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La politica scellerata potrebbe anche uccidere

09.01.2016, Email di Antonio Cella

Antonio-CellaQuando nella immobilità di un letto del reparto di medicina d’urgenza dell’unità coronarica dell’ospedale Moscati di Avellino riuscivo a distogliere, nelle lunghe notti di degenza, la fissità dello sguardo dall’elettrocardiografo che proiettava verso di me, e verso chissà quale tecnico assonnato, le coordinate che evidenziavano la gravità del mio male, le migliorie, le potenziali possibilità di farcela, o, addirittura l’approssimarsi della mia inaspettata defunzione, cadevo vittima di una forma di avvilimento, di una forma di afflizione che, al di là della paura, (che mai mi ha lambito neppure quando la sirena dell’autoambulanza dispiegava il suo funesto lamento sotto le finestre della mia abitazione), si trasformava a mio consapevole danno in pura indignazione, in alterazione del mio stato d’animo riconducibile al diniego del responsabile del reparto di emodinamica di procedere in presenza di stenosi coronariche (tre, per l’esattezza) all’intervento di angioplastica da lui non ritenuto, evidentemente, alla portata delle sue capacità professionali tanto da suggerire, per la soluzione del caso, il ricorso alla tecnica operatoria di routine adottata in tempi assai lontani. Episodio, che ha fatto sorridere in un momento storico che si appresta a segnare la fine del primo quarto del XXI secolo, medici e tecnici tra i più quotati della nostra sfortunata provincia.

Sfortunata provincia, perché? Perché di elementi simili la nostra Irpinia non ha proprio bisogno! Essi rappresentano ciò che rimane di quella generazione di medici beneficiati e tuttora protetti dalla longa manus di un politico nostrano, simulacro inossidabile e crepuscolare di un passato da dimenticare, che in Campania, per più lustri, ha fatto il bello e il cattivo tempo sopra tutto nel settore sanitario dove, ancora oggi, i suoi uomini maneggiano il potere: medici, infermieri, portantini, cuochi e sguatteri. Gente che, per meriti non propri, hanno occupato e occupano da illo tempore posti di alto livello, segnando, così, della propria imperizia, gran parte dei nosocomi che insistono sul territorio campano, causando malasanità e degrado.

Di tanto, sono fortemente incazzato!

Sarei potuto morire durante il tragitto Avellino-Grosseto dove, grazie al dott. Ugo Lambruno, responsabile del reparto di emodinamica della locale Azienda Ospedaliera, il mio caso è stato felicemente risolto.

Ma, se a me è andata bene, grazie al fatto di non essermi lasciato “squartare” da chissà quale “luminare” locale, a molti altri meno accorti potrebbe andar peggio per il seguente ordine di motivi. 1) Quasi sempre, chi ha bisogno urgente di aiuto sanitario (mi riferisco prevalentemente a chi viva nei paesi dell’alta Irpinia) prima ancora di essere trasportato nell’ospedale del capoluogo, o in altra struttura regionale, dovrà passare volente o nolente (per disposizioni di chissà quale Solone che non sono facilmente spiegabili) per l’Ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi (struttura vuota e triste quasi come una chiesa sconsacrata, priva di servizi essenziali) dove, qualche dirigente integerrimo, facendo proprie le disposizioni emanate dalla UE per i migranti clandestini, e dopo aver completato la schedatura e, ovviamente, il rilascio delle “impronte digitali” dell’attonito aspirante degente, deciderà della sua sorte e della relativa collocazione in un ospedale, non dico di eccellenza, ma attrezzato e all’altezza dei tempi.

Se non fosse così, ditemi voi perché si spreca tempo e denaro in pratiche burocratiche senza senso e in giri di “piacere” in ambulanza che servono soltanto ad accelerare l’aggravamento del male del richiedente aiuto e il non agognato accorciamento della sua esistenza terrena? 2) Nonostante le ambulanze del Servizio 118 abbondino di apparecchiature tecnologiche di ultima generazione e di farmaci salva vita pronti all’occorrenza, quasi sempre al disgraziato in affanno non viene somministrata neppure una scarda di aspirina, (come nel mio caso) né una spruzzata d’ossigeno né tantomeno, in presenza di una sintomatologia che preluda alla sussistenza di una evidente insufficienza coronarica, l’uso di sussidi medicamentosi del tipo Flectadol per meglio fluidificare la massa sanguigna.
Di gente simile, quella che maneggia il potere, ce n’è in ogni settore della vita sociale e politica. Ma la politica, madre di ogni male, ha più attrazione. In una società di ignoranti eteronimi, l’uomo politico può operare senza intralci. E chi non ha agganci nella società sana, onesta, buona, quella che ci consente ancora di sorridere, di stringerci le mani, di chiamarci per nome, è, senza ombra di dubbio, colui che dovrà accollarsi i conti dei titolari degli “onorevoli riconoscimenti”. E, divagando, penso che non esista una via di mezzo per mitigare, per isolare, per annullare i disonesti: l’esempio di Roma, dove la soglia della morale è molto bassa e il malaffare dilaga sovrano, ne è prova di evidenza palmare.

