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La magia del grano e riti nuziali

09.06.2011, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 05.06.2011)

VIAGGIO NELLA TRADIZIONE – Le credenze legate all’usanza della panificazione.

La panificazione tradizionale prevedeva un lungo lavoro di preparazione. Anzitutto la massaia andava al mulino a macinare la quantità di grano sufficiente per una fatta r’ pane (infornata di pane), che durava in media due settimane. Tornata a casa, setacciava la farina per eliminare la crusca che si conservava per l’impasto delle galline. La farina ottenuta veniva riposta nella madia (matrèlla) e divisa in due mucchi, lasciando un po’ di spazio al centro in cui posare il lievito casalingo (criscènte). Poi la donna copriva il lievito con la farina, su cui con il pollice tracciava una larga croce.
Durante la notte, verso le due o le tre, il fornaio faceva il giro delle clienti prenotate. Nella settimana che precedeva la festività di Sant’Antonio da Padova (13 giugno), protettore del fuoco (per cui in quei giorni c’era il rischio che il forno andasse a fuoco o che si bruciasse il pane), la sveglia capitava all’una di notte, perché il fornaio infornava anche tre volte al giorno. Il fornaio, dunque, fornito di lanterna o impugnando un tizzone acceso (questo prima dell’arrivo della luce elettrica) passava di strada in strada e chiamava la cliente così: “Azete e ammàssa! (Alzati e ammassa!) e si allontanava solo quando vedeva accendersi il lume di una candela in casa. La donna si alzava, accendeva il fuoco nel camino e metteva a bollire l’acqua in una pentola, aggiungendovi un pugno di sale.
Una volta sciolto il sale, aspettava che l’acqua diventasse tiepida. Poi prendeva il lievito dalla madia e lo scioglieva sbriciolandolo nell’acqua salata. Quindi gettava il tutto sulla farina della madia e incominciava a impastare (prima di impastare la farina, la massaia si segnava tre volte), fino a che diventava un impasto omogeneo. Ne staccava poi un pezzo alla volta e lo impastava di nuovo su un asse di legno liscio (tumpàgno). Stendeva una tovaglia bianca in un cesto e vi poneva tutto l’impasto su cui tracciava una croce, poi annodava i quattro lembi della tovaglia in modo che crescendo l’impasto non tracimasse. Infine copriva l’impasto con una coperta.
Se era d’inverno e faceva freddo, accostava il cesto alle fiamme del camino, badando a girarlo di tanto in tanto perché tutto l’impasto prendesse calore da ogni parte e lievitasse in modo omogeneo. Dopo aver cucinato tre tipi di pizza: pizza fressola (frittelle) per i piccoli, pizza cu la prummaròla (pizza col pomodoro) e pizza cu agliu e réghena (pizza con aglio e origano), le donne preparavano tre tipi di pane: le pizze, forme di pane schiacciate che si mangiavano nei primi giorni; re panèdde, grosse forme di pane rotonde che si consumavano fino alla successiva panificazione, e li fresìddi (fresélle), piccole forme di pane biscottato, che andava ammorbidito nell’acqua prima di mangiarlo. Questi ultimi erano anche pane di riserva, nel caso in cui, per degli imprevisti, si rinviava la successiva panificazione (Bagnoli).
Dopo circa un’ora, era ancora notte fonda (verso le tre o le quattro), la donna si caricava il cesto sul capo e usciva di casa. Giunta al forno, staccava una parte dell’impasto dividendola in sei o sette porzioni, che poi stendeva su un asse. E faceva le pizze di spessore sottile, che andavano infornate prima delle panelle. La donna con un coltello incideva una croce su ogni forma di pane. Pure il fornaio, all’atto di infornare si poneva di fronte alla bocca del forno e tracciava in aria una croce, recitando la breve formula propiziatoria (Baiano):
Crisci, furno,
crisci, pane,
pe’ tutt’’o munno.
(Cresci, forno, cresca il pane per tutto il mondo).
