Shock in my town …
28.08.2017, Articolo di Alejandro Di Giovanni (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2017, Anno XI, n.4)
… inflessione a margine di una rumorosa marginalità.
Ad ogni atto o azione che manifesta la propria volontà scritta o verbale di esercitare una critica pubblica, di sottoporsi quindi al giudizio di una collettività di persone, deve conseguire una reazione uguale e contraria di legittimo esercizio di critica, del singolo (o di gruppi) verso il manifesto scritto (o verbale) che li riguardava e che li rappresentava pubblicamente, quindi di apprezzamento e condivisione o di disprezzo e disaccordo.
Premesso ciò, bisogna prendere in considerazione altre componenti che riguardano la decodificazione dell’opera e delle intenzioni di chi le mette in scena per il pubblico, ciò che più o meno scrissi in un articolo esattamente un anno fa dal titolo “Discorso sul discorso”. Scrivere non è mai facile, comprendere sempre tutto è ancora più difficile. Si guarda spesso il dito che segue le parole, e spesso non si riesce a guardare sotto o dietro queste, delle intenzioni nemmeno troppo tacite, recondite e criptate. L’analisi feroce sul bagnolese, non nasce da un pregiudizio o da una strategica messa in opera politica foriera di interessi personali, è il grido (che dura da oltre dieci anni) di un ragazzo che vive qui, che si guarda attorno sgomento, che cerca con i mezzi che ha di scuotere e di denunciare, perché il suo grido di dolore è il grido di dolore smorzato e strozzato in gola del paese, di un paese in agonia che quel ragazzo mai vorrebbe vedere soppresso da disumanità, malvagità, ipocrisia, invidia ed egoismo. In realtà, la denuncia, articolo dopo articolo, anno dopo anno, ha lasciato il posto al necrologio precedentemente redatto.
Io adesso cercherei di comprendere più le realtà sottese a questo giudizio finale e alla rappresentazione sferzante dello stato di cose presenti, che alle provinciali e prevenute considerazioni di intenzioni su chi le scrive: se il focus si sposta su chi scrive, e non su cosa si scrive e si legge, allora si guarda il dito seguendo righe bianche. Scrivo di un paese umanamente in macerie, e sul paese bisognerebbe rimanere, si dovrebbe replicare stando sul pezzo, non buttando in mezzo il solito modo di fare fangoso e screditante, di insinuazioni surreali, vili e paradossali: io sono il problema solo se inquadrato in un problema più grande, ossia nel contesto in cui io mi muovo, penso, parlo e scrivo.
A seguito dell’articolo precedente, ho compreso che il distacco tra la realtà e la percezione che il bagnolese ha di questa e di se stesso, è più abissale di quanto non credessi, e che, in qualche modo, qualcuno deve, anche provocatoriamente, assumersi la responsabilità di mettere i bagnolesi di fronte a questa realtà oggettiva e alla versione reale di se stessi. Non sono mosso da nessun interesse diverso da quello che mi spinge a scrivere ancora, nonostante tutto, ossia quello del dovere civico che ogni volta mi sussurra, per una comunità (o, magari, società) più umana e vivibile, per un paese vivo che continui a vivere qui. Scrivo perché mi frega, ma potrebbe anche non fregarmene, e probabilmente sarà così, o in qualche modo ciò già è avvenuto in me, e magari scriverò come scrive chi non riesce a vedere più la sua vocazione, il suo precipuo sentire.
Allora le parole passeranno come passano le nuvole, e noi passeremo come passa la bella stagione e come passano le altre, ma il paese resterà qui, sempre qui, ancora qui, nonostante tutto, nonostante noi che, un tempo, consumavamo il tempo a pugnalarci e a difenderci insensatamente anziché vedere dove stavamo andando, anziché vedere chi eravamo davvero e a corregerci: quel paese sarà quello che lasceremo noi, qui e adesso. Allora è doveroso fare autoanalisi e autocritica, salvarci da noi stessi innanzitutto (primo e più grave pericolo), perché senza la comprensione della realtà che ci circonda e di noi stessi nessun progresso o processo evolutivo potrà innescarsi per il paese stesso, continueremo in questa regressione totale, verso un declino irreversibile. Se ciò che siamo e ciò che vi circonda vi appaga, ciò non vuol dire che tutto va bene; se ciò vi lascia quanto meno perplessi e sgomenti, preoccupati anche per il futuro, vuol dire che il grado di realismo ha raggiunto un livello quantomeno soddisfacente.
La nostra condizione, come ogni fenomeno da indagare, andrebbe inquadrata in un contesto più generale e alto, quello che riguarda la condizione generale dell’uomo contemporaneo post-moderno (non solo quindi di provincia come il nostro), perché in qualche modo noi siamo il frutto di questo tempo e delle sue bizzarre inclinazioni sociali, culturali e tecnologiche. Indubbiamente viviamo in un tempo dove tutto viene messo in discussione, soprattutto ciò che non dovrebbe. Venti fascisti spirano sul navigare del web, strumento che ha influenzato soprattutto in peggio il nostro modo di pensare in senso lato; schiere di trogloditi e medievali sette adesso sono favorite da questo, tra cospirazionisti e anti-vaccinisti, tra complottisti e anti-sistema, tra terrapiattisti e razzisti, tra rimedi magici e alieni, tra vegani e negazionisti, tra il falso abilitato a verità e grillini senza raziocino, tra la vanità e l’ego e la cultura della infondata paura continua, del sospetto irrazionale perpetuo: tutto il sapere è sovvertito e messo in discussione, con buona pace dei grandi pensatori e scienziati della storia. Diffidenza, sospetto e irrazionalità, l’uomo in balia è l’uomo frammentato, è il non-uomo, è la fine della ragione come epicentro esistenziale.
L’uomo bagnolese si muove col fardello continuo da sorreggere di questo post-tempo, che con la contemporanea sua condizione provinciale (di mentalità soprattutto), determina lo stato odierno di irrealizzabile messa a fuoco della sua stessa condizione-restrizione, o più semplicemente della comprensione di un articolo che cerca di fargli vedere oltre il proprio convinto naso.
In tutto ciò, sfugge anche un altro particolare rilevante: anche io sono un bagnolese post-moderno (con tutte le inclinazioni derivanti) che, con le proprie rumorose esternazioni marginali, emette fastidiose inflessioni per chi ne vuole attingere. Caso e fortuna fanno sì che non mi curi affatto degli eventuali fraintendimenti e incomprensioni, insinuazioni o ripercussioni: scrivere rappresenta solo un diversivo per non rimproverarmi di nulla, un modo per provare e per fallire.