Giugno, apri il pugno
05.06.2013, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere”)
All’interno le foto della presentazione del libro “Irpinia Magica”, tenutasi il 30 maggio alla Biblioteca Provinciale di Avellino. Alla kermesse, tra gli altri, Roberto De Simone e la sua compagnia teatrale.
Come a gennaio, così pure a giugno, il fratello mezzano dei dodici mesi, si attribuiva il potere di grandi cambiamenti. Nell’immaginario collettivo giugno è un mese di passaggio: da una parte chiude la porta alla prima metà dell’anno e dall’altra apre la porta della seconda metà. E come dicembre, era carico di misteri e di magia.
Giugno è infatti un mese speculare all’ultimo mese dell’anno: al solstizio estivo di giugno si oppone il solstizio invernale di dicembre; alla ricorrenza del S. Giovanni che piange (24 giugno), corrisponde la ricorrenza del S. Giovanni che ride (27 dicembre); a dicembre il sole comincia la sua fase ascendente, a giugno inizia il semestre discendente; e ancora, se nella notte di Natale si assiste al prorompere delle forze del bene, nella notte del Battista si scatenano tutte le forze del male.
La breve estate
La bella stagione sui nostri monti un tempo era assai breve. Poco più di tre mesi, dal primo taglio del fieno in giugno alla bacchiatura delle noci in settembre. L’estate, che si apriva in coincidenza della luna piena di giugno (il giorno otto), era la stagione dell’afa, dei temporali, delle grandinate dannose alle culture. La prima stagione lunga (la vernata), la seconda breve (la staggione): viernu luongu, staggione corta. Ecco un altro proverbio a conferma della brevità dell’estate: Lu cappottu me lu mettu a San Franciscu (4 ottobre) e me lu levu a Sant’Antoniu (13 giugno).
A causa della temperatura non ancora stabilizzata, come il riccio di una castagna che non si apre subito del tutto, così l’irpino in questo mese si scopriva poco per volta, come se aprisse il pugno con grande prudenza: Giugnu, aràpi lu puniu. Con i primi calori si era portati a vestirsi in modo leggero, ma non prima del tredici: Si nun vène lu Patuvànu, nun te luvà lu capànu (Se non giunge S. Antonio di Padova, non toglierti il pastrano). Ma il caldo arrivava all’improvviso e rovinoso; c’era un detto: S’è appicciato sant’Antoniu, per dire che il calore cominciava proprio dal giorno posto sotto la protezione del Santo.
Racconta una fonte di Bagnoli: prima, nessuna donna panificava in questa giornata, perché Sant’Antonio è nu Santo r’ fuocu. Le fornaie non accendevano i forni, temevano che il pane bruciasse o che prendesse fuoco tutto il forno. Chi era rimasto senza pane ne chiedeva una panella in prestito. Avrebbe panificato l’indomani.
Per il gran caldo non era raro il rischio della siccità: Giugnu, fuocu p’ tuttu lu munnu. In questa eventualità venivano cacciate in processione le statue di tutti i Santi, seguite dalla folla dei fedeli: i maschi si percuotevano le spalle con funi bagnate, le donne portavano sul capo corone di spine. Una pioggia a fine mese non è più utile alla campagna: L’acqua r’ San Giuvànnu serve sulu a llavà li panni.
La mietitura del grano
L’agricoltore doveva stare con la falce sempre a portata di mano: Giugnu, fàvici mpugnu; e per la fine del mese, comunque si presentava il grano andava mietuto: A S. Pietru, cumm’ è re granu, a ra mète! In verità, nelle zone più alte d’Irpinia la mietitura si effettuava per lo più nel mese di luglio, che per questo era chiamato dai contadini anche metùgliu. E così tra lo stormire stridente delle cicale, all’alba, uomini e donne armati di falce e allineati (mparanza) iniziavano a mietere le messi. Poiché il sole spaccava le pietre, sul capo gli uomini portavano cappelli di paglia e le donne le pezzuole legate sotto il mento. I mietitori si dividevano in due gruppi, di solito in maschi e femmine, e mentre tagliavano le messi a mannelli, di colpo partivano i canti.
La trebbiatura (scugnatùra) veniva effettuata con due sistemi: portando in tondo sull’aia un paio di buoi che tiravano una pietra piatta la quale, passando sui covoni (re gregne), separava i chicchi dalla spiga; oppure battendo sui covoni con i manganieddi, una specie di correggiati.
La spulatura era fatta con l’aiuto del vento: il lavoro era eseguito in due tempi. Prima con una pala lanciavano in alto il grano perché il vento spingesse lontano le pule leggere e lasciasse cadere ai piedi del contadino i chicchi di grano; e di solito erano gli uomini a fare questo lavoro, col capo protetto da un sacco di tela. Poi le donne riempivano il crivello (l’airòla) e lasciavano cadere dall’alto lentamente il frumento, esponendolo ai soffi del vento che portava lontano le pule, mentre i chicchi di grano cadevano sul telone steso ai piedi delle lavoratrici.
