Discorso sul discorso
22.08.2016, Articolo di Alejandro Di Giovanni (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2016, Anno X, n.3)
Si può prendere per buono il punto di vista del genio, che con le parole edificò se stesso e rinnovò la letteratura, e che alla fine naufragò nella disillusione senza ritorno, rinnegando proprio parole e scrittura, arrivando a concludere che “non c’era stato mai nulla da dire”.
Non è affatto una estremizzazione, ma l’approdo di chi vede non con l’occhio comune del comune mortale, quello di Rimbaud. Con occhio comune, potrei dire che il discorso pubblico, le parole che con tanta soddisfazione cerchiamo di mettere in fila, non portano da nessuna parte, non muovono nulla, sono il fragoroso gemito che con affanno cerca di riaffermare quotidianamente la nostra esistenza nella società, che niente edifica oramai da tempo: parole dette o scritte, inascoltate o incomprese, o nemmeno pensate o comprese da chi le proferisce.
Il discorso è messa in scena delle proprie idee, non più anche il terreno di confronto dal quale accingere o poter rivedere le proprie convinzioni, come poteva essere in passato. Non siamo disposti quasi mai a rivederci o rinnovarci, discorriamo ottusamente dal basso della nostra convinta ragione, che rende vana ogni forma di discussione e dibattito. Tra l’altro, la fine del fine nobile di costruzione attraverso il discorso, è messa in rilievo dalla caducità del nostro pensiero, che non cambia per acquisito progresso, ma solo per deviazioni di carattere affaristico o per emulativi modelli contemporanei infiocchettati dalla nostra inabilità intellettiva, che spinge orde di persone ad ammirare idioti senza arte ricoperti di tatuaggi e ricchezza materiale volgarmente esibita che della parola, appunto, nessun importante uso fanno o faranno.
Se penso a tutta la dialettica messa in opera da sempre, tutti gli sforzi di pensatori, filosofi, sociologi, intellettuali, artisti, se penso all’approdo odierno della società, al buio dell’etica e della ragione nel quale siamo piombati, credo che sì, tutto è stato ed è vano. Falliti i principi nobili dell’utilità pubblica del discorso, esso ha manifestato, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, il punto di vista del pensiero dominante, che poco o nulla lasciava ad alternativi modi di vedere ogni aspetto della società: il modo migliore, è quello del divo/merce che ci parla e ammalia dalla scatola parlante televisiva, pensare altrimenti equivarrebbe all’isolamento, e non fare parte della società è a dir poco tragico. Il discorso verbale e scritto lascia il passo alle immagini, che prima della parola già dominavano, ma sono immagini “da uno a tutti”, e ciò ha determinato una omologazione e un conformismo che oggi ancora pesano, nei discorsi convinti precedentemente descritti.
Se siamo arrivati fino a qui, al punto zero dell’umanità, non lo dobbiamo a qualche misterioso disegno castigatore divino, e nemmeno all’orchestrale macchina dei media, o al fallimento della politica, siamo arrivati qui perché abbiamo smesso di leggere, capire, comprendere, parlare, ascoltare, di mettere in discussione pensiero, posizioni e convinzioni.
Il discorso come confronto di idee, sembrerebbe ancora in grado di elevare lo spessore intellettivo rinsecchito della persona, in teoria, ma fallirebbe ancora per le inclinazioni precedentemente descritte che, riaffiorerebbero comunque, prima o poi. Il web, e in particolare i social media, squalificando dal discorso la grammatica, la sintassi e la punteggiatura, ha finito per creare un abissale entropia nella quale ogni pensiero è preso per buono, ogni idiota emerge e si esprime, ogni discorso autorizzato, e dove tutti si esprimono, c’è bisogno anche di una preparazione e di un senso critico che, dalla parte di chi legge e ascolta, assolutamente latitano, essendo l’internauta medio un analfabeta disfunzionale, che legge e ascolta ma non riesce a comprendere e afferrare del tutto, e non riesce nemmeno ad orientarsi nell’infinito discorso della rete mondiale (da qui, la creazione di movimenti politici bizzarri, convinzioni alimentari discutibili, estremizzazioni religiose…).
Senza bussola, senza filtri, siamo in balia del rumore frastornante e insignificante del mondo, che si parla addosso senza dire nulla. La parola, scritta e orale, è oramai squalificata, in un discorso oramai destrutturato e superato. L’inutilità sociale dello scrivere e del parlare, oramai sembra essere rivelata dalla chiusura mentale dell’uomo contemporaneo, sordo e cieco dinanzi a forme di apprendimento che possano mettere in discussione quelle che già precariamente e ottusamente possiede.
Se la pubblica utilità del discorso sembra irreversibilmente in crisi, il pensiero intimo e personale, l’introspezione come viaggio alla scoperta del sé e dell’io più profondo, attraversa una crisi altrettanto profonda, essendo stato privato da quei momenti che tanto lo propiziavano, quelli della solitudine. Perdendo questa, perdiamo la conoscenza del noi e di tutto quello che ci circonda, perdendo la riflessione che solo un momento di solitudine può costruire. Non siamo quasi mai soli, ma sempre connessi e immersi in una intelligenza collettiva e connettiva che, con le sue preoccupazioni e prerogative, ci priva di molti momenti di intimità, rispetto al passato. Restare soli con noi stessi, è sempre più raro e difficile.
La fretta della società non permette pause o riflessioni e, aggiungerei, nemmeno profonde comprensioni. Se non c’è stato mai nulla da dire, allora non c’è stato mai nulla da capire: per quanti sforzi possa fare un pensatore che tramuta in discorso i suoi pensieri, egli non avrà mai la sensazione di essere capito e compreso totalmente, e nemmeno quella di capirci pienamente qualcosa quando pensa e scrive.
La prerogativa attuale sembra quella di voler fuggire dagli altri e da se stessi, così la parola lascia il posto a pratiche nuove che non rappresentano nessuna forma di socializzazione, né ne realizzano una di riflessione introspettiva di profondo pensiero: la ricerca dei Pokémon o i Silent party, insieme a tante altre, non ne confermano che la spiccata tendenza. La gente non ha nulla da dire, e nemmeno sarebbe disposta a starsene lì ad ascoltare o leggere per sapere cose che nulla c’entrano con i suoi affari o interessi: l’oralità e la scrittura cedono il passo a riti che si fondano su altri paradigmi, perlopiù evasivi e ludici.