Il capolavoro
15.09.2016, L’approfondimento (di Antonio Cella)
Il libro “Accordi e Dissonanze” di Onorio Ruotolo.
Quando nei primi anni ‘60 ebbi sentore della pubblicazione di un libro scritto da autore di origini bagnolesi, mi apprestai ad ordinarlo al mio edicolante, non perché spinto dalla sola curiosità di leggere i pensieri di un mio conterraneo, ma soprattutto perché la lettura per me era ed è una salutare attività dello spirito. Dovetti aspettare un bel po’, però, per averlo: quasi due mesi. E l’attesa fu ampiamente compensata dal piacere che provai quando me lo ritrovai tra le mani. “Accordi e Dissonanze” di Onorio Ruotolo. Un titolo che su di me ebbe un effetto cinematografico, magico, direi. Ma oltre che dal titolo, fui preso, questa volta, quasi con dispiacere, dal prezzo del libro: 3.000 lire, una somma enorme per un ragazzo di paese, figlio di famiglia numerosa e totalmente dipendente dalla improbabile generosità paterna. “Tremila lire per un libro! L’ho sempre detto che a te manca qualche rotella”, sentenziò mio padre. Alla fine, fu mia zia a pagare per me, come sempre. C’è sempre una zia o uno zio a risolvere le problematiche dei nipoti. Non avrebbe senso, altrimenti, l’esistenza del sostantivo nepotismo.
Benedette furono le tremila lire, perché mi consentirono di appropriarmi di uno scrigno gravido di cultura. Una cultura diversa, nuova, che mi appassionava. Parlava di arte, di musica e di poesia e dell’amore incondizionato di un ragazzo verso il paese natio e nei confronti di chi gli aveva inculcato i primi rudimenti di vita e di arte. Sì, quel libro parlava anche di poesia. Quell’armonia che ti rapisce il pensiero e ti conduce per mano verso sentieri irreali, irraggiungibili; che filtra un atteggiamento o una intuizione immediatamente espressi, come una fotografia coglie una posa e, subìto dopo, è del tutto diversa.
Sì, la poesia: dinamica cristallizzazione di un frammento di spirito, che nel tutto è niente e, nel contempo, è tutto relativamente all’istante che lo trasferisce verso l’esterno.
Onorio Ruotolo era figlio di madre bagnolese. Il papà, anch’egli irpino, era originario di Cervinara, ridente cittadina della piana del Taburno. Ed è appunto lì, a Cervinara, che mi sono portato qualche tempo fa per contattare un parente del Ruotolo, un lontano cugino, e per visitare il maestoso monumento ai caduti firmato dal nostro scultore, architetto, pittore, saggista e, dulcis in fundo, poeta. Il cugino Michele, fotografo in New York nei tempi in cui Onorio acculturava nel tempio della “Leonardo Art School”, della metropoli americana, non solo i figli della Little Italy ma appassionati d’arte di tutti gli States di ”Madre America”, mi ha spiegato con parole semplici la poliedrica figura e la “grandezza” del nostro compaesano, partendo dalle persone che lo hanno plasmato, iniziando dal bagnolese Belisario BUCCI, precettore e maestro di vita e di arte, che per primo intese la propensione per l’arte del ragazzo (aveva nove anni quando mamma Maria Concetta Caruso glielo affidò), favorendone lo sviluppo, incoraggiandolo e correggendolo in ogni suo movimento verso la creazione di forme e di soggetti scultorei. A lui il Ruotolo dedicò il racconto esoterico in versi “L’artista innamorato” che ha, quale protagonista occulto, Michele Lenzi. Una poesia stupenda, da me trasposta in prosa, (con l’aggiunta di ampie e fantastiche integrazioni), per meglio spiegare ai ragazzi di oggi che, ai tempi del nostro poeta, bastava una semplice scatola di cartone per fare felice un ragazzino, libero di vivere la sua infanzia, (in un posto dove la fruizione di una infinità di privilegi sono mera utopia per chi vive in città), sognando momenti di gloria schermagliando per la presa del castello normanno dei Cavaniglia, antica fortezza di recente restauro, che dalla collina detta “Serra” domina la Valle del Calore, tra le tante opere d’arte presenti in Bagnoli che lo stesso Ruotolo ha ribattezzato “la piccola Firenze d’Irpinia”.