Siamo destinati, quindi, a navigare in un lamento collettivo. C’è poco da fare! Intelligenti, furbi e furbastri sono le croci che incurveranno sempre più le nostre spalle. Da qui, la scaturigine di quella forma di disamore, di agnosticismo strisciante, di nichilismo anarcoide verso le istituzioni (vedasi l’alto indice di assenteismo elettorale) e verso le ideologie, per le quali i nostri avi erano “pronti alla morte”, oggi fuse in una specie di democrazia televisiva personalizzata. Rottamare non significa soltanto smuovere dai vertici di enti privati e pubblici dirigenti mediocri, figli della vecchia mentalità dei partiti; significa anche abbattere, demolire e rinnovare vecchie strutture industriali del Meridione d’Italia che hanno contribuito, sin dai tempi di Guido Dorso e di Giustino Fortunato, a formare il corpus della sempre in auge “questione meridionale”, che Renzi ha ulteriormente aggravato rottamando, nella trascuratezza, il già rottamato. Non gli è parso vero al nostro Presidente del Consiglio l’aver portato a termine la variante di valico tra Sasso Marconi e Barberino del Mugello, lasciando a bagnomaria il completamento dell’autostrada Salerno-Raggio Calabria, che ha origini e necessità più antiche della menzionata bretella emiliana.
Non dimentichiamoci, però, le nostre origini geografiche. Noi, per il Nord, siamo e saremo sempre i negri italiani dell’Alabama. E non soltanto dal punto di vista antropologico.

E non credo proprio mi stia piangendo addosso.

Tenuto conto delle smisurate ambizioni degli esseri umani, mi ritorna in mente l’apologo di Menenio Agrippa, siamo intorno al quinto secolo a.C., che compendia una filosofia pur semplicistica, ma sempre attuale, per quanto attiene all’umana convivenza.

Per chi non lo sapesse, dopo la cacciata dei re, la plebe romana tentò di approfittare del momento propizio per mettere le mani sulla città, pur essendo intellettualmente inadeguata ad assumere posizioni, che certamente non richiedevano l’uso della daga per amministrare una megalopoli, qual era all’epoca la nostra attuale capitale, ma sicuramente necessitava di gente di buon senso che fosse in grado di pianificare e realizzare quei progetti utili alla vivibilità della metropoli.

Al rifiuto dei patrizi la plebe, per reazione, si stabilì in armi nelle vicinanze del fiume Aniene sul Monte Sacro. A causa di ciò, una grande trepidazione si era diffusa in città, ed ogni lavoro venne sospeso per il reciproco timore: la plebe temeva la violenza dei patrizi; i patrizi temevano la plebe rimasta in città, non sapendo se tenerla tranquilla e tentare di rabbonirla o, invece, fosse preferibile il suo allontanamento. E cosa sarebbe accaduto se poi fosse scoppiata una guerra esterna? Tutti pensarono, allora, che, onde evitare una guerra fratricida, la cosa migliore sarebbe stata raggiungere una unanime concordanza tra i cittadini. Fu deciso, allora, di affidare l’arduo incarico al patrizio Menenio Agrippa.

Il suo intervento cominciò così:

Quando fu creato il corpo umano, tutte le parti di esso inoltrarono richiesta di voler e poter accedere al posto di Capo.

Disse il cervello: “Io trasmetto disposizioni e messaggi a tutte le parti del corpo, le controllo e le dirigo. E’ giusto, pertanto, che venga eletto Capo.

Disse lo stomaco: “Io, insieme all’intestino, traduco in energia tutti gli elementi di cui il corpo ha bisogno. Lo nutro e lo preservo da morte da inedia. E’ giusto che venga proclamato Capo.

E le gambe, di rimando: “Noi trasmettiamo e trasformiamo in moto tutti gli elementi impulsi dal cervello e l’energia che ci fornisce lo stomaco. E’ senz’altro più giusto che il posto di Capo spetti a noi.

Una dopo l’altra, tutte le parti del corpo proposero la loro candidatura adducendo, più o meno, motivi validi.

L’ultimo ad avanzare la candidatura fu il buco del culo che, con timidezza, oltremodo offeso della risata collettiva degli altri candidati che non lo reputavano all’altezza della situazione, non profferì parola ma si gonfiò come un aerostato, si occluse e, da quel preciso momento, si rifiutò di fare il proprio dovere.

Col passare del tempo, a causa dello sciopero indetto ed attuato da quell’organo spudorato, tutte le parti del corpo cominciarono a star male. Il cervello divenne febbricitante, lo stomaco ebbe i crampi, mani e gambe scivolarono inerti lungo il corpo: tutto fu un disordine! E, per non andare incontro a sicura morte, gli organi del corpo si rivolsero al cervello pregandolo di eleggere, obtorto collo, CAPO del corpo umano il buco del culo. E così fu.

Morale della favola: il “Capo”, onesto o disonesto che sia, non ha bisogno, per comandare, di una mente geniale, di attestati di merito, di diplomi e lauree (che sono opera dell’uomo) basta che, di suo, abbia la forza di fare lo STRONZO.

Ho letto, da qualche parte, una lettera di un personaggio ambiguo, di poco affidamento, in auge per le cazzate con cui spesso si cimenta da un paio d’anni a questa parte, noto soprattutto per i suoi atteggiamenti spocchiosi e per i rigurgiti della sua vuotezza; lettera inviata ad un suo caro amico dove trattano “d’imprese” senza affanni e senza gloria che, comunque, evidenziano un’amicizia mai consunta. E’ stato piacevole “intrufolarmi” nei loro ricordi. L’amicizia è sacra, è quella che smuove i sentimenti, è fratellanza, è affezione, è familiarità, è simpatia. Ma quando poi a pie’ di lettera, “all’arrivederci”, al “risentirci presto” fa seguito l’egocentrismo narcisistico racchiuso in una firma formata di tre parole: titolo accademico, nome e cognome, come diceva mia nonna: “ ’m care la casa ‘ncuoddu”.

Chi, secondo Agrippa, fa meglio lo stronzo tra i due?

                                                                                                       

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