Un’amara constatazione
28.02.2014, Articolo di Ernesto Dell’Angelo ’66 (da “Fuori dalla Rete” – Febbraio 2014, Anno VIII, n.1)
In una assolata giornata di maggio del lontano 1942, sotto la calandra del deserto africano, un caporal maggiore dell’Esercito Italiano dal volto emaciato e cotto dal sole, all’ombra di un riparo di fortuna, nello scrivere una lettera al caro padre al quale si rivolge con il Voi reverenziale, esordisce scrivendo: Carissimo padre Vi scrivo la presenda letera per farvi presende che la mia salute è ottima e così nello stesso tempo mi ……
Quel caporal maggiore era mio nonno Dell’Angelo Ernesto classe 1913, prigioniero n. matricola 180804 internato in un campo di prigionia inglese nel secondo conflitto mondiale.
Catturato in Africa nella prima Battaglia di Tobruk nel 1941, venne ammassato poi insieme ad altre migliaia di prigionieri italiani nel campo di concentramento di “Zonderwater” in Sudafrica, per poi infine essere destinato al campo 310 di Gaza in Palestina. Graziato dalla sorte nel non esser stato imbarcato sul traghetto militare “Laconia” affondato da un sottomarino tedesco “U- 156” ove persero la vita diverse centinaia di prigionieri italiani, venne poi deportato e destinato ai lavori forzati in Inghilterra ,da dove nel 1946 ,a conflitto ormai finito rimpatriato a Bagnoli Irpino. Stremato dagli stenti ,combattuto e vinto da un morbo contratto in Africa morì a soli 37 anni tra i conforti della famiglia qualche anno dopo. Mio padre, primo di quattro figli, aveva solo quindici anni.
Leggere questa lettera scritta su un foglio appositamente predisposto per i prigionieri di guerra, magari con un lapis ridotto alle dimensioni del mozzicone di sigaretta che malapena riusciva a serrare fra le sue labbra asciutte, composta da poche righe in un italiano incerto e sgrammaticato, ingiallita dal tempo, mi ha procurato non poche emozioni e qualche riflessione. Mio nonno come molti altri soldati, ha combattuto una guerra che probabilmente non condivideva perché non la capiva. Combattere a migliaia di km di distanza da casa sulle sabbie infuocate del deserto africano in nome di una Italia imperialista che aveva mandato allo sbando migliaia di improvvisati soldati mal equipaggiate e mal addestrate nell’ambizione di partecipare con un alleato come Hitler alla ridefinizione di un nuovo assetto della geografia politica europea, era cosa difficile da capire per chi nella propria dimensione vitale comprendeva più semplicemente valori legati alla terra, alla famiglia, al lavoro. Mio nonno però come molti altri in nome di una Italia a lui in gran parte sconosciuta e che sino ad allora l’aveva ignorato, pur non comprendendone le ragioni, quella guerra l’ha combattuta, fino ad immolare per la patria la propria vita.
Se mio nonno e quelli della sua generazione sacrificando la propria vita hanno dovuto combattere per la Patria, mio padre e la sua generazione sono stati quelli ai quali è spettato il compito di ricostruirla dalle macerie della guerra. Il sacrificio, le privazioni la fermezza sono stati il comun denominatore per quella generazione post-guerra. Ognuno nel suo piccolo, guidato da un imperativo morale fondato sul lavoro e famiglia, privandosi senza autocommiserazione del pur minimo diletto, spezzandosi la schiena nei campi,costituendo manovalanza a basso costo nell’edilizia di ricostruzione o nelle nascenti fabbriche del nord, facendo a volte scelte drastiche, come l’abbandonare il suolo natìo per andare all’estero, per poi farvi ritorno ed investirvi i suoi guadagni, ha dato onestamente un notevole contributo al risollevarsi dell’Italia dalle sue miserie. Non solo quindi gli audaci “capitani di industrie”, ma anche e soprattutto quella gran massa di persone che avendo il sacrificio ed il lavoro come un cromosoma impresso nel loro DNA, ignari dei loro diritti e incuranti delle condizioni di lavoro o di retribuzioni hanno con le loro braccia edificato sulle macerie della sconfitta le fondamenta del cosiddetto miracolo italiano. Le mani scure callose e dure di mio padre sono certamente l’emblema di quella generazione di diseredati che nella loro profonda onestà non hanno trovato altre alternative se non quella del duro lavoro.
In una Italia in pieno boom economico, da settima potenza industriale del mondo, quelle generazioni, con il loro alto tributo pagato, chi con la propria vita, chi con una vita di duro lavoro e privazioni, hanno eretto i pilastri per il riscatto sociale delle generazioni successive. Mio padre e quelli della sua generazione, per i quali la scuola rappresentava solo un luogo ove imparare a leggere e scrivere, hanno capito invece che per i propri figli la scuola rappresentava l’unica occasione di mobilità sociale e di crescita individuale e collettiva. La mia generazione pertanto beneficiando dell’investimento dei propri padri, e stata posta nella potenziale condizione di realizzare per quanto possibile i propri sogni.
Cogliendo quelle opportunità di riscatto e di benessere lasciateci in dote, noi, ieri figli, oggi padri, quale Italia abbiamo contribuito a costruire? Quale Italia lasceremo ai nostri figli?
Oggi guardo mia figlia quindicenne ed una amara constatazione mi affligge: in una Italia devastata dalla crisi economica che mette in ginocchio aziende e famiglie, dilaniata da una crisi morale che legittima politici ed alti funzionari alla cura del proprio “particulare”, che scippando ai nostri giovani le loro aspettative e i loro sogni crea conflitti generazionali, tra non molto in quell’Italia appunto, mia figlia potrebbe rinfacciarmi il fatto che sicuramente io ho ereditato da mio padre una Italia migliore.
Il benessere della nuova generazione di giovani non è paragonabile a quello dei padri, dei nonni, ecc…. Esso è di gran lungo maggiore di tutti quelli avuti fino ad oggi nella storia d’Italia. Noi che abbiamo trent’anni, non abbiamo di certo avuto tutto quello che hanno oggi i ragazzini, in termini di denaro, indumenti, giochi, nuove tecnologie, emancipazione, rapporti sociali… Materialmente stanno meglio, ma il furto dell’innocenza dell’adolescenza è evidente, oggi si diventa adulti presto, con tutti gli affanni e gli inganni dell’esserlo e farlo credere. La nostra spensieratezza fino a quasi diciotto anni di invadere i nostri quartieri senza un soldo in tasca e di divertirci con nulla è svanita, oggi a tredici anni te li ritrovi accanto su un bancone di un pub a bere birra e a sforzarsi di fare gli adulti. Il furto sta in questo, nel periodo più bello e irresponsabile della vita, nel periodo dove la vita è un gioco, oggi diviene depressione già a tredici anni. La crisi è di fasi, si resta giovani fino a quarant’ anni solo perché non ci si emancipa dalla famiglia, in realtà, purtroppo, i bambini oggi diventano adulti in fretta, e così imparano presto l’arte della simulazione necessaria per sopravvivere nella società. Rimangono se stessi solo nei primi anni della loro vita, la corruzione poi li coinvolge già nella pubertà. Hanno perso questo, e, come dicevi tu (come quelli della mia età), l’idea di avere un programma per la propria vita, ma il giovane reagisce bene alla precarietà, ha imparato a vivere giorno per giorno, non riesce a guardare più lontano, e questo, per forza di cose.