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Empire. 80 anni da icona per caso

01.05.2011, di Arturo Cocchi (La Repubblica)

Il grattacielo-simbolo della Grande Mela fu inaugurato il 1° maggio 1931. E’ stato il più alto del mondo per 40 anni. Ed è diventato un simbolo.

Ottant’anni vissuti da simbolo di una metropoli, di un Paese e di un modo di fare e di vedere le cose in grande. Un’icona americana, l’Empire State Building, che aveva resistito perfino alla nascita delle Torri Gemelle che a 40 anni dalla nascita lo avevano soppiantato, più alte e possenti, ancor più “città nella città” con la loro capacità di ospitare 50mila lavoratori, ma meno affascinanti, meno belle, lontane comunque dal cuore dl Manhattan, dalla 5th avenue. Destinate, semmai, a diventare simbolo postumo, dopo la tragedia dell’11 settembre: così imponenti, marziali prima, così vulnerabili poi.

Il grattacielo che è stato il più alto del pianeta e che dopo l’attentato del 2001 è tornato ad essere il tetto della Grande Mela spegne le 80 candeline il 1° maggio. In quel giorno del 1931, un presidente Usa, il non memorabile Herbert Hoover, schiacciò simbolicamente un bottone da Washington, mentre il figlio del governatore della città fisicamente apriva l’edificio. Il colosso era stato costruito a tempo di record: 14 mesi. I lavori erano cominciare, a ricordare le radici irish della città, il 17 marzo, giorno di San Patrizio, del 1930. Le ruspe sul sito erano arrivate 2 mesi prima.

Curiosamente, uno dei primi eventi per cui la torre fu scelta come testimonial luminoso fu proprio la sconfitta dello stesso Hoover, battuto nel novembre del 1932 da Franklin Delano Roosvelt. Ma il destino mediatico del grattacielo per antonomasia era segnato dalla sua forma inconfondibile, con la grande scanalatura centrale e l’antenna, a voler quasi dare slancio gotico a una struttura che comunque non poteva, e non voleva, nascondere le sue misure. Da lì a poco (1933) arrivò il primo King Kong, con la scena finale del mostro che duella con gli aerei, poi replicata sul World Trade Center nel remake del 1975. Pensato e portato a termine quando la maratona urbanistica che stava rapidamente portando New York a sopravanzare le capitali europee, simbolo di un Paese che aveva bruciato le tappe e si ergeva, tra le due guerre, a prima potenza mondiale, l’Empire è l’emblema della rincorsa.

Il disegno è opera William F. Lamb, dello Studio Shreve, Lamb and Harmon. L’architetto impiegò appena due settimane a completare gli schizzi, ispirandosi a un suo precedente progetto, il Reynolds Building di Winston Salem, e alla Carew Tower di Cincinnati. I due antenati misuravano rispettivamente 20 e 50 piani, a testimonianza di quanto la Grande Mela andasse di fretta. Chi si sofferma un momento sullo skyline di Manhattan percepisce la frenesia di quegli anni: balza subito agli occhi l’evoluzione, anche formale: la casa multipiano si trasforma in un palazzone, alto come molti grattacieli europei di oggi ma non ancora sviluppato in verticale. E infine lo skyscrper. Tutto in 3-4-5 lustri. Scenario visibile a New York e Chicago ma non nelle altre metropoli americane, cresicute negli anni più recenti: lì a Dallas come a Denver, il downtown con edifici da 50 piani nasce all’improvviso, su una periferia di villette e prefabbricati rasoterra.

Si pensi, tornando a quegli anni tra le due guerre, che al momento della posa della prima pietra dell’Empire, altri 2 edifici, già  in costruzione, erano in odore di record mondiale di statura, quasi erano nati apposta. Ma sia il 40 Wall Street che il Chrysler Building fallirono l’obiettivo per colpa dell’ultimo arrivato. Ufficialmente il Chrysler, che aveva superato nientemeno che la Torre Eiffel, ha detenuto il primato per un anno. In realtà, per buona parte del periodo, il futuro campione lo ha guardato dall’alto, seppure incompleto, dall’angolo tra la 5th avenue e la 34ma strada.