Infornate le pizze, il fornaio chiudeva la bocca del forno con una lastra di lamiera. Ma di tanto in tanto dava un’occhiata all’interno attraverso la bocca più piccola e infilava nuova legna per mantenere vivo il fuoco. Quando le vedeva belle rosate, significava che erano giunte al punto giusto di cottura. Allora apriva il forno e con la lunga pala cacciava le pizze a una a una. Poi infornava le panelle, più grosse e più doppie, ficcandole in fondo al forno, mentre più vicino alla bocca poneva il pane biscottato perché veniva tolto per primo. Una volta cotto il pane biscottato veniva portato sulla soffitta del forno, detto “cielo” (cielu r’ lu furnu), dove restava al caldo ancora a lungo, finendo di cuocere. Il pane biscottato era più leggero e più digeribile. I medici lo consigliavano ai bambini e agli ammalati, sciolto nel latte o nel brodo. Poi il fornaio cavava dal forno le panelle, che venivano poste nella cesta e coperte con la tovaglia. La donna si sollevava la cesta sul capo e faceva ritorno a casa.
Le magie del grano e della farina
Le testimonianze raccolte sul territorio irpino documentano la virtù propiziatoria e il valore apotropaico del grano e della farina, cioè esaltano la funzione del pane, ritenuto un amuleto di difesa dal male che era perpetrato tramite malocchi e fatture.
Il venerdì era un giorno ritenuto sacro, perché era stato il giorno della Passione e della morte di Cristo. Per questo un tempo era proibita ogni manifestazione di gioia e di spensieratezza; soprattutto era vietato ridere: Chi riru ru viernurì chiange ru sàbbutu, ru rumenuca e ru lunnurì (Nusco). Al venerdì sono legati altri divieti: le donne non si devono pettinare, né devono spazzare in casa; in compenso, però, questo giorno è il più indicato per impastare il pane. E lo confermano varie testimonianze (Lioni, Cassano, Montoro):
Malerétta quedda trézza
ca re viernerì se ntrézza
benerìtto quedde pane
ca re viernerì se mpasta.
(Maledetta quella treccia che di venerdì si intreccia, benedetto, invece, il pane che di venerdì si impasta).
Di venerdì si può impastare il pane, perché quando si inforna il giorno dopo, che è sabato, lieviterà bene, così come Gesù risorse e si innalzò fino al cielo.
Scambi di doni rituali tra fidanzati
Il grano e la farina erano elementi inscindibili da quel fondamentale rito di passaggio che era il matrimonio. Anche nello scambio di questi doni tra due fidanzati, che aveva la connotazione di rito propiziatorio da tutti onorato in occasioni legate a ricorrenze sacre (come la Pasqua), non è difficile individuare la sopravvivenza di elementi magici.
Interessante a tale proposito è un rituale di natura mimetica, praticato a Nusco, la nférta (dal latino, infercio, che significa riempire, ma anche ingravidare). La nferta è un rito magico di fecondità a imitazione della terra fertile.
Il sabato Santo, il fidanzato doveva offrire alla sua innamorata un cartoccio pieno di nocelle e di semi di grano. Il giorno di Pasqua, l’innamorata ricambiava il dono con l’offerta di una ciambella (tòrtunu), preparata con farina di frumento dalle sue stesse mani. Ma il ragazzo non avrebbe dovuto consumare tutta la ciambella, bensì mangiarne tre quarti e restituire la quarta all’innamorata. Poi, la domenica successiva, che era la domenica d’Albis, i due fidanzati avrebbero mangiato insieme il pezzo rimasto della ciambella.
La nferta è chiaramente un rito propiziatorio, e lo testimonia il dono dei chicchi di grano che simboleggiano i germi della vita; mentre il tortunu ha una simbologia fin troppo evidente: al pari dell’anello, la ciambella agisce come catena spirituale, e questo appartiene a un cerimoniale pagano.
Nella stessa festività pasquale, a Morra De Sanctis si celebrava un rituale simile: il fidanzato mandava la sua prima sorella in casa dell’amata con un rametto di palma benedetta infilata in un anellino d’oro. In cambio lui riceveva una pizza. Ma ne doveva staccare una parte e rimandarla all’innamorata.
Rituale dello sposalizio
All’uscita dalla chiesa gli sposi venivano accolti con lanci di chicchi di frumento, che riproducono un antico rito di fertilità e insieme un rito di esorcizzazione dei mali; gridavano gli invitati (Vallo di Lauro): Co sto grano puozze unnià comm’a lu mare (Con questo grano possiate essere ricchi come il mare!).

