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Miti e leggende della montagna

25.10.2011, Articolo di Aniello Russo (tratto da “Il Corriere di domenica 23 ottobre 2011)

Figure reali e fantastiche che convivevano nell’immaginario collettivo.

Frate Guglielmo, ora che andate a Montevergine” disse un pastore all’eremita che si metteva in viaggio per raggiungere gli altri monaci sul Partenio, “chiedi per me alla Madonna che i lupi non attacchino più i miei agnelli. Anche questa notte ne ho perduti due; e se continua così, sarò condannato alla miseria.”Guglielmo annuì col capo. Poi si lasciò alle spalle l’altopiano Laceno e prese a scendere a valle.

Lungo la china, da un costone gli arrivò la voce di una contadina che rovistava tra le felci in cerca di castagne:  “Zio monaco, quando sarai davanti a Mamma Schiavona, chiedile la grazia di arrestare il male che aggredisce le piante. Senza più castagne come nutriremo i nostri figli nei lunghi mesi della fame?” Prima che il sole calasse, il pellegrino arrivò sul Montagnone, davanti all’immagine di Maria.

La Madonna gli sorrise: “Guglielmo, le loro preghiere saranno esaudite. Ma in segno di riconoscenza, i pastori nel giorno dell’Ascensione offriranno ai mendicanti il latte munto in giornata; i contadini raccolgano le castagne ma dal giorno del Morti abbandonino i castagneti per consentire a chiunque di farsi una provvista per l’inverno. E queste saranno dette le castagne dei poveri!”.

Tempo dopo Guglielmo prese la strada del ritorno. Si arrampicò per il Malopasso, attraversò la pianura di Volturara, salì per Verteglia e di là calò nella valle del Calore. Risalendo la montagna che portava a Laceno, sulle costa, Guglielmo alzò gli occhi e gli si allargò il cuore nel vedere le piante di castagno piene di ricci belli grossi. “Questa gente – pensò – ha bisogno di me”.

E giunto sulle rive del lago chiese a un pastore un asino in prestito per trasportare il legname con cui costruirsi una capanna per affrontare il gelido inverno. Era arrivato a metà della fabbrica, quando una mattina dai boschi venne giù un grosso lupo. La bestia affamata avvistò l’asino, che stava brucando l’erba, e gli si avventò addosso. Lo afferrò per la gola e lo sgozzò. Guglielmo, che aveva seguito la scena da lontano, levò in aria la destra, segnò una croce nell’aria, e il lupo si arrestò come paralizzato. Il frate eremita si avvicinò all’asino, sciolse la cavezza, gli tolse il basto e rivolto al lupo, disse: “Ora che mi hai ammazzato l’asino, sarai tu a trasportare il legname per la capanna!” e gli legò la cavezza e gli impose il basto.

Per settimane docilmente il lupo trasportò il legname, fino a che, terminata la costruzione, Guglielmo gli tolse la cavezza e il basto, e lo lasciò libero di tornare nei boschi. Ma il lupo mostrò di voler restare col frate, seguendolo ovunque come un cane fedele. E così pure i pastori furono liberati dagli attacchi del lupo. La leggenda è stata rilevata, oltre che a Bagnoli, anche a Montevergine e al Goleto. Forse davvero la storia va interpretata come una testimonianza della evangelizzazione operata da San Guglielmo sugli irpini del tempo (addomesticati come il lupo), che conservavano nei loro culti dei riti pagani.

San Guglielmo era giunto da Vercelli nei primi anni del 1200, poco dopo San Francesco, che aveva fondato un convento a Folloni (Montella). La sua vita si è consumata tra Montevergine, Laceno, il Goleto e Nusco, dove si estinse nel 1245, il 25 giugno, giorno della sua festività. La sua opera di evangelizzazione fu tale che si meritò il titolo di patrono dell’Irpinia.    I simboli della civiltà contadina

Tutti, o quasi tutti, i personaggi che gli alunni della scuola media “Michele Lenzi” di Bagnoli hanno raffigurato sui pannelli i quali orneranno gli angoli delle strade di Bagnoli nelle giornate della Sagra, sono protagonisti della leggenda che abbiamo narrato. I personaggi della storia, che ha come sfondo Laceno, sono: un pastore bagnolese, una donna di Bagnoli proprietaria di un piccolo bosco di castagni, le stesse castagne, il lupo, le pecore.

