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Il fuoco nell’immaginario degli irpini

18.09.2022, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 16.09.2012)

La stretta relazione con il sole è presente in molte ritualità, di origine pagana, celebrate nella nostra terra fino a qualche decennio addietro, molte delle quali con una chiara funzione propiziatoria.

Il giorni della settimana, secondo la nostra cultura rurale, si dividono in: giorni che sono nel segno del sole, della luce, del fuoco, come la Domenica; e in giorni che sono nel segno della luna, delle tenebre, della cenere. Quest’ultimi sono i giorni con la lettera “r”, come il mercoledì. La fede popolare degli irpini, poi, dedicava ogni giorno della settimana a una entità divina o a un Santo, e in particolare il mercoledì era sotto la protezione della Madonna del Carmine. Nella religione pagana il mercoledì era il giorno dedicato a Mercurio, il dio che accompagnava le anime nell’Oltretomba; inizia dal 1250 la tradizione cristiana secondo la quale chi indossa lo scapolare della Madonna del Carmine eviterà le fiamme dell’inferno. L’immaginario contadino, inoltre, sostiene che nella giornata di mercoledì si spalancano le porte dell’Aldilà; il che consente il contatto tra il mondo dei vivi e le anime dei morti; non solo, ma nella giornata di mercoledì è possibile pure evocare il demonio dal mondo delle tenebre.

Mammasanta

E il mercoledì era il giorno delle visite a Mammasanta, la santona di Guardia dei Lombardi, che ha operato nella prima metà del secolo scorso. Essa aveva poteri taumaturgici e divinatori, ma faceva pure pratiche di esorcismo. Possedeva, infatti, la facoltà di liberare gli impossessati dal demonio. Cadeva in trance: si stendeva sul letto, le mani giunte stringevano un crocifisso. Da lei si recava la povera gente, colpita da un male o da una sventura, proveniente finanche dalla Lucania e dalla Puglia, viaggiando a piedi o a dorso di asino o su un carro. Riporto la testimonianza diretta di una informatrice di Nusco, Michelina nata nel 1923, oggi ha quasi 90 anni. Questa donna nel 1930 circa, da bambina ebbe la ventura di conoscere la santona in una drammatica circostanza. Riporto la sua testimonianza: “Mammasanta io l’ho conosciuta di persona. Avevo sì e no sette anni. Due mesi prima, mentre ammazzavamo il maiale, il mio fratellino cadde in una caldaia d’acqua bollente. Tutte le notti mia madre se lo sognava: ora era un cagnolino, ora un coniglio, ora un gattino. Qualunque cosa fosse, cacciava lamenti strazianti. Mia madre raccontava piangendo a tutti i suoi sogni. Una volta, una comare le diede il consiglio: – Perché non vai da Mammasanta? Il mercoledì successivo ci andammo. Mia madre riempì di patate il suo grembiule, e a me diede da portare una dozzina d’uova. Quando fu il nostro turno, Mamma Santa diventò pallida, sbavò e crollò a terra. Quella cristiana stesa sul pavimento si sbatteva e sudava come se fosse caduta in un pozzo pieno d’acqua. Parlava con la voce di un maschio. Dopo un bel pezzo, si levò da terra e si pose a sedere sulla sponda del letto. Quando mia madre le ebbe raccontato i suoi sogni, lei serrò gli occhi e recitò questa formula (questo scongiuro risale al XIV secolo, e se ne conoscono versioni in latino e altre lingue): – Diu è unu e a ra cimma nu’ ng’è nisciunu; ddui, lu sole e la luna; tre, la SS. Trenetà; quattu, li vangilìsti: quattu Vangeli nnand’a Cristu; cingu, ru ppiaggu ri Cristu ncroci; sei ru cchiavu ri lu Paravisu; sette, la grotta ri Bettlemmu; ottu, l’ànumu justu; novu, l’arca ri Noé; rieci, li cumandamendi ri Diu; ùnnici, ru migliàra ri virginellu; rùrici, l’apostuli ri Cristu… – Di colpo Mamma Santa si levò in piedi e battendo tre volte il piede sul pavimento, riprese: … trìrici, Nimucu ri Diu, tu nun fusti a li patti: nui saglìmu ngielu e tu, riàvulu, qua nterra scatti! -. Accussì funìvu e ngi ne mannàvu. Ra quiddu juornu mamma nun se sunnàvu cchiù a fràtumu ca chiangìa.

I fuochi rituali

Nell’immaginario popolare al sole si oppone la luna, al giorno la notte; ma se il sole è la luce del cielo, il fuoco è la luce della terra. Questa relazione tra il fuoco e il sole è presente in molte ritualità, di origine pagana, celebrate nella nostra terra di Irpinia fino a qualche decennio addietro. Le stagioni in cui più frequentemente si accendevano all’aperto i falò erano: l’autunno e l’inverno; in un arco di tempo che andava dalla notte del due di novembre (la notte dei Morti) al 19 marzo, (festività di San Giuseppe). I fuochi, soprattutto quelli accesi nelle notti da S. Lucia a S. Stefano, come il maio di Baiano, erano chiaramente dei riti tendenti a sollecitare il ritorno del sole e a favorire l’allungamento della luce del giorno che nel periodo invernale giungeva al massimo della sua debolezza. Il fuoco nell’immaginario collettivo irpino aveva pure funzione apotropaicopropiziatoria; la brace, i tizzoni e la cenere rimasti dopo i falò (in particolare nella notte del 6 gennaio) non si gettavano via:

I tizzoni erano consegnati a chi era colpito dall’herpes (il fuoco di S. Antonio); gettando fuori dalla finestra il tizzone ardente, il paziente avrebbe anche gettato via il male fastidioso.

