RADICI – Danilo Di Mita, giornalista di frontiera
23.11.2010, Notizia (di Ilaria e Davide Passannanti)
Quello a seguire è un articolo scritto da Danilo di Mita. Molti a Bagnoli potrebbero ricordarselo con una sigaretta in bocca e i jeans strappati, ma non tutti sanno che è diventato un giornalista, autore di molti articoli inchieste. La sua passione per la scrittura risale ai tempi del liceo, stimolato dal suo prof. di italiano che lo penalizzava mettendogli dei voti bassi, perché riteneva che i suoi compiti fossero copiati. Da allora ne ha fatta di strada fino ad arrivare in Africa, facendo conoscere al mondo la vera situazione di quel posto, da molti ignorata.
Danilo è sempre interessato a quello che succede a Bagnoli, la sua prima domanda quando chiama è: “Che novità a Bagnoli?”. È un ragazzo che tiene molto anche alla tradizione del nostro paese, tant’è che indossa l’anello tipico bagnolese ,“cornaiola”, raffigurante un guerriero sannita, perchè anche lui nel suo piccolo con il suo lavoro combatte. Infatti, la sua esperienza africana fino ad ora gli è costata una notte nelle prigioni nigeriane e una bella gita nell’ospedale di Abuja a causa del tifo e della malaria. Danilo porta sempre con se un pezzo delle sue radici, tant’è che la casa in Nigeria è tappezzata di quadri con paesaggi di Bagnoli e Laceno.
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L’articolo
Nigeria. Jos la ‘terra promessa’ della nuova ‘guerra di religione’
di Danilo Di Mita, corrispondente Agi da Abuja
Impossibile distinguere la natura della conflittualità tra una matrice politica, economica, razziale o religiosa. La radicalizzazione del sentirsi diverso è annidata in ognuno: una banale scintilla fa divampare il fuoco dell’odio.
La scheda
Tra conflitti e crescita economica
Petrolio, produzione agricola, commercio, tlc e finanza: nonostante l’instabilità politico-sociale la Nigeria è la seconda potenza economica dell’Africa.
Le cifre
Dieci anni di scontri
Migliaia di vittime dal 2000 a oggi. Anche secondo i dati ufficiali del governo centrale, che di norma tende a minimizzare il numero dei morti.
Quando il prete sta pensando di procurarsi una pistola per difendersi; quando tra la comunita’ musulmana circola senza imbarazzo una lista di edifici cristiani da incendiare; quando un pastore dice che gli ‘infedeli’ devono scappare, allora non si fa fatica a pensare che le migliaia di morti del passato siano solo il probabile ‘antipasto’ di un genocidio annunciato. Jos e’ una polveriera pronta a esplodere, piu’ di quanto sia successo negli ultimi dieci anni, a dispetto della definizione di citta’ “della pace e dell’armonia” che per un cinico scherzo del destino le e’ stato affibbiato. Un destino che sembra volersi vendicare delle fortune che aveva riservato alla capitale dello stato di Plateau, Nigeria centrale: un territorio di colline verdi e vallate ricche di acqua, un clima lontano dalle asprezze tropicali grazie ai suoi 1.200 metri di altitudine, una fortuna che spinse i colonialisti inglesi a sceglierla come luogo di villeggiatura preferito. Con loro arrivo’ uno sviluppo urbano ordinato e armonico, lontano anni luce dalla distesa di baraccopoli delle altre citta’ nigeriane: ville su due livelli rivestite in pietra, strade piene di negozi e ristoranti alla moda, alberghi lussuosi, campi da golf. Oggi tutto in rovina.