Il rito d’accoglienza della sposa.
Il grano e la farina costituiscono gli elementi essenziali anche nel rito legato alla cerimonia nuziale, nel rito dell’ingresso della sposa in casa del marito, residuo di una cerimonia arcaica: la sposa riceveva addosso la farina gettata dalla suocera; il gesto consacrava la sua entrata in casa e l’ammissione nella famiglia patriarcale del marito (Solofra, Villamaina ecc.). Invece, a Montella la madre dello sposo, aspettava la sposa tenendo in mano due piatti, uno colmo di grano, l’altro di farina: il grano lo versava addosso alla sposa, la farina la lanciava in aria; poi frantumava sul pavimento i due piatti. Se i piatti si rompevano era buon segno, altrimenti era presagio poco buono. La rottura dei due piatti è un gesto rituale, a significare che in quei piatti non mangerà nessun altro, se non gli sposi.
Insomma il gesto augurale era a sigillo della fedeltà di entrambi. Il grano e la farina erano considerati di buon auspicio per la coppia di sposi, in quanto simboleggiano il seme del maschio. L’espressione irpina: fà la farina rinvia alla macina del mulino, che era metafora dell’atto sessuale; e tutto il rito era teso ad augurare una prole numerosa.
A Nusco il rito propiziatorio era accompagnato dalle parole: Tannu si pòzza scucchià  stu matrimoniu, quannu si tornune a gnongi stu grastu! (Allora si romperà questa unione, quando si riattaccheranno questi cocci!).

Riti della prima notte
E arrivava finalmente la notte in cui per la prima volta i due innamorati potevano stare insieme. Poiché erano state rare e furtive le occasioni di contatto durante il fidanzamento, ne conseguiva che la prima notte erano tutt’e due i ragazzi carichi di una tensione tale che spesso si comprometteva il compimento del rito della deflorazione. E la mattina successiva lo sconforto e la disperazione prendeva le due suocere di fronte alla mancata presentazione del fazzoletto macchiato di sangue. L’una segretamente preoccupata per il sospetto che la figlia non sia integra, l’altra in cuor suo in ansia per la mancata prova di potenza sessuale del figlio.
Il momento era delicato, vulnerabile al malocchio e alle fatture. Per l’esito positivo della prima notte di nozze, le madri degli sposi mettevano in atto i rituali magici che propiziavano la fecondità dell’una e la virilità dell’altro. Ponevano sotto il cuscino di lei sei acini di grano e tre pizzichi di sale; e disponevano sotto il letto matrimoniale, in corrispondenza del posto occupato dal maschio, uno o più oggetti apotropaici, abilitati a tenere lontano gli influssi malefici; il più comune era una falce messoria (fàvici p’ mmète) con la punta volta verso l’alto, a cui si attribuiva la proprietà di squarciare il flusso maligno degli invidiosi. Era una controffensiva, una specie di controfattura, il cui meccanismo tende a deviare l’energia del sortilegio su un altro bersaglio.
In Alta Irpinia si conserva ancora memoria di quest’altro espediente: si metteva sotto il letto un vomere, che ha la duplice funzione di oggetto apotropaico e di simbolo di fertilità legato al grano; oppure, al posto del vomere, si poneva la zappa, simbolo sessuale maschile, che penetra nella terra, simbolo sessuale femminile…
Una fonte dell’area baianese rivela che un tempo la donna sposata e non ancora gravida, dopo essersi accoppiata con il marito, si recava in piena campagna ed esponeva gli organi genitali ai raggi del sole quando era a picco nel cielo.
E questo perché il sole, penetrando nel suo grembo assieme al seme del marito, potesse fecondarla. Proprio come il sole fa con col grano, che ha pure lui un ciclo quasi umano di nove mesi; nell’immaginario collettivo, infatti, la terra era vista alla stregua di un corpo femminile: nove mesi per la maturazione del grano (ottobre-giugno), nove mesi anche per portare a termine una gravidanza.

(testo tratto da L’immaginario collettivo)

                                                                                                       

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