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Perché non possiamo essere amici dei nostri figli

02.06.2011, Il Corriere delle Sera (di Paolo Fallai)

Eppure, dei nostri figli, non possiamo essere amici. Resta questo alla fine della lunga traversata compiuta dai padri, dal deserto dei rapporti di un tempo, all’affettività giocosa cercata e trovata oggi. Perché quel deserto i quaranta/cinquantenni di oggi – anno più, anno meno – hanno fatto in tempo a viverlo sulla propria pelle, ultimi testimoni di quella sclerosi dei ruoli che affidava alla madre la fisicità degli abbracci e ai maschi l’episodica durezza dell’autorità.

Frantumate le coppie, qualcuno ha dovuto fare i conti col fatto che smettere di essere marito e moglie non prevedeva anche di abdicare al ruolo di genitore. Ma certo andava reinventato. Qualcuno, è bene ripetere: perché per molti la fuga maschile mascherata per anni dietro al lavoro “esterno” all’ambiente familiare, è stata solo riciclata in “fuga” e basta. Col risultato che le crescenti conquiste femminili in termini di affermazione professionale, lavorativa, sociale, sono andate di pari passo con l’aumento del carico genitoriale: non solo e non più solo la parte affettiva, anche quella parte di “autorevolezza” è stata richiesta alle donne, sdoppiando, triplicando le parti in commedia da dover recitare. Senza orario.

Ma qui interessa riflettere, per un attimo, sui padri che hanno consapevolmente scelto di andare ad sperimentare anche il campo dell’affettività, del gioco, del divertimento. In queste stanze, all’improvviso, lo smarrimento di fronte a una nuova femminilità così difficile da interpretare e all’eterna allergia per un confronto alla pari, è sembrato trovare pace. La stagione dei “mammi” è sembrata una liberazione: ecco, ci siamo detti, non riuscirò a capire le inquietudini della mia donna, ma almeno recupero un terreno inesplorato con i figli. Un sollievo che è durato poco: specialmente per i padri separati. Il gioco dei bambini è semplice e lineare: crescono spingendo in avanti il limite delle loro provocazioni. Verificano ogni momento quanto si possono permettere e quanto viene loro permesso. Non c’è nessun carattere, nessun merito e tanto meno demerito in questo, è solo una lotta senza tregua per formare la propria personalità.

Le madri lo sanno da sempre: per loro dire “no” per aiutarli a crescere è un assioma, non mette mai in discussione il loro amore ed è pratica di ogni giorno. Ma per i padri?

E soprattutto per i padri che non vivono più la quotidianità dei figli? La tentazione di mollare è fortissima: la voglia di compiacerli per strappare un sorriso è lacerante almeno quanto la lontananza. Ma cedere significa abdicare – questa volta definitivamente –, offrire loro un dispetto egoista e scaricare in modo violento sulle madri un carico di responsabilità molto duro da gestire in solitudine.

E’ così che, alla fine di questo lungo giro, ci si ritrova a dover ricominciare a dire “no”: per il sollievo dei figli, che finalmente davanti a un confine possono poggiare la loro crescita sulla solidità di un riferimento; per la condivisione che padri e madri non possono smettere di avere; e per se stessi.

Si perdoni la banalità (ma chi la esprime porta sulle spalle generazioni e generazioni di uomini incapaci perfino di confessare l’affettività):

l’amore per i figli non ha condizioni, ma diluirlo in una melassa di indulgenza ipocrita è una sconfitta per tutti. Non possiamo essere amici, padri e figli è già molto di più.

                                                                                                       

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