Cervarolo:il tassello mancante
08.01.2011, di Angelo Mattia Rocco (articolo tratto da “Fuori dalla Rete”, anno IV n.1)
Ovviamente tutto avrebbe fatto pensare ad un addio o ad un lungo arrivederci con quel pianoro diventato un “simbolo” della nostra associazione, eppure ciò che resta dentro ad ogni momento è sempre pronto a riuscire per concretizzarsi e realizzarsi. Una domenica apparentemente tranquilla ma con l’accenno al nervosismo dell’aria e non solo; converrebbe date le premesse restare a casa, partecipare alla vita quotidiana che ormai da diverse “feste” manca, ma la montagna chiama, urla e non possiamo che ascoltarla.
La fontana della Tronola come al solito immagine fissa di un viaggio-ricordo mi riappare davanti e con il suo gocciolio sottile riempie le bottiglie che vi portiamo ogni volta e noi beviamo quell’acqua come un filtro, un elisir che ci proteggerà lungo il cammino. Il cielo umidissimo, le goccioline d’acqua si tramutano in sudore e solo di tanto in tanto la “nostra stella” fa capolino, ma quando si è già ad altezze rilevanti e sopratutto alla quota magica di 1100, su un altopiano a te noto è impossibile tirarsi indietro. Il cammino a differenza del solito non parte dal duro asfalto ma per ferma decisione del collega Walter si sosta dinanzi ai tavolini e alla fresca fontana del Campeggio Zauli, posto divenuto ormai familiare e dal sapore ormai antico. Gli alberi iniziano ad avere una “faccia” stanca, c’è già chi si fa la tinta e inizia a mostrare ciocche colorate vanitosamente, altri invece ostentano giovinezza e sopratutto potenza ma si percepisce che sono al calar della loro eccellenza. Le pietre della carraia diventano molto grigie, la luce cala, il bosco si infittisce e il sentiero come ovvio si perde tra i faggi mentre il vallone attraversato il martedì comincia a divenire tetro. Il caldo avvolge il bosco, lo riusciamo a vedere con gli occhi e sopratutto ci rendiamo conto di quando ci abbracci, ma non è una fusa amichevole. Dopo tutto però, la natura ti accoglie e ti respinge, bisogna saperla conoscere ed è necessario assecondarla e farvi amicizia e probabilmente le “lamentele” di un nostro amico disprezzante di rami e foglie non fanno altro che accentuare questo astio. I tornanti si inerpicano e la strada sembra sempre più coperta come se dall’alto qualcuno si fosse smosso i “capelli” che però vengono puliti più in alto dai più giovani che nella loro tenera età si raggruppano ai bordi della mulattiera per scherzare con noi. Ovviamente il tratto è come l’altra volta affascinante, l’unica acqua rimasta giù si nota come una piccola chiazza e Giamberardino ci saluta di nuovo volgendo a noi però lo sguardo torvo e nervoso. La luce è praticamente sorpassata dalla nuvolaglia e al fermarsi del caldo, il vento freddo ci raggiunge per sollevarci ma d’improvviso la pioggia ci prende di sorpresa. Il tempo cambia, l’autunno si assapora ancor di più e finalmente proviamo le attrezzature di emergenza. Scavalchiamo i rami che ci sgambettano e usciamo allo scoperto con le mantelline ed i coprizaini e osservando quelle che io definisco “gobbe” e non creste ci avviamo su quel “bruco” roccioso per raggiunger il suo addome curvo verso l’alto nel momento di massimo sforzo. Il passaggio iniziale è allo scoperto ma subito incontriamo la presenza di un boschetto sul costone, all’inizio non concentrati ci fermiamo ma come un lampo si accende l’idea di attraversare un albero bruciato dai fulmini e superata quella porta il terreno si “batte” come un vialetto di gnomi o elfi nel verde e nella pace di un caratteristico boschetto. Il regno della tranquillità che si aggiunge all’uscire del sole che ci riscalda e ci costringe a togliere ciò che avevamo indossato per proteggerci dall’acqua.
All’uscita dall’idilliaco loco si aprono le altre gobbe e notando una vetta alta sorpassiamo altri alberi puntando verso il basso e risalendo, raggiungendola; ci rendiamo subito conto di non essere al culmine e cosi riscendendo e risuperando altri clivi boscosi giungiamo sulla vetta del luogotenente Cervarolo, colui che aiuta l’imperatore Cervialto nel lavoro di guardia contro le intemperanze dell’uomo.
La gobba principale ci sostiene a tre, con Adriano e Federico soddisfatti ed io entusiasmato ancora una volta da quel fazzoletto d’Irpinia visto da un’altra angolazione, vorremo stare li ancora molto ma la vista del “gigante” ci fa subito capire che Giamberardino richiama all’ordine per proseguire “lo passo antico”. Ritorniamo velocemente al punto sbagliando anche leggermente strada ma raccapezzandoci subito e cosi su per i faggi chini e i crinali scoscesi, incontrando anche un amico serpente di sfuggita nel tronco di un albero, giungiamo sul dorso del sovrano e con una corsa immane tocco per la ottava volta la sua corona, li sulla sua vetta.
Penso e ripenso agli altri giorni, alle avventure, alla neve, al Maggio freddo, alla nebbia di Luglio, al cielo terso di Agosto, alla prima volta di Settembre e non riesco a staccarmi da quelle rocce e da quel libro di vetta che ormai per me è come un confidente, un diario personale custodito da colui il quale più di un lucchetto manterrà i miei segreti lasciandoli leggere solo a chi avrà la forza di giungervi; e chi avrà questa passione di sicuro non potrà rimanere distante e non sarà persona disfattista da cancellare ciò che è stato fatto.