Negli anni Trenta, l’Empire, con i suoi 381 metri (che diventano 443 con l’antenna) e la sua base imponente, dominava lo skyline in tutti i sensi. All’interno i numeri non erano da meno. I 102 piani, i 23mila addetti che poteva ospitare, le 340mila tonnellate di peso, i 113 chilometri di tubi idrici e i 760 di filo elettrico, i 76 ascensori, sono numeri da brivido ancora oggi. Ma rischiò di nascere nel momento sbagliato: il gigantismo infatti, stava facendo i conti con la Grande Depressione, e il costo non esorbitante rispetto alla portata dell’opera (41 milioni di dollari) non era sufficientemente basso da sostenere la grande crisi.

Destinato a ospitare uffici, e una forza lavoro di oltre 20mila persone, rimase a lungo semideserto, complice anche la 2a guerra mondiale, cominciò a “ripagarsi” nel 1950. Ma nel frattempo era già diventato leggenda, immortalato da Hollywood e dalle cartoline che ritraevano le grandi navi di linea europee e americane all’ingresso della Baia dell’Hudson dominata dall’inconfondibile struttura Art Deco. Che nel frattempo veniva aggiornata, riveduta e corretta, acquisendo via via illuminazioni esterne per effetti scenografici in notturna, decorazioni interne e dotazioni turistiche, come i due belvedere, situati all’86mo e al 102mo piano, che offrono vedute a 360 gradi su Manhattan; o in alternativa, il New York Skyride, che al coperto offre una simulazione virtuale della vista aerea sulla metropoli.

Assieme alle attrazioni turistiche, negli ultimi anni si sono moltiplicati gli eventi che hanno trasformato l’Empire in strumento mediatico, capace di veicolare e comunicare messaggi e pubblicità. Le luci che di notte illuminano il grattacielo vengono di volta in volta utilizzate per creare disegni, e loghi a soggetto, in occasione di celebrazioni o ricorrenze: dall’80mo compleanno di Frank Sinatra al Royal Wedding di William e Kate, dalla colorazione bianco-rosso-blu della bandiera Usa, tenuta per diversi mesi dopo l’attentato dell’11 settembre, a quella che ricorda di volta in volta, i colori dell’azienda informatica che ha appena lanciato un software o quelli del logo dello Us Open di tennis.

Il primato più prestigioso, quello di edificio più alto, fu sottratto all’Empire una prima volta nel 1967 dalla Ostankino, torre televisiva di Mosca. Limitando la competizione agli edifici abitabili, lo scettro cadde nel 1973, ad opera della Torre Nord del World Trade Center, poi superato dalla Sears (oggi Willis) di Chicago. Poi arrivarono i giganti asiatici, prima Kuala Lumpur, poi via via Shanghai, Taiwan, Hong Kong, fino all’exploit di Dubai, con il Burj Khalifa che ha quasi doppiato la concorrenza. Ma il centro di gravità rimane l’Asia pacifica, che oggi piazza 7 grattacieli nella top ten. E’ tra Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e Nanijng, oggi, che il paesaggio urbano cambia a vista d’occhio. E’ là che la competizione a chi cresce di più si gioca a ritmi vertiginosi e a prezzi stracciati: se a Manhattan si potevano impiegare sottocosto emigranti italiani, polacchi e irlandesi, in cambio di un sogno americano che stentava a realizzarsi, oggi nel Pudong le maestranze cinesi producono in un contesto non ancora permeato di democrazia e di cultura del diritto del lavoro. Grandi potenze low cost.

All’Empire non resta che la palma di edificio più alto della Grande Mela. Seppure per poco. Lo One World Trade Center, che sta nascendo al posto delle Torri Gemelle, potrebbe essere completato, almeno nella struttura di base, a fine anno. A quel punto avrà sopravanzato il vecchio Empire di oltre 150 metri. Riportando un po’ d’America nella parte alta della classifica che tanto somiglia al ranking di chi al mondo conta di più. Ma senza per questo togliere charme all’Empire, straordinario esempio di icona (quasi) per caso.

                                                                                                       

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