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Sant’Anna e i riti propiziatori

25.07.2011, Articolo di Aniello Russo (tratto da “Il Corriere” del 24.07.2011)

Questo mese, luglio, in Irpinia è (era) il tempo della calura; il cielo senza nuvole e senza acqua. Il mese con la controra, coi pomeriggi caldi e afosi, da trascorrere in casa, con le imposte appannate. Nella nostra terra, agosto già registra un abbassamento della temperatura e le prime precipitazioni annunziano l’inverno (Bagnoli): prima pioggia d’agosto, l’inverno è già a Nusco! (acqua r’aùstu, viernu a Nuscu).

Luglio nella nostra civiltà contadina era uno snodo importante nella complessa attività agricola, perché era il mese nel quale fervevano i lavori in campagna. In Alta Irpinia, dove il clima è più rigido, questo mese è caratterizzato dalla mietitura, per questo luglio era anche comunemente detto metùglio. Un temporale (na trubbéa) in questo momento sarebbe stata la rovina per il contadino che riponeva tutte le sue speranze alimentari sulle messi che biondeggiavano al sole. A lugliu nun chiuvésse mancu uogliu (in luglio non piovesse neppure olio!) invocava il contadino alle prese con la mietitura e la trebbiatura. In un mese tradizionalmente asciutto faceva eccezione solo la precipitazione piovosa nella giornata della Madonna delle Grazie (che cade il due luglio); per questo recitava un proverbio irpino: Si chiove a la Grazia, mantène tuttu lu munnu saziu. Bisogna approfittare della mancanza di precipitazioni per portare a termine le fatiche nei campi, trascurando anche i pasti. Basta il pane, con il prosciutto come companatico: Lugliu assùttu, pan’e prusùttu.

Il contadino previdente già sapeva il tempo che si sarebbe avuto nel mese di luglio, giorno per giorno, dall’osservazione del tempo nella giornata di Capodanno, ora per ora; anche l’osservazione del tempo nella giornata del trenta di gennaio dava al contadino le indicazioni sul raccolto: Cu lu solu a San Felicianu, lu saccu vale cchiù dd’ re granu. Cioè, se c’è stato il sole per tutta la giornata del trenta gennaio, a luglio si raccoglierà tanto poco grano che il sacco che lo conterrà varrà di più. Chi a lugliu nu’ mmète a settembre se respèra. E così tra lo stormire stridente delle cicale, all’alba, gli uomini armati di falce e allineati (mparanza) iniziavano a mietere le messi. Una mano la davano pure le donne, anche quelle gravide prossime al parto. Poiché il sole spaccava le pietre, sul capo gli uomini portavano cappelli di paglia e le donne le pezzuole legate sotto il mento. Nello stesso tempo partivano i canti: i mietitori si dividevano in due gruppi, maschi e femmine, che si scambiavano strofe di canti per schermaglia.

Una volta tagliate le spighe venivano accumulate in covoni (grègne) sull’aia, in attesa della trebbiatura: una pioggia le avrebbe condannate a marcire! E così sarebbero andati in fumo nove mesi di fatiche, dalla semina fatta nel mese di novembre, alla mietitura realizzata a luglio. Nove mesi il ciclo del grano nella terra, nove mesi il ciclo della gravidanza della donna. E’ il principio di similarità: quanto tempo occorre per raccogliere il grano (novembre- luglio), altrettanto per fare un uomo. E spesso l’inseminazione della donna da parte del contadino avveniva nel mese di novembre, al termine delle fatiche nei campi. Aveva fatto in tempo a seminare la sua campagna e pure la sua compagna. A giugno, gli steli del grano superbi avrebbero mostrato gonfie le spighe e la moglie avrebbe ostentato gravido il pancione. Sicché il contadino si metteva in doppia attesa: da una parte il gonfiarsi della spiga in campagna, dall’altra il gonfiarsi della pancia della compagna. E veniva luglio luminoso, che portava il chicco di grano maturo nella spiga e nello stesso tempo il figlio nel grembo della sposa. Anche il pastore nel novembre precedente, prima di partire per la transumanza in Puglia o in Terra di Lavoro (Tarlavoru), spesso lasciava incinta la moglie, che avrebbe anch’essa messo al mondo un figlio nel mese di luglio. Forse per questo la festività di Sant’Anna, protettrice delle partorienti, cadeva nel mese di luglio.