Il paese, qualunque esso sia, non ha porte stagne, non ha pareti psicologiche, non ha barriere e confini spinati. E’ il posto dove, con gli uccelli del cielo e gli scoiattoli del bosco, si è liberi di correre, di respirare, di sorridere. E chi ha avuto la fortuna di vivere lì la propria infanzia, può ben capire, oggi, il valore della parola libertà, intesa nella concretezza della sua significazione.
Di quel periodo meraviglioso ci sono ricordi silenziosi, ma egualmente importanti, che riflettono la coscienza della cultura paesana.
Dopo questo breve prologo, passo immediatamente al racconto.
Tanti anni fa, nella seconda metà del secolo XIX, in un radioso mattino d’autunno, un ragazzo dall’animo sensibile, bighellonando sull’altura detta “La Serra”, che giace ai piedi del menzionato maniero di origini normanne-svevo, scoprì, tra gli altri rifiuti, in una scarpata di roccia, una grossa scatola di cartone.
“Quel buon cartone”, si disse, “servirà per costruire splendide casucce al mio presepio”.
Raccoltala, la scoperchiò avidamente. Ma dalla scatola non uscirono che batuffoli di cartastraccia, pezzi di trine consunti, nastri stinti e, a sorpresa, una lettera legata a croce da un ruvido filo nero. Spezzato il filo, estrasse dalla busta gialla consunta un foglietto ripiegato, orlato di ricami perforati, un ciuffo di capelli biondi e un’immagine fotografica di ragazza impressa su lastra di rame argentato.
“Chi può essere mai?”, si chiedeva, “quella fanciulla sorridente, dal viso bellissimo. E’ ella morta o vive ancora?”
Il ragazzo, sensitivo e fantasioso, vagheggiava su quei “cimeli” da cui non si staccava mai. Per le strade, a scuola e nei momenti di gioco con gli amici, fissava e baciava spesso quel viso stupendo. In cuor suo, una voce gli diceva che la ragazza fosse ancora viva, e avesse più o meno la sua stessa età.
Cominciarono, così, a nascere nella sua mente sentimenti mai provati prima: euforia, malinconia, estasi, gioia e tormento. Contestualmente, cresceva in lui un desiderio prepotente di rintracciare la giovane donna, che il fato aveva messo sul suo cammino. Ma non aveva la forza economica, data la giovane età, di effettuare ricerche su larga scala. E poi? In quale direzione si sarebbe dovuto muovere?
Non aveva nessun punto di riferimento. Chissà quando avrebbe potuto guardare quella ragazza nei suoi splenditi occhi.
Passarono gli anni, e lui non si dava per vinto. Sperava sempre di poter riconoscere quel viso angelico in ogni giovane donna che incontrava sulla sua strada.
A venti anni, Michele, questi era il suo nome, era già un pittore famoso, acclamato in tutto il Regno di Napoli. Egli possedeva la magìa di trasformare in sublime beltà ogni donna ritratta dal suo pennello.
Non mancava di dipingere quel volto amato, così come lui lo intuiva nei cambiamenti subìti dallo stesso nel corso del tempo, mettendo in risalto anche quelle inquietudini malinconiche e romantiche e i primi ingenui turbamenti di una sessualità nascente, inconsapevole, che preludono al rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. E trasportava il riso sulle labbra di tanti volti femminili, che fissava nelle sue contesissime tele. Proiettava, inoltre, nei tanti occhi di donne e fanciulle, di spose e di amanti, da lui ritratti dal vero, lo sguardo trasparente della “ragazza del mistero”, sbizzarrendosi con la sfera della fantasia, che gli riveniva dall’estro della sua arte divina.
