La satira brillante di Giulio Acciano
11.12.2017, Articolo di Paolo Speranza (da Il Quotidiano del Sud)
Alla riscoperta del poeta di Bagnoli del XVII secolo raccontò la sua terra con toni lontani dalla retorica.
Il paesaggio rigoglioso e incontaminato che si poteva ammirare, dal castello di Bagnoli Irpino, ispirò naturalier – al di là della riconoscenza di prammatica che nella letteratura di corte era indirizzata con enfasi al signore o al sovrano – i poeti e pittori giunti dalla capitale in quella autentica corte rinascimentale che il Cavaniglia (al pari dei feudatari di Avellino del Cinquecento, come Maria de Cardona e Marino I Caracciolo) aveva saputo creare nel cuore della Campania.
Si trattò di una stagione culturale straordinaria ed irripetibile. Tocca agli storici dell’età moderna la disamina delle cause di un graduale declino di quella “Irpinia felix” (a cui certo non possono essere estranei i rigori della denominazione spagnola – rispetto alla libertà dei sovrani d’Aragona. E della controriforma); fatto sta che il passaggio umano di Bagnoli appare profondamente mutato agli occhi dei letterati dei secoli successivi, a partire da quello più interessante di tutti, e – a ben vedere. Ancora piuttosto misconosciuto e sottovalutato nella sua Irpina: Giulio Acciano.
Nato nell’odierna Bagnoli Irpino nel 1651, Acciano- come tanti intellettuali del Principato Ultra- si affermò come avvocato a Napoli, dove si fece apprezzare anche per le prime prove di letterato. La prematura scomparsa (morì nella capitale, appena trentenne, nel 1681) impedì il pieno sviluppo di una vocazione poetica precocissima e fertile, moderna e briosa rispetto a tante pedanteria retorica del secolo in cui visse.
Ad attestarlo, oltre agli studiosi del tempo, è la considerazione diffusa che le opere di Giulio Acciano godono presso i critici letterari contemporanei.
I suoi versi, pubblicati nel volume “Poesia del Seicento” del fondamentale Parnaso Italiano sono ripresi anche in un’importante e gradevolissima antologia edita da Einaudi: così per gioco. Sette secoli di poesia giocosa, parodia e satirica, a cura di Guido Davico Bonomo, che presenta con note decisamente positive questo brillante poeta irpino: “Traferitosi come giovane avvocato a Napoli (doveva morirvi trentenne nel 1681), Acciano non tardò a sfogare la sua stizza contro le angustie del paesello: i suoi undici capitoli in rima, che circolarono manoscritti, piacquero molto nell’ambiente letterario, e gli valsero, meritatamente, la fama di promettente poeta satirico”.
Di questi capitoli riportiamo qualcuno dei passi più incisivi e, al tempo stesso, più vicini per immagini e linguaggio alla sensibilità dei nostri tempi.
Notevole, ad esempio, è l’incipit sul clima ed il paesaggio, con toni ben diversi rispetto agli scenari placidamente bucolici dell’Arcadia del Sannazzaro:
Io mi sto in un paese or ch’è d’estate, che oggi vi parrà caldo come un forno, e dimani vi cascon le gelate. Qui mai non spunta il sol capo adorno di propri raggi, ma sol porta quelli infausti che hanno le comete intorno, qui sul mattin di vaghi e lieti augelli voci non senti salutar l’aurora, ma gufi maledetti o pipistrelli; zefiro qui non spira e placida ora, né l’verde manto a la gran madre antica pensier di ricamar di piglia Flora.
Non è qui il momento, né il caso, di discutere se sia troppo costruit e retorica la poesia del Sannazzaro o risulti, al contrario, decisamente aspra ed astiosa la pagina dell’Acciano. Nell’uno e nell’altro caso non va dimenticato che di opere di finzione letteraria si tratta, e che, relativamente ai versi dell’Acciano, la satira è eccesiva per necessità e definizione.
Per questo, a prescindere dalla sua “attendibilità storica”, del poeta bagnolese vanno ammirati lo stile brillante (soprattutto, va ribadito, alla luce della sua giovane età e degli “standard” linguistici dell’epoca) e la scelta caustica delle immagini e delle citazioni letterarie, che tocca il culmine nella descrizione dell’ambiente umano del paese natio.
La gente, che qui meco alberga e stanza è d’una razza mobile e bizzarra, che la vuol con Orlando a spada e lanza. Ognuno porta addosso una zimarra, ognuno fa del bravo, e par che voglia a mille cavalier toglier la sbarra. In mirar sol la loro orrenda spoglia, tanto son mostacciuti e zazzaruti tremestre, per Dio, com’ una foglia. Se n’avessimo un pugno, il Ciel v’aiuti! Che non vi saneria manco Falloppio anzi vi fan cader con gli starnuti. Chi porta stile, chi coltel, chi scoppio, ( ma stile da ferir, on già da scrivere), chi semplice cannon doppio.
Come si vede, siamo ben oltre il “natio borgo selvaggio” di leopardiana memoria.
In alcuni versi, come quelli che vi presentiamo a conclusione di questo breve excursus sugli echi letterari di Bagnoli e del Cervialto nell’età moderna riecheggiano piuttosto i passi più celebri della lettera al Vettori scritta da Niccolò machiavelli dal confino di San Casciano, senza però il conforto di un esito “alto” e positivo delle sue giornate attraverso la lettura serale dei classici e lo studio scientifico del passato.
Le regole della satira, che il giovane Acciano padroneggia con ammirevole disinvoltura, non ammettono tentennamenti o contraddizioni. Coerenza vuole che essa si concluda con uno sberleffo, una stilettata, un colpo d’ala, o un invettiva memorabile, e Giulio Acciano sceglie l’ultima soluzione, per esprimere poeticamente tutto il livore verso un popolo, quello della sua Bagnoli, che egli rappresenta senza speranza e senza Dio.
Con questi dunque gloriosi eroi mela fo notte e di, con lor passaggio, con lor pranzo, merendo, e dormo poi. Sotto il difforme lor volto io non veggio cuor che non celi insidie e tradimenti e lasci il ben pel male, e il mal peggio. Se li tieni per amici e per parenti, per parenti e amico anch’essi t’hanno ma se fossero i petti trasparenti oh! Con quanto dolor, con quanto affanno scritti vedriansi in quest’empia canaglia i brutti tratti che ogni di ti fanno chi t’ama, è ne l’amorfoco di paglia, chi innanzi ti lodo, ti biasma dietro, chi ti bacia la ma, poi te la taglia. Senza spergiuroio giurerei San Pietro che qui il più dolce suono è quel col quale le campane accompagnano il feretro