Eros e vino nei poeti irpini e nella cultura popolare
13.03.2015, Articolo di Aniello Russo (da Fuori dalla Rete – Marzo 2015, Anno IX, n.2)
Nel mondo greco
L’amore e il vino sono stati due temi universali della poesia colta soprattutto nell’antichità greca. Il simposio era il contesto naturale della degustazione del vino, ma pure il momento della galanteria culturale; si beveva moderatamente, ci si conservava sobri per tornare a casa con le proprie gambe. Per i greci il simposio, momento di incontro di soli maschi, era il luogo in cui si raccontavano storie, si levavano canti, si discuteva di filosofia e di politica; ma il momento culminante del simposio era riservato alla poesia.
Al vino si attribuisce una molteplicità di prerogative. Il vino ispira il poeta, ha la funzione di sollecitare l’amicizia e la proprietà di incitare all’ebrezza; rende la vita meno dolorosa, mettendo in fuga ogni forma di tristezza. Il vino dà pure forza e infonde coraggio. Anche nell’immaginario collettivo il vino ha il potere di rinvigorire il corpo. Un tempo, almeno una volta all’anno le mamme irpine lavavano col vino i loro piccoli sotto le ascelle, nella prospettiva che sarebbe cresciuto sano e robusto. Questa usanza era un relitto di un antico rito purificatore e propiziatorio insieme.
Nel mondo romano
Nella Roma antica il banchetto era luogo non solo di grande serenità e di allegrezza, bensì pure di poesia e di amore. Tra i primi piaceri dell’uomo Orazio pone il vino, ma ne consiglia un uso moderato: se il vino lenisce gli affanni della vita, non bisogna permettergli di offuscare la mente e l’anima. Pure nelle comunità irpine l’ubriacone abituale era additato al ludibrio pubblico, e per di più disprezzato dalla moglie: Megliu a ttène lu culu int’a la vrasa/ ca nu maritu mbriacu ncasa.
Il vino rende il cuore più pronto alla passione, canta Ovidio; ma poi aggiunge la notte come terzo componente, per godere l’amore senza freni. Ritroviamo gli stessi elementi in un canto popolare di Bagnoli, in cui un innamorato trae coraggio dal vino e canta per l’amata: “Tutta stanotte vogliu ì’ cantanne…/ Vola culomba quantu vuo’ vulà/ puru int’a ste brazze a ra caré!” (Tutta la notte voglio andar cantando/: Vola, colomba, quanto vuoi volare,/ pure tra queste braccia tu cadrai!).
Il vino allunga la vita. Nella Roma antica alle idi di marzo si venerava un’antica divinità, Anna Perenna. La festa era celebrata fuori dalle mura della città: i Romani sdraiati sull’erba consumavano il pasto, riscaldati dal sole e dal vino; soprattutto dal vino; quante più coppe di vino tracannavano, tanti più anni campavano (Ovidio, Fasti III, 522). Nella mentalità popolare, invece, il vino l’accorcia la vita. Eccedere nel bere rovina il fegato… e la morte è già dietro la porta! Una mia composizione in dialetto bagnolese racconta la storia di uno dei tanti alcolizzati. Ecco alcuni versi: Tutti li juorni vacu a la cantina,/ e ddà mannu li uài a farse fotte./ Luvàteme re ppane e la carna,/ luvàteme la cionna… no lu vinu! (Tutti i giorni io vado alla cantina,/ dove mando i guai a farsi fottere/. Privatemi del pane e della carne/, toglietemi la fica… e non il vino!).
Nella cultura popolare irpina il vino era pure il suggello dell’unione matrimoniale. La prima volta che la sposa metteva piede nella casa del marito, si celebrava il rito dell’ingresso. Il padre dello sposo offriva ai due uniti in matrimonio un sorso di vino dallo stesso bicchiere, che poi gettava a terra. La rottura del bicchiere era un gesto rituale propiziatorio: come in quel bicchiere non avrebbe bevuto mai un altro uomo, così nessun altro avrebbe goduto di quella sposa.
Nei poeti irpini
Da sempre l’Irpinia è terra di vigneti che tuttora si distendono sulle coste esposte al sole delle nostre colline. Pure per gli irpini il vino vive in stretta simbiosi con l’amore. E risveglia i sensi: Tauràse, ogni véppeta no vase! (Col vino di Taurasi, ogni sorso richiede un bacio, recita un proverbio). Al tempo della civiltà rurale si faceva uso del vino pure nelle pratiche magico-rituali: per conquistare l’amato, la donna versava tre gocce di sangue del mestruo in un bicchiere di vino e glielo somministrava di sabato, il giorno più propizio alla riuscita del sortilegio. Mentre l’uomo beveva la pozione destinata a suscitare una violenta passione, lei diceva tre volte: Sangu r’ sta natura,/ attaccati a issu fì’ cchi vita dura! In questo modo riduceva l’amato in suo potere. E l’avrebbe tenuto legato a sé fino al sopraggiungere della menopausa.
E nella produzione dei poeti irpini non poteva mancare il vino. I nostri poeti cantano l’amore dionisiaco, calcando le orme dei poeti della classicità greca, per i quali il vino è simbolo della vita. Nell’amore della sua donna R. Della Fera di Calabritto ritrova l’afrodisiaco nettare. Il vino, dice il poeta, è la giovinezza che abbiamo vissuto e che si rinnova a ogni sorso. Opposta a riguardo la visione popolare: il vino smaschera una menzogna e impietosamente svela che il tempo corre via veloce. Spesso nel passato sentivo nella notte un canto di avvinazzati che percorrevano le strade del mio paese ripetendo questi due versi: Giuventù, giuventù/, te ne vai e nun tuorni cchiù.
Se per D. Cipriano di Guardia “Le poesie vanno lette ubriachi… per cogliere gli affanni che si affacciano/ dalle ampolle dei versi”, per il bagnolese Ferdinando Rogata l’uomo solo quando è ubriaco rivela il suo essere naturale, è allora che non riesce a contenere la sua prorompente autenticità. In una sua lirica (Eroi del mio tempo) egli innalza l’avvinazzato a figura di eroe, un eroe senza aureola, perché ha avuto l’ardire di ribellarsi a un’esistenza piatta e convenzionale: Alcolizzato che avanzi barcollando/ e canti la tua vittoria con parole senza senso,/ eroe del mio tempo/ hai spezzato le catene dell’abitudine./ Mancarono i colori ai pittori del mio tempo/ per dipingere il tuo amore disperato di vivere,/ e la tua tristezza senza parole.