Non bastò, però, la gloria, né tantomeno la ricchezza e le profferte d’amore di altre donne belle e blasonate, ad appagare i tormenti e le ansie che gli solcavano l’anima, riconducibili all’immagine a lui cara, ai talismani della sua ispirazione artistica e sentimentale, gelosamente custoditi in uno scrigno d’argento smaltato.
Saputo che in città viveva un famoso veggente indiano dalle facoltà psicometriche, Michele volle consultarlo per avere notizie della fanciulla del castello. Era, questi, un personaggio di grande carisma: alto, ieratico, dalla folta barba bianca che gli si allungava sul saio e gli donava le sembianze di un profeta scolpito nel marmo. Raccolti dalla teca i “cimeli”, il veggente se li posò sulla fronte comprimendoli con le dita scarne. Restò fermo e muto per qualche istante e poi, a voce bassa, disse:
<<L’immagine e i capelli emanano vibrazioni vitali. La fanciulla è viva!>>.
E Michele:
<<Maestro, siete certo di quel che dite? Vi prego, datemi qualche notizia più precisa che possa condurmi sulle sue tracce>>.
E il santone:
<<Di certo, fratello, c’è una sola cosa: la Sacra Trimurtì. Tuttavia, perché tu possa convincerti della veridicità delle mie parole, sappi che conosco il tuo segreto. Non è forse vero che in un piccolo paese di montagna, su cui svetta un castello medievale, un giorno hai raccolto da una scatola di cartone, abbandonata tra i rifiuti, queste vibranti immagini?>>.
Michele lo guardò stupìto.
<<Ebbene>> proseguì il veggente, <<una volta partita da Napoli col bastimento della Compagnia di Navigazione Italo-Platense, dopo giorni e giorni di navigazione il battello naufragò nell’infido oceano. Più di mille migranti perirono coi genitori della piccola. Soltanto lei si salvò poiché protetta dagli influssi astrali della madre morta. Fu lasciata dalla furia del mare su un isolotto selvatico di un continente latino, dove fu raccolta da un pescatore di squali. La vedo, ora, circonfusa di luce mentre dispensa baci e ringraziamenti ad una folla plaudente>>.
Michele, da quel giorno, smise di dipingere.
Raccolte le sue opere, si avviò per le strade del mondo per mostrare il suo genio, la sua arte sublime, alitata dall’anima ispiratrice che fin da ragazzo gli occupava il pensiero. Caracas, Buenos Aires, Montevideo. In ogni capitale delle Americhe si osannava al suo genio creativo. Le sue opere erano moto richieste. Le gallerie e le pinacoteche specializzate se le disputavano a peso d’oro. Ma lui non vendeva, né tantomeno assumeva impegni per crearne delle altre. Si prodigò affinché le stesse, che riproducevano il modello-tipo dei suoi ritratti di donne, fossero pubblicate in giornali e riviste illustrate, con l’impegno di regalare il quadro più vistoso della mostra, un vero capolavoro, a colei che più somigliasse al modello (la sua donna del mistero) fissato in tutti i suoi dipinti.
Qualcuno lo definì un eccentrico, in cerca di pubblicità erotica. Qualcun altro, invece, capì il dramma dell’artista e dissipò ogni dubbio o sospetto. Tutti, però, rimanevano estasiati, rapiti da quell’arte sublime, che ha la forza di far vivere il tempo come presenza silenziosa, che trascina con sé, nel proprio respiro, il mondo e le sue ineffabili immagini.