Festività nel mese
Con il mese di giugno prende inizio in Irpinia il trimestre estivo delle grandi feste padronali che un tempo esaltavano le peculiarità di ogni paese della provincia. Oggi, prima domenica del mese, ricorre la festa del Corpus Domini, che la civiltà contadina celebrava in modo solenne con dispendio di colori e di fiori. In occasione della processione del SS. Sacramento, portato sotto il baldacchino, tutto il paese veniva addobbato: alle finestre e ai balconi pendevano lenzuola ricamate e coperte variopinte; e, al passaggio dell’Ostensorio, dall’alto piovevano fiori e petali di rose, sicché le strade parevano lunghi tappeti fioriti. La partecipazione della comunità era corale; in ogni rione per ricevere il SS. Sacramento si allestiva un altare, dove il sacerdote sostava recitando una breve preghiera, prima di riprendere il percorso stabilito, che toccava ogni angolo del paese.
Il giorno tredici si festeggia S. Antonio da Padova, assai venerato in Irpinia (è patrono di Andretta, Bisaccia, Montefalcione, Pago, Torella). Il giorno quindici è San Vito, patrono di Aquilonia e S. Stefano del Sole, venerato come patrono dei cani. In alcuni paesi, come Vallata, si compiva questa pratica rituale per curare la malattia della propria bestiola: la portavano in giro tre volte attorno alla chiesa del Santo, con la convinzione che così sarebbe guarita dal male che l’aveva colpito. Il 25 ricorre la festa di Guglielmo, Patrono dell’Irpinia. Intorno a S. Guglielmo, che nel XIII secolo visse da eremita e da apostolo nella terra d’Irpinia (Montevergine, Laceno, Goleto), fiorirono numerose leggende. A Laceno, Guglielmo ebbe la visione del SS. Salvatore che gli impose di lasciare l’eremo (Ne stes in loco isto! gli disse) e di dedicarsi a una vita più operosa. Abbandonato l’altopiano Laceno, Guglielmo scese nell’alta valle dell’Ofanto, dove intraprese la costruzione dell’abbazia del Goleto. E qui un giorno addomesticò un lupo che gli aveva azzannato l’asinello, imponendogli il basto e costringendolo a trasportare le pietre che servivano per la costruzione del convento. Il 24 è S. Giovanni Battista, Patrono di Carife, Contrada, Quadrella, Villanova.
La notte di San Giovanni
Il periodo in cui cade il solstizio estivo, all’inizio dell’estate, già prima della civiltà cristiana era un tempo di prodigi e di premonizioni, tempus fatidicum. Poiché era ritenuto il capodanno del secondo semestre, in questa giornata si traevano gli auspici. In seguito la chiesa cattolica ha fissato nella data del 24 la festa di S. Giovanni Battista, a cui la religiosità popolare ha attribuito alcuni degli aspetti della tradizione precristiana. La notte tra il ventitré e il ventiquattro di giugno, per antica tradizione, era ritenuta un momento favorevole per ricavare presagi. La fanciulla che durante la notte riusciva per prima a vedere la testa decapitata di S. Giovanni nella luna, si sarebbe sposata entro l’anno. Ma la notte era anche il momento propizio per attivare un rito divinatorio. La fanciulla innamorata, per leggere nel cuore del suo amato, spiantava un cardo selvatico, e una volta bruciacchiato alla fiamma di una candela, lo poneva in un vaso d’acqua; posato il vaso col cardo sul davanzale della finestra, lo lasciava lì per tutta la notte. Se l’indomani lo trovava rifiorito, era segno che sarebbe durato per sempre l’amore con il suo ragazzo; se, invece, il cardo appassiva, voleva dire che presto lui l’avrebbe piantata.
Ad Aquilonia e a S. Andrea di Conza per un rito simile le ragazze ricorrevano all’albume: mettevano la chiara d’uovo in un bicchiere e la esponevano al sereno. Al mattino, dalla forma assunta dall’albume, sarebbero riuscite a desumere il mestiere dell’uomo che sarebbe stato il loro compagno per tutta la vita. A Calitri, Nusco, Bagnoli le ragazze attivavano il medesimo rito magico: ponevano in una paletta di ferro un pezzetto di piombo, e lo lasciavano sciogliere al calore del fuoco. Una volta che il piombo era diventato liquido, lo buttavano in una bacinella d’acqua. Dalla forma assunta dal piombo, di nuovo indurito, le ragazze pronosticavano il mestiere del futuro marito: una sega indicava un marito falegname, una penna un marito impiegato.
La ricorrenza della festività di San Giovanni non è solo un tempo pieno di premonizioni. Per alcuni aspetti è anche un tempus horrendum. E’ la notte maledetta in cui le donne, che sono venute al mondo a Natale, si mutano in janàre. Questa specie di strega nostrana che discende dalla strigem romana, volando sulle ali del vento, penetra nelle case in cui c’è un neonato, se lo porta via e lo mette a cuocere in una pentola per ricavarne il grasso con cui si unge sotto le ascelle per volare.
Nella notte è anche possibile vedere riflesse in un bacile con l’acqua le ombre di Erodiade e di sua figlia Salomè, che attraversano il cielo a cavallo di una trave di fuoco, spinte lassù – così narra la leggenda – da un soffio violento emanato dalla bocca di S. Giovanni, dopo che gli fu tagliata la testa. Le due donne, che avevano ottenuto da Erode la decapitazione del Santo, si scambiano parole di reciproca accusa. Precisano le fonti che possono sentire quanto si dicono madre e figlia solo coloro che hanno l’animo puro.
*da Irpinia Magica (di Aniello Russo)
_________________________________________
Le foto(Il 30 maggio 2013 ad Avellino, presso Biblioteca Provinciale, la presentazione del libro “Irpinia Magica”, con Roberto De Simone ed alcuni attori della sua compagnia teatrale, Paolo Saggese e l’autore)