Queste figure, reali nella loro consistenza e concretamente vive nelle comunità irpine, convivevano con altre figure dell’immaginario collettivo della nostra terra. Anzi spesso è difficile distinguere la figura reale da quella fantastica, come la ianàra, e come lo stesso lupo. I nostri nonni, contadini e pastori delle terre d’Irpinia, nutrivano una ricca cultura di simboli negativi, come la farfallina nera (scazzamariello) il rospo e il serpente; e di simboli positivi, come la coccinella (pàppoulu r’ Sant’Antoniu o re Santo Nicola), e la lucertola (lacèrta).

Molti di essi appartenevano, come si vede, al mondo animale; ma ve ne erano altri che appartenevano al mondo vegetale. Questa simbologia risale al tempo in cui vigeva la concezione della sacralità della natura. A chi mostrava l’intento di maltrattare una coccinella, si diceva: “E’ peccato!” cioè si esprimeva la condanna per chi voleva compiere un atto ritenuto sacrilego.    La doppia natura del lupo La creatura che più compiutamente assomma in sé la doppia natura di essere reale e essere fantastico è senza ombra di dubbio il lupo. Il lupo era un totem da cui il gruppo sociale degli antichi Irpini, una costola dei Sanniti staccatasi in una primavera sacra, si riteneva discendente; e per questa ostentata origine gli Irpini si sentivano legati a esso da un rapporto di consanguineità e di reciproca protezione. Inizialmente il lupo era anche oggetto di culto. E’ stata quella l’epoca di vita osmotica tra l’uomo e la natura, durante la quale l’uomo rispettava la natura e la natura lo ricompensava con i suoi frutti. Ma questo è solo un aspetto dell’animale che nei tempi antichi popolava i nostri boschi, nei quali esso signoreggiava.

Il lupo è visto anche come male, come figura negativa. Questa versione ci viene dalla cultura latina che generò la leggenda del pumbunàru (lat. lupus hominarius, cioè lupo mannaro), riportata da Petronio nel suo Satyricon. La leggenda, la cui memoria era viva nell’immaginario collettivo irpino fino a qualche decennio addietro, racconta la metamorfosi dell’uomo in lupo e l’esplosione della bestialità connaturata nell’essere umano. Ecco la storia che si ripete in ogni angolo dell’Irpinia.“Il bambino che nasce la notte di Natale è segnato dal terribile destino di diventare lupo mannaro. E la trasformazione si ripete ogni anno: viene l’asma, crescono le unghie, si gonfiano gli occhi, la bocca si ingrandisce e il lupo mannaro cammina con le mani per terra, si rotola nelle pozzanghere o si getta nella corrente di un fiume per trovare refrigerio.

Raccontano che c’era una volta una donna, la quale aveva sposato un forestiero con questo male. Una notte, era la notte di Natale, quest’uomo sentì che il respiro gli mancava e vide che le unghie gli crescevano. Disse allora alla moglie: – Io ho questa maledizione e devo uscire per non farti male. Quando torno a casa e busso la prima volta, tu non aprirmi; quando busso la seconda volta, neanche; la terza volta, aprimi pure -. Uscì e prese a correre senza meta ululando come un lupo. Più tardi la moglie, che intanto si era addormentata, si svegliò di soprassalto e corse ad aprire credendo che il marito chi sa quante volte avesse picchiato alla porta. Purtroppo il marito aveva bussato solo una volta e appena la donna aprì, le saltò addosso e la sbranò. 

“Con l’evangelizzazione delle nostre terre, si genera una nuova concezione del lupo che si sdoppia in una doppia natura. Nell’immaginazione popolare esso da un lato viene demonizzato, cioè il lupo è rappresentato come un essere diabolico, simbolo delle potenze infernali. A tale proposito alcuni pastori testimoniano la pratica della circumambulazione, un’operazione rituale per scongiurare l’apparizione del lupo, ritenuto entità del male. Il più giovane dei pastori, al calare della notte girava in senso orario intorno al recinto delle pecore, fermandosi nei quattro angoli per piantarvi una rozza croce di legno. 

Gli stessi testimoni affermano che così il lupo-demonio non osava accostarsi allo stazzo per fare incetta di pecore e di anime. Dall’altro lato l’immaginario collettivo eleva il lupo a simbolo del bene. La deificazione (direi quasi la angelizzazione) dell’animale comporta la concezione del lupo come un angelo protettore, elevato quasi alla funzione di angelo custode. Come abbiamo visto nella storia di San Guglielmo e il lupo.

Il Corriere, 23.10.2011 – Miti e leggende della montagna, Articolo di Aniello Russo

                                                                                                       

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