Il suo era un continuo tran-tran, un moto perpetuo che, di città in città, lo portava al cospetto di donne belle, eleganti e ricche, che aspiravano al vistoso premio, Sentiva che il suo problema stava per risolversi. La notte non dormiva, e nei sogni vedeva la “sua” donna tra le braccia di uomini sconosciuti, e non si dava pace. Si svegliava spesso madido di sudore. Capiva, però, che le orribili visioni oniriche, e le conseguenti interpretazioni, facevano parte del suo essere complesso: erano soltanto sogni, lontani anni luce dalla realtà.
Era stanco, scoraggiato, deluso. Aveva deciso di ritornare in paese quando gli pervenne da Santiago una lettera profumata di una “segnorita” di nome Blanquita, famosa in Cile per le sue virtù canore.
La lettera diceva più o meno così:
<<Da Montevideo, una cara amica mi ha inviato una foto di un Vostro capolavoro che, fedelmente, riproduce le mie sembianze. Ciò mi esalta e mi onora. Quello, però, che più mi stupisce è il non conoscere da quali immagini abbiate potuto clonare le mie, così nobilmente idealizzate dal Vostro genio creativo, dato che esse, per mia precisa volontà, non sono mai state fissate su carta e tela da fotografi e pittori>>.
Le navi a vapore che in quell’epoca partivano dal porto di Napoli per l’Argentina erano di numero limitatissimo. La più importante era provvista di un elica di ferro, di una macchina di trentaquattro cavalli vapore e stazzava centosei tonnellate lorde. Il suo nome era “Speranza”, sostantivo che racchiudeva le prospettive e le eventualità dell’approdo felice. E di speranze, la famiglia Abiosi, ne aveva tante quando mise piede a bordo del bastimento per essere trasportata nell’America latina.
Dopo trentadue giorni di navigazione, che avevano ormai cancellato dalla mente finanche il ricordo della partenza e il fumo nero che, copioso, pennellava il cielo sotto cui il Vesuvio già dava i primi segni d’impazienza, la nave finalmente raggiunse il mare argentino. Navigava lungo le coste di Santiago e Valparaiso quando il Pacifico s’incattivì. Ondate gigantesche travolsero il vecchio legno, che vacillò per qualche ora prima d’infrangersi sulla scogliera dell’isola di Juan Fernandez, dove affondò col prezioso carico di vite umane.
Tanto riuscì a sapere Michele sull’affondamento della M/n Speranza, una volta raggiunta la città di Buenos Aires.
La lettera di Blanquita lo aveva rincuorato alquanto. Organizzò immediatamente il viaggio a Santiago dove, finalmente, avrebbe potuto incontrare la donna che gli aveva rapito il pensiero. Ma la via della felicità non era un’autostrada dritta e soleggiata, con comodi motels per il ristoro. Per percorrere pochi chilometri ci si impiegava intere settimane. E la corriera che Michele aveva assoldato non era adusa ai trasporti interregionali, lunghi e stancanti. Il trasportatore, infatti, non aveva saputo programmare l’itinerario ideale, che tenesse conto di alcune cose d’importanza vitale per la buona riuscita della “impresa”, quali: viabilità, punti di sosta e di ricambio dei cavalli, sicurezza di non cadere preda della malavita locale. Viaggiavano così, a lume di naso, sotto il tiro stremato di cavalli esausti, che non riuscivano a compensare col riposo notturno le energie spese di giorno lungo i sentieri pietrosi e nelle mollicce pampas infestate di anofeli.
E così Michele si ammalò.
