Gli antieroi del nostro tempo nella poesia di Ferdinando Rogata
22.08.2011, Prefazione di Paolo Saggese al libro di poesie “EROI DEL MIO TEMPO”
1. A Bagnoli Irpino si respira un’aria “sincera”, schietta, frizzantina e severa. Del resto, la vita difficile di chi ha vissuto su monti e tra monti sovrastanti ha temprato fortemente gli abitanti di questa antica Arcadia. Perciò, nel leggere l’ultima fatica letteraria di Ferdinando Rogata non ci sfugge questa stessa asprezza. Questa asprezza, che tuttavia non significa rudezza, è d’altra parte un leitmotiv della produzione letteraria di questa “piccola Firenze d’Irpinia”, che può annoverare poeti violentemente satirici quali Giulio Acciano e Giovanni Pallante, nei secoli passati, e quindi più di recente i versi dialettali non meno “puntuti” di Tommaso Aulisa e Aniello Russo, o ancora in lingua di Luciano Arciuolo e del giovane Agostino. A questa tradizione satirica molto antica si ricollega Ferdinando Rogata, che torna a pubblicare una raccolta di versi a distanza di più di venti anni (al 1988 risale Tele di ragno, edita per i tipi della Valsele Tipografica, con prefazione di Luciano Arciuolo).
In quelle poesie datate agli anni Settanta e Ottanta, Ferdinando Rogata sembrava essere, anzi appariva come “il poeta che voleva cambiare il mondo” (così il titolo di ID) capitolo a lui dedicato nel secondo volume, di prossima pubblicazione, della mia Storia della Poesia Irpina). Infatti, il tono satirico faceva intuire una speranza di cambiamento.
Questa seconda raccolta, adesso, rivela la constatazione di una sconfitta, ideale, morale, politica. Anzi, azzarderei a dire che piuttosto che satirica questa raccolta sia di natura giocoso – epigrammatica; infatti, pur essendo ispirata dall’indignazione passata, adesso il poeta non propone un’alternativa al mondo capovolto, immorale e al collasso ideale in cui viviamo. Dunque, il poeta non crede più nella possibilità di un’alternativa, di redimere “questo mondo”. Del resto, “mala tempora currunt”.
L’idea fondante del libro è quella non della semplice condanna, ma della dissacrazione, evidente nell’uso costante di due tecniche di scrittura, che Rogata utilizza in modo raffinato.
Il primo espediente retorico -letterario consiste nell’uso frequente e incisivo di rime e assonanze che conferiscono ai componimenti un tono cantilenante, da poesia giocosa, alla Cecco Angiolieri, alla Burchiello, alla Pasquino. Sì leggano, ad esempio, i versi di Ora che tutto domina, L’anno decorso, Il tempo non promette, Al divino cantore, A me proprio non piace, Al partigiano, Canto di carnevale, Caro Silvio e così via.
Il secondo espediente, che accomuna i componimenti di Ferdinando Rogata soprattutto alla produzione epigrammatica è il cosiddetto fulmen in clausola, la battuta inattesa (aprosdòkefon), talvolta ironica, talvolta amara e sentenziosa, con cui si chiudono alcuni componimenti soprattutto brevi. Si leggano in questa chiave Ora che tutto domina, Che sculati!, L’anno decorso, Pensavo ad altro, Seguivano muti, Meraviglioso amarsi, AI divino cantore, A me proprio non piace, Caro Silvio.
Ne cito uno per tutti, indicando in corsivo la pointe:
Ora che tutto domina Ciriaco
questo popolo, giuro, è sordo e cieco.
Finestre e porte ormai sbarrar bisogna
e nascondere al mondo la vergogna
e fare come disse un re di Spagna
che chi lo prende in culo non si lagna.
(da Ora che tutto domina)
2. Si coglie, in queste poesie, un senso di amara sconfitta, ma non la resa: la condanna irridente di un tempo che suscita disgusto, è tuttavia anch’essa figlia di una crisi irreversibile delle ideologie, che ha ormai cambiato radicalmente il mondo dopo il 1989. Questa poesia è frutto del post-moderno non perché ne sia intrisa ideologicamente, ma perché nasce dalla constatazione della fine di un sogno di palingenesi di giustizia, che la cultura di sinistra aveva nutrito nel corso del Novecento.
Queste poesie, infatti, hanno al centro il trionfo di Ciriaco (De Mita), che con alterne vicende è ancora il “padre – padrone” della politica provinciale e regionale, capace di sopravvivere a Irpiniagate, a Tangentopoli, alla fine della prima e della seconda Repubblica … Queste poesie hanno anche al centro il trionfo di Silvio (Berlusconi), che è simbolo di questo circo carnascialesco e volgare, che è divenuto il nostro sfortunato Paese.
Questo, insomma, è il mondo degli antieroi, non degli eroi, perché è un mondo senza ideali, dove regnano incontrastati il Denaro, il Potere e Priapo:
Davvero questo mondo è una commedia:
ovunque guardi trovi le sozzure,
però se scopa Silvio è una tragedia
e lo fa di nascosto e paga pure.
Così vanno le umane vicende.
Compra chi ha contanti e chi li spende:
chi li vuole la sua merce vende
e crepino per sempre i benpensanti.
Questo è davvero quel che penso io
e quando si ritrova in queste zone
ho in serbo un po’ di escortiche nostrane
e se non si contenta prende il mio.
(da Caro Silvio)
Il Canto di carnevale è la degna chiusa di questo mondo sudicio, maleodorante, da bolgia infernale, vuoto e mefitico, che ci appare in televisione. Di fronte al morto Silvio, ecco uno spettacolo che non è affatto caricatura del presente, ma sua fotografia: Ne’era la giovinetta compassata, / la figlia di una madre un po’ intronata, / che sogna che nel grande parapiglia / il morto liscia il culo un po’ alla figlia”.
Non c’è, tuttavia, alternativa a questo mondo, come dimostra la sezione Quaderno rosso, otto componimenti, che presentano stilemi e procedimenti estetici analoghi ai componimenti precedenti (rime, assonanze, aprosdòketon), ma che prendono di mira la sinistra locale e nazionale, con immagini mutuate anche dall’Inferno dantesco. E questa la poesia della delusione e del disincanto.
La sezione conclusiva, Poesie in corsivo, sintetizzano la delusione e lo sconforto. Ferdinando Rogata, dopo una vita di lotte, prorompe: “Lezzo da ogni parte e solo fango, / s’innalza la plebaglia / e la violenza è norma” (da Lezzo da ogni parte).
3. Ancora qualcosa sui modelli letterari. Eroi del mio tempo è allusione esplicita a Quasimodo. Si coglie qualche eco da Montale, come la “divina indifferenza” della poesia che dà il titolo alla raccolta, e il male di vivere della seconda (Matteo, chissà).
Per il resto, Ferdinando Rogata adotta uno stile tutto personale, carico di volgarismi e di termini dialettali. A voler testimoniare, se ve ne fosse ancora bisogno, che anche la poesia deve scendere fino ai bassifondi del gergo plebeo per “cantare” questi nostri tempi “moderni”.