La brace era divisa, una paletta a ciascuno, tra quanti avevano un familiare a letto colpito da una qualsiasi malattia.

La cenere si spargeva sul tetto di casa perché tenesse lontano dalla famiglia le sventure, e scongiurasse i tuoni, i lampi e i temporali; oppure veniva sparsa come fertilizzante nei campi.

Il fuoco nei riti di purificazione e di fecondazione

a. Il rito di Segalavecchia

Assimilabile ai fuochi rituali all’aperto era il rogo in cui veniva bruciato il fantoccio di Segalavecchia, anche se questo rito era piuttosto una pratica propiziatoria della fecondità. Tra febbraio e marzo, il giovedì di metà Quaresima, cadeva il rito di Segalavecchia, che era ancora vivo nelle nostre campagne un cinquantennio addietro. La funzione del falò potrebbe essere la stessa degli altri fuochi, cioè propiziatrice del calore del sole, che d’inverno è debole. Sostengono altri antropologi che la Vecchia, immagine della Quaresima, rappresenterebbe la sterilità e, bruciandola, si compie un rito di fertilizzazione. Comunque sia, il rituale di Segalavecchia testimonia riti e usanze che risalgono alle religioni dei popoli italici indigeni. Dunque, al ventesimo giorno della Quaresima gruppi di giovanotti con tamburi e armonica giravano per i casolari di campagna, portando in spalle un fantoccio di legno vestito da Vecchia. E intonando un canto di questua (a S. Angelo), chiedevano soppressate, uova, vino:

Pe’ mill’anni a ssignorìa:

songo venuto pe la supersàta,

ca si nu’ me la vuò rà,

viermi nguorpo puozzi fa’.

(Per mille anni a vossignoria! Sono venuto per le soppressate: e se non me le vuoi dare, ti possano crescerti i vermi in pancia). Finita l’esibizione canora, i ragazzi salutavano ringraziando. Poi consumavano il cibo avuto in dono. Al termine della cena, il fantoccio di legno veniva segato a metà, di qui il nome di Segalavecchia, e poi gettato nel fuoco.

b. La pupa quaresimale

Anche il rito della pupa quaresimale aveva la stessa finalità del rito di Segalavecchia. Finito Carnevale, il primo giorno della Quaresima si costruiva una pupa di stoffa nera, che rappresentava una vecchia in atto di filare col fuso. Il corpo era fatto con una patata, in cui si infilzavano sette penne di gallina, sei nere e una bianca, quante erano le settimane della Quaresima. La pupa veniva inchiodata sul portone di casa. A ogni domenica, al ritorno dalla messa, si staccava una penna nera, mentre il sabato Santo, a mezzogiorno, al primo tocco della campana a gloria, si staccava la penna bianca. Al termine dell’astinenza era gettata nelle fiamme del camino con un senso di liberazione. Riferisce una fonte di Morra: “Una nostra contadina novantenne ha esposto all’uscio la quarantàna l’ultima volta pochi anni addietro, prima di chiudere la sua vicenda terrena”. Il fuoco nelle pratiche magiche Nell’ideologia della gente semplice la vita dell’uomo è legata strettamente alla natura, e solo dalla natura possono venire i rimedi ai mali che lo affliggono. All’effetto positivo delle terapie di medicina popolare concorrono i quattro elementi empedoclei: l’acqua dei decotti o degli infusi, il fuoco che serve per mettere a bollire le erbe, la terra con il complesso delle erbe medicinali; e l’aria, perché il preparato viene esposto all’aperto (a la serena) per una notte intera. Il fuoco era adoperato anche per alcune pratiche magiche, come in questo rito propiziatorio di magia imitativa. Per asciugare il latte nelle mammelle dopo il periodo dell’allattamento, la donna prendeva tre carboni di legna di quercia, e li spegneva con le gocce di latte spremute dal suo seno. Poi avvolgeva i carboni in un pezzo di stoffa, annodando il tutto con un filo. Quando veniva al mondo il secondo figlio, la stessa donna riprendeva i tre carboni e li rimetteva nella brace del camino. Appena i tre carboni si riaccendevano, spuntava di nuovo in abbondanza il latte nel suo petto. “Accussì mamma nosta ng’è mbaratu – afferma una informatrice di Campo di Nusco (registrazione del 1987) – e sembu accussì i’ aggiu fattu cu li figli mia”. Il rituale è basato sullo stesso principio che animava il passaggio da massaia a massaia del lievito (lu criscèntu, lo criscito, il lievito casalingo) per la panificazione: un’operazione sacrale, il cui effetto positivo era garantito proprio dalla continuità del rito, che non andava mai interrotto, una sorta di fuoco sacro perenne.

                                                                                                       

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