La malaria gli faceva bollire le carni, ma lui non demordeva. Quando la terzana si assopiva, spronava con impeto gli uomini della corriera affinché accelerassero il trotto degli animali. Ma poi comparivano le recidive del male e soggiaceva ai brividi scuotenti, alle vertigini e alla sudorazione diffusa che gli inzuppava gli abiti e la biancheria facendolo delirare. Rivedeva, allora, Blanquita distesa al suo fianco sull’erba viva della prateria, che gli cantava una antica nenia del suo paese natale. E rivedeva, nella confusione mentale, la casa avìta, le montagne verdi, la pianura ubertosa e le acque gelide della sorgente Tronola che, dalla pieghe del monte, spruzzavano miriade di goccioline che si fondevano in copiosi rivoli schiumosi. Rivedeva, inoltre, le donne della sua vita: la madre, le zie, le sorelle e gli amici con cui dall’infanzia si era fatto uomo. Rivedeva, infine, le pennellate agili, nervose del maestro d’Accademia, che sul cavalletto posto in bilico su un dirupo, riproduceva, su tela, il volto di una bimba a lui cara. E avvertiva i morsi irritanti delle ortiche quando cercava di allungare le mani sul corpo etereo di una giovane donna dagli occhi di cielo.
Poi, il vuoto, il buio, l’assenza delle cose terrene.
Si svegliò, dopo qualche giorno, nel fienile di un casolare cileno. I compagni di viaggio non erano più con lui. Si erano dileguati affidandolo alle cure di una famiglia di contadini che, fortunatamente, sapeva ben curare le febbri malariche.
Ristabilitosi, fu portato nei pressi di Santiago. Non gli fu difficile bussare alla porta dell’abitazione di Blanquita. Michele, finalmente, aveva trovato la donna, la sua anima gemella, il modello ispiratore dei suoi numerosi dipinti.
Ella riacquistò immediatamente la memoria, che il naufragio aveva cancellato. L’idioma del suo paese aveva, forse, frizionato i circuiti del suo cervello provato. Si ricordò, allora, di chiamarsi Gemma. E ricordò finanche il castello diroccato e tante altre cose che avevano vitalizzato la sua infanzia nel paese più bello d’Irpinia.
Si riaccesero in lei, allora, le immagini più care: i genitori, i parenti, la nonna. La rivedeva, la nonna, con l’occhio risanato della mente, nel giardino della casa paterna, mentre nella quiete delle serate estive, al fresco del manto maturo del melo limoncello, la introduceva con il racconto di fiabe, di gnomi e di fate, nel mondo dei sogni. La rivedeva, poi, nel giorno della fatale partenza, mentre implorava la sua “carne” a non partire.
Ma, si sa, il fiume non ascolta mai la sorgente: va per la sua strada.
Rivisse i tragici momenti del naufragio, la pazzia delle onde che frantumarono il bastimento e catapultarono in mare uomini e cose; le mani pietose della madre, che l’aiutarono ad aggrapparsi alla salvezza, sempre tese nel momento del bisogno. E, infine, si illuminò nel sorriso amico e nelle premure dei pescatori dal linguaggio sconosciuto, che la riportarono in vita.
Tornò con Michele nel paese natìo.
Dimenticò, volutamente, di essere una cantante famosa per potersi dedicare anima e corpo al suo uomo, per il quale poter essere artista e modello per la vita, all’ombra di quel melo antico nel giardino di famiglia.
Antonio Cella
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La grande produzione artistica del Ruotolo è difficilmente quantizzabile. Consacrato già negli anni ’30 come uno dei migliori scultori del suo tempo, riversò nei suoi lavori i suoi amori e i suoi odi, imponendo alla sua arte una lenta e graduale evoluzione. Famosi sono i busti di Abhramo Lincoln, di Lenin, di Giuseppe Verdi, di Arturo Toscanini, di G .Matteotti, di Einstein, di Thomas Edison, di Cristoforo Colombo, di Dante Alighieri, del tenore partenopeo Enrico Caruso, rappresentato in modo superbo, virile, per non dire arrabbiato nei confronti di chi esprimeva disprezzo e xenofobia verso i nostri emigrati; un busto imperiale, direi, messo lì nel foyer del Metropòlitan di New York, tempio mondiale della musica di un paese musicalmente spento, quasi privo di storia; figura che richiama, a tratti, la nobiltà e il potere di Roma su buona parte del globo terracqueo; con evidenti, parallele allusioni al dominio di Caruso sul mondo del canto e della musica.