Il parto nella cultura tradizionale conservava una connotazione magica e divina. La nascita di una creatura era accompagnata da pratiche magiche tese a creare per essa una protezione e a procurarsi sicuri auspici. Nella società rurale tradizionale il parto avveniva in famiglia. Le donne, non solo quelle che abitavano nelle sperdute masserie di campagna, davano alla luce i loro piccoli in casa con l’assistenza della mammana. La casa, in cui si nasceva si viveva si soffriva e si provavano le poche gioie della vita, era essa stessa permeata di sacralità. L’evento fino agli anni Sessanta era gestito da sole donne. Alle prime doglie accorrevano le vicine e le comari, che facevano a gara per offrire il proprio contributo di esperienze. Nella camera, con la partoriente però entravano soltanto quattro donne: la madre, la suocera, la prima cognata sposata e la mammana, cioè la levatrice casalinga. Solo se la donna era al primo parto, era concessa la partecipazione anche alla comare d’anello, perché a lei toccava tenere a battesimo (tené ngimm’a re brazze) il primo figlio per diventare comare di San Giovanni. La mammana aveva il ruolo della persona esperta, ma che non disdegnava l’aiuto delle altre tre donne presenti: “Tutte stavano lì per aiutare la levatrice, ma una mano ce la mettevano pure la Madonna e Sant’Anna!” riferisce una testimone. Per la giovane sposa il parto era il momento più traumatico, e non solo sotto l’aspetto fisiologico; per la prima volta ella viveva un’esperienza individuale sotto gli occhi di persone estranee. Della sua famiglia di origine solo alla madre era permesso di assistere.

Ma il parto era anche un momento nodale del vivere in comunità, uno dei tre momenti cruciali dell’esistenza di un uomo, che una volta nasce, una volta si sposa (si sposava), una volta muore. L’evento rinsaldava i legami di parentela all’interno della famiglia patriarcale. La presenza della suocera e della madre insieme, le due nonne, era altamente significativa: esse stavano lì ad accogliere per prime il comune nipote, che avrebbe garantito la continuità generazionale dei due casati uniti. Ma l’aspettativa della suocera era ancora più motivata: la creatura, se femminuccia, avrebbe portato il suo nome. La presenza della cognata, che doveva essere già sposata e madre di figli, una componente cioè della tradizionale famiglia patriarcale nella quale finora la partoriente era stata un’estranea, assumeva un altro significato: essa doveva garantire il vincolo con la partoriente (della stessa generazione), una volta venuti meno i genitori, sicché i cugini erano chiamati fraticucìni e sorecucìne, fratelli-cugini e sorelle-cugine. Cancellato il senso di mistero e disdegnata ogni forma di ritualità magica, oggi il parto è diventato un evento che si consuma nella solitudine di una fredda sala parto, privo del calore della famiglia, lontano dalla propria comunità.

Fino ad alcuni decenni addietro esisteva il rituale della rosa: nell’ideologia popolare si stabiliva una corrispondenza tra il fiore e l’utero. Alle prime avvisaglie delle doglie (la fonte è di Montella), si metteva in un recipiente con l’acqua un bocciolo (la rosa ri Sant’Anna), che veniva offerto alla partoriente dalla comare d’anello: man mano che i petali si aprivano, così si apriva anche la strada alla creatura. Nel travaglio del parto la partoriente si liberava dell’anello, si toglieva la collana, si scioglieva ogni laccio e ogni nodo (Mirabella), nella convinzione che nodi e lacci impedissero la nascita trattenendo il bambino legato al grembo materno. C’era pure chi provvedeva a sciogliere i nodi della fodera del guanciale. Il rituale speciale era basato sul principio mimetico: lo squarcio provocato agevolava l’apertura del collo uterino.

