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Appunti di un giovane pessimista e “abbastanza felice”

08.10.2011, Ilvo Diamani (La Repubblica)

Mi chiamo Gianluigi e ho 35 anni. Mi sono laureato in Scienze economiche e specializzato in Studi aziendali. In realtà, non sono mai riuscito a fare un lavoro affine ai miei studi. Per la precisione, non ho mai fatto un lavoro vero. Perlomeno, secondo l’idea che ne ha mio padre. Un lavoro stabile, da “laureato”, come quand’era giovane lui. Ma ho fatto un po’ di tutto, in modo rigorosamente temporaneo.  Sei mesi qui, un anno là, a progetto, a termine, part time.

Come mia sorella Martina, d’altronde, che è un po’ più giovane di me e si è messa in testa di fare la giornalista. Ha preso la laurea in Scienze della Comunicazione e poi ha fatto Corsi e Scuole  di Giornalismo – dovunque e di qualunque indirizzo. Per le aziende private, per la Pubblica Amministrazione, per i New Media. Mai più di due mesi nello stesso posto – di lavoro. Cioè: non riesce a trovare una soluzione stabile. Un giornale, un’azienda, un ente, un’agenzia che le dia un contratto per un periodo decente. Fortuna che abbiamo un tetto e un punto di riferimento. A casa dei nostri. Che non ce lo fanno pesare, perché, in realtà, a loro non dispiace averci vicino. Di tenerci, comunque, legati a loro. Per il resto, facciamo la nostra vita, abbiamo i nostri amici, le nostre relazioni. (Niente di troppo impegnativo, però. Non ce lo possiamo permettere e comunque non ci interessa.) Ci muoviamo spesso. Si viene e si va. Per motivi di aggiornamento, lavoro, amicizia ma anche per sfuggire al controllo domestico.

Insomma, la precarietà, per me, è la regola. Un po’ faticosa, ma mi ci sono adattato. Non so cosa farò in futuro e in realtà non ricordo bene neppure cosa intendessi fare all’inizio. Sono passati troppi anni, troppi corsi, troppe occupazioni. Ma forse un’idea precisa non ce l’avevo neppure allora. Seguivo il vento di quegli anni, quando il mito del Nordest (dove abito) era in ascesa e c’era grande fiducia nel futuro delle imprese e dell’economia locale.

Ora, però, confesso che fatico a essere ottimista sul futuro professionale. Non solo il mio, personale. Anzi, se allargo lo sguardo, il pessimismo cresce. Quel che vedo non mi piace. La politica mi deprime. Uso un eufemismo, perché, per educazione, sono abituato a non esagerare neppure nel linguaggio. Però, il ceto politico, gli uomini di governo non mi ispirano nessuna fiducia. Li reputo incapaci e moralmente discutibili. Responsabili del disastro in cui siamo affondati. Da cui non riusciamo a uscire perché l’economia mondiale e quella del Paese sono in condizioni pessime. E non si vedono spiragli. La speranza è debole. La crisi, questa crisi, è destinata a durare ancora a lungo. Quanto? Chi lo sa. E chissà se il nostro sistema, la nostra economia, il nostro mercato riusciranno a resistere senza collassare. Ne dubito molto. Insomma, non mi attendo nulla di buono, sul piano personale e su quello pubblico.

Ne parlavo ieri sera con i miei amici, al bar. Mentre ci facevamo uno spritz. Come capita la sera. Quando ci ritroviamo insieme. E la tiriamo lunga. Per non rientrare a cena. Ieri, tutti, più o meno, raccontavano vicende e impressioni simili. Alle mie. Capita spesso che ci perdiamo in discorsi come questi Noi, giovani-adulti, d’altronde, abbiamo biografie e sentimenti che si rispecchiano. Poi, a un certo punto, qualcuno – non ricordo di preciso chi – si è detto e ci ha detto:  “Però, nonostante tutto, mi sento felice. Insomma: abbastanza felice. Almeno, nel mio piccolo”. E tutti gli altri, tutti noi, abbiamo annuito. Echeggiato. “Sì. È vero, siamo abbastanza felici. Nel nostro piccolo”. Anch’io: quando sono a casa mia, insieme a voi, nella mia vita quotidiana. Mi sento abbastanza felice. Tanto più se fuori piove e fa freddo. Il mio piccolo mondo privato mi fa sentire protetto. E se il domani è incerto, beh… meglio attendere. Domani è un altro giorno. Si vedrà. 

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* Il 19% degli italiani intervistati nel corso di un recente sondaggio si dice “molto felice”, il 65% “abbastanza”. In totale, si tratta dell’84% della popolazione. Le maggiori percentuali riguardano: i più giovani, fra 15 e 24 anni: 98%; i “giovani-adulti”, fra 25 e 34 anni: 87%. Le persone con maggiore istruzione e gli studenti: oltre il 90%  (Demos & PI., settembre 2011, campione nazionale di 1.326 casi).

(articolo pubblicato su “La Repubblica” il 06 ottobre 2011)

                                                                                                       

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