La scuola italiana ha dimenticato i talenti
Claudio Risè ( Il Mattino 20.09.2010)
Si fa più chiara l’impressione che il rallentamento economico non ci lascerà presto e che quindi diverrà decisivo (per gli individui e per i loro Paesi) il sapere. Il saper fare, la competenza, l’abilità tecnica, insomma la conoscenza. Ricompare così (ad esempio in Spagna) l’idea di «premiare i più bravi», scoprirli presto e sostenerne le capacità. Scoprire e valorizzare il talento, coltivare le capacità particolari e premiarle, è da sempre la base delle esperienze educative riuscite.
Prima della modernità erano dedicate alla formazione delle élites dirigenti, cui si dedicarono grandi Ordini religiosi, come i gesuiti o barnabiti, impegnati nella formazione di dirigenti politici e autorità scientifiche e cultural. Con l’industrializzazione l”educazione si estese, e qualche ordine religioso (come i salesiani di Don Bosco), cercò di portare l’identificazione del talento e lo sviluppo delle competenze dei ragazzi anche nell’istruzione professionale. Questi sforzi mantennero anche nelle grandi città industriali un’attenzione personale del docente ai talenti specifici dei singoli bambini, cercando di evitare un approccio del tutto standardizzato e impersonale. Che tuttavia alla fine prevalse.
Dopo la seconda guerra mondiale poi, la massificazione della cultura divenne la regola, contribuendo a creare nuove forme di disadattamento sociale e cognitivo cui le scuole, soprattutto statali dedicarono, giustamente, sempre più sforzi. In tutti i paesi, sopratutto europei, le risorse destinate a aiutare e sostenere gli alunni più problematici divennero sempre più importanti, mentre l’attenzione all’individuazione dei talenti fini con lo sparire.
Questo orientamento fu sostenuto dal principio, giusto, di aiutare chi era maggiormente in difficoltà. Si trascurò però il fatto che il bimbo in difficoltà lo era spesso (come appariva poi in terapia), proprio perché i suoi specifici talenti, le sue particolari potenzialità, non venivano affatto osservate nell’approccio standardizzato della scuola di massa. Che nella sua ansia di eguaglianza non, trovava il tempo di verificare se per caso quello che appariva un brutto anatroccolo non fosse invece un bellissimo cigno. I risultati non furono generalmente brillanti. I tipi e i modi delle disabilità psicologiche, cognitive e sociali continuarono a crescere, rincorse da personale «specializzato» (spesso in modo sommario). E le competenze acquisite dai giovani durante l’intero corso di studi si rivelarono insufficienti a garantire l’inserimento dei diplomati nella società.
Il caso italiano (Pensieri e Passioni se ne è spesso occupato) rivelato anche dall’ alta, disoccupazione giovanile, è drammatico, ma non l’unico. La società (le industrie, il commercio, i servizi), chiedono competenze e formazioni che la scuola continua a non fornire. Senza occuparsi, peraltro, della realizzazione di talenti e disposizioni personali, che non vengono veramente investigate.
E’ anche a questa situazione che cercano di rimediare progetti come quello annunciato dal direttore spagnolo della Formazione professionale, di creare gratuitamente corsi speciali per i migliori allievi fra i 12 e i 16anni, aiutandoli ad approfondire la materie in cui sono particolarmente interessati e dotati. Un orientamento attento a valorizzare le specifiche vocazioni personali esiste già nei paesi più dinamici: Cina, Israele, Stati Uniti e altrove. Premiare i più bravi non significa dimenticare i più sfavoriti: spesso si tratta delle stesse persone. Occorre una scuola attenta alla persona dell’allievo, e non innamorata dei propri «moduli» didattici.