villaggio della cordigliere ecuadoregna, presso la «Fundación Brethen y Unida», nella comunità di Picalquì, nei pressi di Tabacundo, che significa paese vecchio (da taba e cundo). Qui, tra giovani volontari provenienti dall’Europa e dal Nord America, insieme agli amministratori della «Fundación», Agostino Arciuolo comincia il suo lavoro da contadino inesperto dietro le raccolte di legumi o la mungitura con Eladio, a condividere il freddo delle notti della cordigliera, dove unico sollievo è il tepore del fuoco, fatto d’arbusti, che piano piano si spengono e lasciano gli uomini abbandonati al gelo. Qui condivide questa esperienza umana con Fred, il coordinatore dell’attività di volontariato, con Edwin, con Tuki, con don Gabriel, con Esteban, con Narcisa, con Aracely, con i campesinos della cordigliere, e soprattutto con i bambini di questi monti lontani, che frequentano con entusiasmo la scuola della comunità.

Il racconto dell’attività di maestro dei bambini degli indios di Picalquì è uno dei momenti più belli, di grande commozione, del libro, in cui la passione dèlla conoscenza, l’idea della sçcperta, la spontaneità e la purezza fanno da contrasto con la terribile fatica del vivere e con l’ingiustizia della storia. Questa è la terra devastata dai conquistadores, è la terra in cui la religione cattolica ha estirpato pervicacemente ogni traccia della cultura india, ha ricacciato sulle impervie montagne questi popoli, ne ha fatto e ne fa tuttora degli schiavi.

Questo popolo, sospeso sopra i tremila metri tra antico e moderno, e che aspira ad una nuova civiltà, fatta dei miti dell’occidente, appare allo scrittore quasi come il buon primitivo ottocentesco, sebbene Agostino Arciuolo, nella sua grande umanità e capacità di interpretazione psicologico e antropologica, non cade negli stereotipi, ma va con profondità alla ricerca di una saggezza che l’uomo occidentale ha forse irrimediabilmente perduto. E così, ripercorrendo questo rapporto difficile tra noi e loro, scrive in versi: «Non domatori / né dominatori, / Meno che mai padroni/ o signori del creato. /Bambini piuttosto, / capricciosi e distratti. / Lattanti ingordi, / che sporcano /ogni cosa, / e rompono. / E prostituta / chiamano / loro madre».

Nella seconda parte del viaggio, dopo aver descritto con eleganza la selva amazzonica e i suoi misteri, come anche il mercato dei panni di Otavolo, il Parco naturale del Peguche, le spiagge di Emeralda, Arciuolo racconta l’approdo al piccolo paesino di Columbe, «una piccola Macondo dispersa e solitaria»  dove il giovane scrittore condividerà gli stenti e la fatica di una poverissima famiglia di campesinos. Qui, tutto l’anno la dieta è a base di patate e «melloco», un piccolo tubero talvolta arricchito con fave e carote.

Questa vita disumana, che distrugge gli uomini già a quarant’anni, con le donne già vecchie a trenta, con i bambini adulti a dieci anni, è raccontata con grande forza, con grande sensibilità. Così Agostino Arciuolo ci offre un libro vero, che si legge con doloroso piacere, e che ci convince, perché non fa parte della «letteratura a perdere» (nella definizione di Giulio Ferroni) di questi anni, non cerca riflettori, ma lettori e uomini capaci di comprendere.

Alcune foto del viaggio …

                                                                                                       

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