In caso di ritardo del parto si ricorreva, oltre che all’esperienza della mammana, alla protezione soprannaturale. E se Sant’Aniello è il protettore del periodo di gravidanza, la santa che protegge il parto è Sant’Anna, in virtù del fatto che è la madre della Vergine. Se il travaglio si presenta difficile, cosa che accade soprattutto a chi è primaròla (cioè, primipara), dopo aver sopportato per tutta la notte le urla della moglie in preda ai dolori di parto, all’alba il marito correva alla cappella di Sant’Anna, scioglieva la campana e suonava nove tocchi (tanti, quante erano state le lune della gravidanza), per aiutare la (Vieni Sant’Anna benedetta, vieni che t’aspetto, vieni con Maria, che conosce la strada di casa mia). La partoriente non doveva stendersi sul letto, dove i dolori andavano e venivano e tendevano a placarsi, ma doveva stare in piedi e camminare nella camera, fino a che si sentiva spezzà lu culuruzzu, spezzarsi il fondo schiena (fonte di Bagnoli). Varie testimoni raccontano di essere state costrette dalla levatrice (mammana o vammàna) a salire e a scendere le scale di casa, fino ad avere il fiatone. Se nasceva una femminuccia, la zia le poneva sull’inguine un pizzico di zucchero, per accendere in lei il desiderio dell’amore. Altre fonti affermano che il gesto rituale, propiziatorio della fecondità, veniva praticato per attirare nella pubertà il maschio col sapore del dolce.

A quei tempi l’aspettativa di tutti, comprese le donne, era l’arrivo di figli maschi: “Salut’e ffigli masculi!” era l’augurio che frequentemente si rivolgeva agli sposi e alle donne gravide. Il maschio, tra l’altro, garantiva il ritorno periodico del nome che si trasmetteva da nonno a nipote, un altro modo di assicurare la continuità della stirpe. Se a venire al mondo era un maschio, il primo figlio maschio, allora la suocera, che aveva diritto di partecipare al parto, usciva dalla stanza della puerpera e annunziava alla famiglia la buona notizia così (Montoro Superiore): E’ nato ‘o cèrmete d’’a casa nosta! (E’ nata la trave che sosterrà questa casa!). L’insofferenza per la venuta al mondo di una femminuccia è testimoniata anche dai detti proverbiali, come: “Se mette la nuttata persa e la figlia femmena. (Al sonno perso si è aggiunto anche l’arrivo di una figlia femmina)” Comunque, è vero che la nascita di una femminuccia obbligava i genitori a pensare subito al suo corredo: Fémmena ca nasci, prepara la cascia! (Quando femmina nasce, prepara la cassa per il corredo!). A Nusco quando nasceva un maschietto, era antica tradizione donargli sei oggettini d’oro (un corno, un crocifisso, un paio di forbicine, un cuoricino, un’ancora e una falce), come difesa magica. A Mirabella, invece, al neonato maschio donavano un campanellino d’oro (“L’oro… si applica ai bambini per rendere meno nocivi i malefici eventualmente diretti contro di loro”, Plinio il Vecchio, V, p. 57) o d’argento; in mancanza gli portavano un campanaccio di una mucca o di una capra. Alla femminuccia regalavano un mazzetto di cinque oggetti apotropaici, elevati ad amuleti: un’ancora, un piccolo corno, un crocefisso, le forbicine e un cuoricino che si apriva. Poveretta, in una società maschilista ne aveva proprio bisogno!

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Sant’Anna e i riti propiziatori, di Aniello Russo – Il Corriere 24.07.2011

                                                                                                       

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