Una lotta senza esclusione di colpi
La data che ha marchiato con sangue e dolore la citta’ e’ il 2001, l’anno delle prime elezioni nello stato di Plateau dopo il passaggio della Nigeria dal regime militare alla democrazia (1999). O, meglio, all’interpretazione in salsa africana dell’ideale democratico: “chi vince le elezioni prende tutto e puo’ fare quello che gli pare, i perdenti devono aspettare il giro successivo”, spiega Andrew Ajijah, giornalista del NewsCrest, un settimanale locale. Le elezioni del 2001 furono vinte dai rappresentanti di tribu’ autoctone, un ‘pedigree’ difficile da esibire dove non esiste neppure l’anagrafe, ma utile per accaparrarsi i privilegi riservati ai nativi: iscrizione nelle scuole pubbliche, quote per i posti nella polizia locale o nell’amministrazione regionale, alcune delle poche chance, con i 100 euro di stipendio mensile, per assicurarsi un futuro diverso dalla miseria della vita nei pascoli o nei campi. Privilegi che non vengono riconosciuti a Fulani e Hausa, etnie della Nigeria settentrionale a maggioranza musulmana, arrivate nella regione a fine Ottocento e che la citta’ di Jos l’hanno addirittura fondata. Per i rappresentanti delle tribu’ locali, cristiane e animiste, come i Berom attualmente al potere, gli Hausa non sono altro che l’avamposto dell’avanzata islamica verso il sud cristiano della Nigeria: “presa Jos”, dice un rappresentante della chiesa pentecostale, “non faranno fatica a coronare il loro sogno di bagnare il Corano nell’oceano Atlantico. Ma noi lo impediremo”. Non la pensa cosi’ l’imam della moschea centrale di Jos, Khaled Abubakar: “siamo qui da 150 anni, ci perseguitano perche’ vogliono cristianizzare lo stato di Plateau. L’attuale amministrazione regionale, controllata dai Berom, aizza la propria gente contro di noi e fino a quando saranno al potere nessun dialogo sara’ possibile”. Posizioni tragicamente distanti, nonostante gli sforzi e gli inviti alla calma che arrivano dagli esponenti religiosi piu’ moderati, come il vescovo della citta’, Ignatius Kaigama: “a Jos c’e’ da anni una lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi il potere politico, il tramite per arrivare al controllo degli appalti e dei finanziamenti trasferiti dal governo centrale. E’ allora che la religione diventa uno strumento utile per avere facile consenso e la si usa volentieri, cosi’ come la diversita’ etnica. Due elementi, religioso e razziale, che combinati senza scrupoli creano la miscela che incendia gli animi”. Persino tra gli esponenti del clero, sia musulmano sia cristiano, dove ormai e’ sempre piu’ difficile mettere da parte gli istinti piu’ bellicosi e trovare una dichiarazione netta di condanna agli eccidi.
La radicalizzazzione del sentirsi ‘diverso’
Tutto si confonde, si mescola, e diventa impossibile distinguere o separare la natura della conflittualità tra una matrice politica, economica, razziale o religiosa. E ciò che è più grave, è che la radicalizzazione del sentirsi diverso si è annidata in ogni singolo individuo, tanto che basta una banale scintilla per far divampare su larga scala il fuoco dell’odio e della spirale di vendette senza fine: una ragazza musulmana che si fidanza con un giovane cristiano, la mucca di un pastore Hausa che sconfina nel podere di un contadino Berom. Con i politici senza scrupoli, dell’una e dell’altra parte, pronti ad approfittarne e a fomentare la rivalita’, come pare che faccia il presidente dello stato di Plateau, Jonah David Jang, ex ufficiale dell’aviazione nigeriana, di etnia Berom, un personaggio che non ci ha pensato due volte a trasferire la residenza ufficiale del governatore presso la propria abitazione privata. Il tutto accade nell’apparente, e sostanziale, indifferenza del governo di Abuja: in dieci anni mai nessuno e’ stato condannato per questi crimini commessi in nome di Dio o Allah. L’esercito federale e’ presente in forze solo da qualche mese, tra decine di posti di blocco che taglieggiano gli autisti in transito e soprattutto le accuse di partecipare, a seconda della provenienza del battaglione, con l’una o l’altra parte alle operazioni con le quali ogni volta interi villaggi vengono cancellati dalla faccia della terra. Il terrore per adesso e’ a Jos. Ma il rischio, con le elezioni locali e generali di inizio 2011, e’ che gli scontri possano infiammare gli animi di tutti e il conflitto si allarghi al resto della nazione. E se e’ vero quanto scritto su un volantino propagandistico, di cui l’AGI e’ venuto in possesso, e cioe’ che attentatori suicidi si stanno preparando in Niger con istruttori provenienti dal Pakistan, e’ lecito pensare al peggio.
Figli del terrore
Nel frattempo non si arresta lo stillicidio di lutti, con il suo triste e costante bollettino di morti e sofferenze. Per rendersi conto del dolore basta andare a pochi chilometri da Jos, nel villaggio di Dogo-Nahauwa, un pugno di fango e lamiere dove in una notte di marzo 492 contadini Berom furono massacrati, a colpi di machete e armi da fuoco, da pastori Fulani scesi dalle alture circostanti. Cio’ che e’ rimasto e’ un villaggio di uomini adulti, vedovi, orfani e figli del terrore che li ha portati a scappare lasciando indietro genitori, mogli e bimbi, prede piu’ deboli e lente della vendetta fulana. Tra le poche donne e bambini sopravvissuti c’e’ chi quella notte se la ricordera’ per sempre, impressa nelle braccia mozzate o nei crani resi deformi dai machete.
L’articolo è stato pubblicato su AGImondoONG
(L’informazione con il mondo delle Organizzazioni Non Governativo)
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La foto: Ilaria e Davide Passannanti